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Orlando Luis Pardo Lazo

 

Orlando Luis Pardo Lazo. Il suicidio del socialismo

 

da TELLUS folio

 

 

Mario Vargas Llosa con Yoany Sánchez al VII Foro Atlantico (Madrid, 08/07/2014)

11 Luglio 2014

 

Orlado Pardo Lazo e Yoani Sancez tempo fà a Miami.

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Ricordate la visione di Mario Vargas Llosa, risalente già alla metà del 1999? Il suo articolo allora pubblicato da El País (Spagna), “Il suicidio di una nazione”, provocò un cortocircuito, un altro, in cui l’accademia latinoamericana e, soprattutto, quella nordamericana, fecero sfoggio della loro migliore demagogia castrista per scagliarsi contro l’oggi premio Nobel per la Letteratura.

Il minimo che venne detto allora a Vargas Llosa fu “reazionario borghese”, per essersi presumibilmente messo contro la democraticissima volontà del popolo venezuelano. Poco importava che questo, in quanto tale, fosse ormai sul punto di scomparire per trasformarsi in quella categoria di guerra che è l’essere “bolivariano”, una parola uscita dall’oltretomba e una violenza totalitaria che aspirava a essere transtorica e sovranazionale e durare mille anni, come ogni Reich che si rispetti (ricordo ancora una rivistuola che circolava sull’isola per i soli membri del Partito Comunista, e che si batteva sfacciatamente in favore della fusione binazionale tra Cuba e Venezuela).

Hugo Chávez a quel tempo era più grande di Dio (secondo gli atei delle università libere del mondo), malgrado il fatto di essere stato un golpista con crimini al suo attivo, e senza aver mai dimostrato alcun pentimento per nulla. Lo si tacciava favorevolmente di essere il nuovo messia redentore. Si reclamizzavano come “carismatiche” le sue buffonate e il suo abuso di potere, le sue mastodontiche ingerenze nello spazio pubblico: cantore, poeta, comico, chiosatore, padre, accusatore, perdonatore, tutto tranne che semplice presidente. Si ridussero a zero i valori della democrazia venezuelana e si esaltò la miseria del paese. Anche all’estero si iniziò a rigettare la radicalizzazione tra venezuelani e a reclamare il vortice virtuoso di una rivoluzione. Volevano un prima e un dopo, un nuovo 1959 nel 1999, mentre Chávez si prendeva villanamente gioco del suo popolo in tutti i media di massa, dicendo loro che Cuba era una dittatura e che la proprietà privata era sacra e, soprattutto, che lui avrebbe lasciato il potere, quando infine nemmeno il cancro fu in grado di portarglielo via, e lui morì irresponsabilmente in carica, mentendo a proposito delle sue metastasi e lasciando in eredità un bullismo dittatoriale di risoluzione poco meno che impossibile.

Nel 1999 Vargas Llosa mandò all’aria la catarsi popolana di noi tutti, come qualsiasi intellettuale mordace il cui dovere è non essere mai compiacente: «La comunità internazionale se ne sbatte che ci sia o no democrazia in Venezuela, di modo che questa non muoverà un dito per frenare il sistematico disfacimento della società civile e delle pratiche basilari della vita democratica portato a termine dall’ex golpista, con l’entusiastica e cieca collaborazione di tanti incauti venezuelani. Una sinistra nuvola nera è caduta sulla terra da cui gli eserciti bolivariani sono partiti a lottare per la libertà dell’America, e temo che tarderà a dissiparsi».

Sembra che sia stato scritto questa mattina e non in un agosto di ormai 15 anni fa.

«Che un numero così elevato di venezuelani appoggi i deliri populisti e autocratici di quel ridicolo personaggio che è il tenente colonnello Hugo Chávez non fa di lui un democratico; dimostra soltanto i limiti estremi di disperazione, di frustrazione e di incultura civica della società venezuelana».

Allora, il peruviano scomodo, insopportabile, non manipolabile fu definito in qualunque modo: velleitario, autore di sfuriate, deboluccio nel momento dell’azione, prigioniero delle sue stesse frottole, uomo incapace di apprezzamenti e liberale più letterario che letterale, presidente frustrato e supplichevole dei poteri economici internazionali (specie degli Stati Uniti) e, in ultima istanza, uno scriteriato con sintomi di ignoranza.

È passato il tempo, ma non il castrismo. La comunità internazionale difende ancora a spada tratta il regime dell’Avana, che è l’essenza maligna del regime di Caracas (entrambi a fronteggiare lo stesso imperialismo di sempre, che vuole distruggere la sovranità delle nostre nazioni vittime del capitalismo).

L’intero continente sembra ancora oggi muoversi contro quel pezzo di ghiaccio di Mario Vargas Llosa ne El País. I morti a Cuba e in Venezuela ammontano a migliaia dall’inizio del socialismo, ma si tratta di cadaveri che in America Latina non hanno prestigio intellettuale: non contano nelle conferenze degli accademici, né nelle statistiche dell’ONU e dell’OEA (Organizzazione degli Stati Americani, ndt). Noi cittadini liberi siamo soli. Ci hanno lasciati soli. Come Vargas Llosa. Malgrado, o proprio per, il suo Premio Nobel così tardivo.

Ci troviamo tra la dittatura e la patria. Ed è già molto difficile distinguere quale opzione sia la peggiore. Per questo ce ne andiamo, è un altro modo di morire. Ci allontaniamo per sempre perché nessuno crede a questi lugubri teatri di operazioni con cui le sicurezze dello Stato (o sarà una sola sicurezza?) continuano a governare la nostra regione, creando addirittura false dissidenze e opposizioni “democratiche” per non smettere di abbindolarci e farci perdere tempo. E la vita.

Quando diciamo “basta barbarie!” a stento stiamo dicendo “addio”.

Addio, dittatura. Addio, patria.

 

Orlando Luis Pardo Lazo

(da El Nacional, 8 luglio 2014)

Traduzione di Silvia Bertoli

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ORLANDO LUIS PARDO LAZO, UNA SELEZIONE

Tutto Orlando Luis Pardo Lazo su NUOVACUBA

di Gordiano Lupi

una selezione

Orlando Luis Pardo Lazo (1971) è forse il più letterario dei blogger alternativi cubani e per questo non è facile tradurre i suoi testi in un buon italiano. Orlando è un poeta che gioca molto sulle assonanze linguistiche, speso intraducibili in italiano. Gestisce due blog: Boring Home Utopics  – che pubblica le sue stupende fotografie dell’Avana – e Lunes de post-revolución – che contiene riflessioni poetico narrative sulla Cuba contemporanea. Scrittore e fotografo di ottimo livello, fuori dai circuiti ufficiali perché non allineato, risiede in Centro Avana. Ha pubblicato alcune riviste cartacee e telematiche uscite irregolarmente. A Cuba ha pubblicato alcune pregevoli raccolte di racconti:Collage Karaoke (Letras Cubanas, 2001), Empezar de Cero (Extramuros, 2001),Ipatrías (Unicornio, 2005), Mi nombre es William Saroyan (Abril, 2006) e Boring Home (autoproduzione, 2009). Boring Home è la sua ultima opera – polemica e trasgressiva – presentata in maniera alternativa alla Fiera del Libro dell’Avana da Yoani Sánchez, ovviamente non solo fuori dal programma ma persino all’esterno della struttura, nel parco adiacente alla fortezza dove si teneva la Fiera. Orlando Luis Pardo Lazo è uno dei fondatori della rivista Voces che trovate qui:  https://vocescubanas.com/

Traduzione di Gordiano Lupi

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IL MONDO VOLAVA SU UN CAVALLO BIANCO

di Orlando Luis Pardo Lazo

da VOCES 2 – settembre 2010

Canzoni schifose che segnarono a morte il nostro cuore povero e provinciale. Ballate di poco valore, certamente. Poesie sdolcinate che i nostri antenati interpretarono mentre svolgevano i loro lavori domestici del fine settimana o mentre di notte facevano mediocremente l’amore (un altro lavoro domestico).

Cattiva musica. Pessima. Inimitabile e senza paragone. Kitsch tropicale da alcova. Boleri light e melodrammi pop-corn di cornuti e ricchi uomini maturi. Strofe spremute con versi indimenticabili, eufonie che ci accompagneranno ben oltre il Giudizio Finale di fronte a un pubblico ministero dello Stato o di Dio.

Con una simile colonna sonora abbiamo succhiato il latte dalla madre e abbiamo appreso le prime parole di spagnolo. Una specie di spagnolo. Melodie genetiche, generazionali, geniali nonostante la loro ingenuità. Tutto un background di quartieri distrutti sotto le grida dei neonati che siamo stati e gli onanismi onirici degli adolescenti invecchiati senza mai esserlo completamente.

Oggi Cuba viene messa a tacere a forza di grida di ripudio e demagogia politica, pasto teatrale per il volgo: ultimi movimenti niente affatto estetici di una Rivoluzione il cui repertorio musicale non farà sentire niente di nuovo.

Oggi siamo come zombi in chiave di sol sostenuto maggiore, il più noioso degli accordi. Monotonia di un pentagramma che è rimasto con i microfoni in bianco. Nessuno ricorda le minacce apocalittiche del Premier del nostro unico Partito, così come nessuno rammenta le parole dell’ultimo successo della stagione delle ballate.

Cancelliamo scene. Abbandoniamo abitazioni quasi al ritmo della risacca. Cuba come paronimo perfetto di Coda.

E, allora, quando alla fine la speranza prende le sembianze di una malattia endemica, quando sappiamo di essere soli in una generazione così vasta e che non faremo niente che dopo valga la pena di pensare, allora, stanchi di dare testate contro i fantasmi suicidi, senza saperlo ci trasformeremo in funzionari pragmatici, quando lo scintillare del giorno dopo giorno sarà una nebbia sorpassata dalle nostre cateratte concettuali di gente che si è lasciata rubare il tempo che gli è toccato vivere, allora, il dono di quella musica della nostra stupida infanzia ci aspetterà ancora lì, come un visto per salvarci, come un talismano contro le dittature di tipo totalitario o democratico, come un cuscino dove appoggiare la nuca e chiedere perdono all’amore per aver chiacchierato troppo in suo nome e per averlo praticato così poco.

La cultura intera sarà condensata solo in due o tre frasi di paccottiglia che esprimeranno meglio di qualunque trattato quel che siamo stati senza saperlo. Endecasillabi indemoniati dai quali non aveva senso tentare la fuga, perché tra le loro metafore mefitiche, in alcune delle loro innumerevoli sdolcinate sonorità (meglio della falsa intelligenza dei veri poeti), risuonerà l’anima segreta di una truffa in fase terminale chiamata cubanità.

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Il futuro

di Luis Orlando Pardo Lazo

https://orlandoluispardolazo.blogspot.com/

Il futuro è fossile.
Il futuro è foul.
Il futuro è una pioggerellina davanti alle macchine fotografiche.
Il futuro è un rumore parassita nei microfoni.
Biografie che si scoraggiano, che non si scelgono.
Piccole esistenze che si gonfiano di pioggia e dolore.
Memoria scalcinata come le colonne con osteoporosi e le facciate screpolate di questa città.
Il futuro è fede. Una fede senza fedeli, senza Fidel.
Il futuro è fascismo o per lo meno facinoroso.
Il futuro è felicità, territorio dell’immaginazione impossibile.
Il futuro sono io.
Quando il presente torna a essere precario, quando l’illusione è invisibile, quando la parola non basta neppure per ripetere parole, quando ogni discorso è demagogia,
quando il silenzio ci avvolge e ci fa sprofondare,

circondandoci di una pace postuma, antica.
Ascolta il silenzio del clarino.
Il futuro è scalciare alla deriva.
Il futuro è pedalare la disfatta: bicitaxi, macchine da cucire o da costruzione, zattere con palline, tastiere di computer preistorici, aste, casse, muri, frammenti di Rivoluzione dopo la Rivoluzione.
Il futuro è reazione intensa.
Il futuro è un’Avana fuori da una Storia eccessiva.

Il futuro è mancanza di istologia.
Avana nostra che stai nel fango, nazionalizzato sia sempre il tuo nome, vengano a noi le tue rovine, sia fatta la tua violenza così in terra come nel suo ricordo, sia filmato il tuo futuro che non è mai stato, e liberaci da tutto eccetto che dal tuo mare.

Il futuro è umor putrido, pietroso, patrio.

Il futuro è un buco. Un’eco.
Il futuro è fumo. Umiliazione dell’umiltà.
Il futuro è adesso. Ologramma dell’oggi.

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HIGHABANA

di Orlando Luis Pardo Lazo

https://vocescubanas.com/boringhomeutopics/

La Habana libre es más ligera que el aire.
La ciudad concreta y cruel a vuelo de pájaro se desvanece, se hace otra, renace o acaso vuelve al pasado que alguna vez abortó.
Las nubes son parches de alivio contra la batida burda del sol.
La Habana resulta respirable en las alturas, cuando su atmósfera simula ser menos claustrofóbica pero igual criminal.
La Habana desde un helicóptero o al menos un alero es un magnífico trampolín para cerrar los ojos y masticar el abismo.
Ciudad ingrávida, incongruente, inusual.
Paisaje de tramoya, cinematografía de gente genial como todos nosotros antes.
Paraje perfecto para planear en una racha de aire.
Páramo donde caer por fin en picada, hasta reventarnos contra las olas muertas del asfalto o la tabla sólida del mar.
Un día lo haremos tú y yo, sin duda ni delirio, no en la retórica sino en la realidad más rala y real.
De hecho, todos lo haremos un día o, mejor, una de esas medianoches sin límite donde la luna gotea demasiado cerca de nuestra corteza cerebral.
Tic… Tac…
No es un augurio ni una amenaza, es la certeza crónica de una invitación.
Tú y yo, repito.
Todos, pero no juntos.
La violencia del vuelo ha de ser un arte por separado.
Una comunión de todos contra todos.
Una complicidad de la que nadie a tiempo se enterará.

 

HIGHABANA

di Orlando Luis Pardo Lazo

https://vocescubanas.com/boringhomeutopics/

L’Avana libera è più leggera dell’aria.
La città concreta e crudele a volo d’uccello svanisce, diventa un’altra, rinasce o forse torna al passato che una volta abortì.

Le nubi sono pezze di sollievo contro i fendenti fiammeggianti del sole.
L’Avana appare respirabile nei cieli, quando la sua atmosfera finge

d’essere meno claustrofobica ma ugualmente criminale.

L’Avana da un elicottero o almeno da una gronda è un magnifico

trampolino per chiudere gli occhi e masticare l’abisso.

Città non gravida, incongruente, inusuale.

Paesaggio  scenografico, cinematografia di gente geniale come tutti noi prima. Posto perfetto per planare in una scheggia d’aria.
Terreno dove infine cadere in picchiata, fino a infrangersi contro le onde morte  dell’asfalto o la tavola solida del mare.

Un giorno lo faremo tu e io, senza dubbio né delirio, non per retorica ma nella realtà più rara e reale.
Di fatto, tutti lo faremo un giorno o, meglio, una di queste notti senza

fine quando la luna gocciola troppo vicino alla nostra corteccia cerebrale.

Tic… Tac…
Non è un augurio né una minaccia, è la certezza cronica di un invito.

Tu e io, ripeto.

Tutti, ma non insieme.
La violenza del volo deve essere un’arte per separati.

Una comunione di tutti contro tutti.

Una complicità della quale nessuno si renderà conto in tempo.

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Me ne sono andato da Cuba perché…

Me ne sono andato da Cuba per…

di Orlando Luis Pardo Lazo

da Diario de Cuba – https://www.diariodecuba.com

1. Me ne sono andato da Cuba perché a Cuba è impossibile dire ti voglio bene.

2. Me ne sono andato da Cuba perché non ho trovato un cacciavite a stella.

3. Me ne sono andato da Cuba perché Fidel era eterno.

4. Me ne sono andato da Cuba perché Fidel doveva morire.

5. Me ne sono andato da Cuba perché le buste da lettera avessero un odore.

6. Me ne sono andato da Cuba per motivi strettamente economici.

7. Me ne sono andato da Cuba senza rendermene conto.

8. Me ne sono andato da Cuba perché il Duca Hernández se ne andò da Cuba.

9. Me ne sono andato da Cuba per guardare da un telescopio.

10. Me ne sono andato da Cuba per non scopare più alla cubana.

11. Me ne sono andato da Cuba per visitare un sexy-shop.

12. Me ne sono andato da Cuba per diffondere i video su YouTube.

13. Me ne sono andato da Cuba per non conoscere tanta gente.

14. Me ne sono andato da Cuba perché il raffreddore mi stava uccidendo.

15. Me ne sono andato da Cuba per comprare libri pubblicati in edizioni decenti.

16. Me ne sono andato da Cuba per leggere Buesa.

17. Me ne sono andato da Cuba per abbonarmi a un giornale qualsiasi.

18. Me ne sono andato da Cuba per viaggiare seduto.

19. Me ne sono andato da Cuba per visitare un giardino zoologico con gli animali.

20. Me ne sono andato da Cuba perché mia mamma è morta.

21. Me ne sono andato da Cuba perché nessuno mi pianga.

22. Me ne sono andato da Cuba per usare il telefono mobile con disinvoltura.

23. Me ne sono andato da Cuba per non mangiare tanto riso.

24. Me ne sono andato da Cuba per mangiarti meglio.

25. Me ne sono andato da Cuba per pubblicare un romanzo che non abbia niente a che vedere con Cuba.

26. Me ne sono andato da Cuba per pubblicare il grande romanzo su Cuba.

27. Me ne sono andato da Cuba per girare la seconda parte di Memorie dal sottosviluppo.

28. Me ne sono andato da Cuba perché la musica del Festival del Cinema era molto triste.

29. Me ne sono andato da Cuba perché Eslinda Núñez è invecchiata.

30. Me ne sono andato da Cuba per ballare dal vivo con Willy Chirino.

31. Me ne sono andato da Cuba per farmi cucire un vestito su misura.

32. Me ne sono andato da Cuba per guidare a più di 200 chilometri orari.

33. Me ne sono andato da Cuba per non dover mostrare alla polizia il documento.

34. Me ne sono andato da Cuba per collegarmi wi-fi in un parco.

35. Me ne sono andato da Cuba per vedere qualche Natale.

36. Me ne sono andato da Cuba per vedere se la neve era vera.

37. Me ne sono andato da Cuba per vedere cosa succedeva.

38. Me ne sono andato da Cuba per poter comprare i biglietti della lotteria.

39. Me ne sono andato da Cuba per iniettarmi un litro di silicone.

40. Me ne sono andato da Cuba per curarmi una malattia degenerativa.

41. Me ne sono andato da Cuba per fare uno sciopero.

42. Me ne sono andato da Cuba per giocare a golf o biliardo.

43. Me ne sono andato da Cuba per fondare una ONG.

44. Me ne sono andato da Cuba per vedere i rappresentanti.

45. Me ne sono andato da Cuba perché i miei figli avessero un’altra nazionalità.

46. Me ne sono andato da Cuba per travestirmi senza richiamare l’attenzione.

47. Me ne sono andato da Cuba per innamorarmi di un altro cubano.

48. Me ne sono andato da Cuba per tornare a un concerto di Silvio.

49. Me ne sono andato da Cuba per tornare.

50. Me ne sono andato da Cuba per mandare pubblicamente a quel paese la madre del Presidente.

51. Me ne sono andato da Cuba per votare chi mi sembra il migliore.

52. Me ne sono andato da Cuba per non dover votare.

53. Me ne sono andato da Cuba per non sentir parlare di comunismo per almeno cent’anni.

54. Me ne sono andato da Cuba per iscrivermi a un partito comunista che si rispetti.

55. Me ne sono andato da Cuba per incompatibilità di carattere.

56. Me ne sono andato da Cuba per fargli un dispetto.

57. Me ne sono andato da Cuba per chiedermi perché avrei dovuto andarmene.

58. Me ne sono andato da Cuba per non dover rispondere perché non dovrei tornare.

59. Me ne sono andato da Cuba perché non lo so.

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Pessima poesia

di Orlando Luis Pardo Lazo

Lunes de post-revolución

https://orlandoluispardolazo.blogspot.com/

Ascoltando Mariela Castro all’UNEAC

In una di quelle omeopatiche battaglie cubane contro l’omofobia

Vedendola ridere linda e pulita

Con la grazia guerrigliera ma borghese di sua madre giovane negli anni 50

Accarezzando il microfono come un miracolo

Tra le sue mani sinonimo di Donna Nuova

Assaporando la retorica della sua visione plurisex

Nel cuore acritico e monocorde di un’istituzione culturale

Ascoltando Mariela Castro all’UNEAC

Penso a tutti i grandi finocchi

Che fecero la storia dell’imene uomo su quest’isola

Tipi fatti tacere a pedate prima

E rinchiusi a mosca cieco dopo

Emarginati all’inizio e isolati in ultima istanza

Corpi che non trovarono posto nel canone bigotto ma promiscuo di Cuba

Uccelli regolamentati in una poesia della vergine Piñera

Compagni di banco di ogni scuola materialistica e dialettica

Glamour di tre per culo con le gengive

Succhiando un fil di ferro spinoso nelle UMAP degli anni 60

Spazzando sale mortuarie o come custodi di bagno

Cammellieri dei loro stessi cadaveri senza vibratore

Nei cinema complici o autobus squallidi di buon mattino

Sopravvivendo al teatro real-socialista degli anni maschilisti

Piccole esistenze mai narrate dalla tribuna stanca della rivoluzioncina mondiale

Ascoltando Mariela Castro all’UNEAC

In una di quelle omeopatiche battaglie cubane contro l’omofobia

Nella stessa cappella dove Padilla si definì etero

Su richiesta della polizia politica degli anni 70

Penso a tutta quella società incivile del piacere in libertà

Dissidenti del desiderio come maledizione da portare dentro

Fino a fuggire dal paese paraplegico in una barca di carta igienica negli anni 80

O aspettando il processo di rettificazione dei giusti e delle tendenze negative

Infiltrati nelle code per le protesi dentarie gratuite in un policlinico degli anni 90

Invecchiati senza essere invitati all’ennesimo Congresso del Partito negli anni zero

Sepolti nella terra santa del post proletariato mondiale

Amabili e pieni di amarezza

Chiedendo al Parlamento di poter potare i loro peni patriottici

Senza una sfilata

Senza una pellicola

Senza una poesia

Dove vomitare tutto l’ingiusto tempo umano che ebbero in sorte.

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CHUCHO E LA FINE DELLA CLASSE OPERAIA

di Orlando Luis Pardo Lazo

https://orlandoluispardolazo.blogspot.com/

Non sono stati Fidel e Raúl a licenziarlo dal suo posto di lavoro. È stata la vita a farlo e senza bisogno di aiuto.

Chucho è morto oggi.

Erano mesi che orinava troppo. Era anemico. Aveva poco appetito. Era dimagrito.

I dottori scoprirono una bolla compatta nella sua prostata. Fecero un prelievo, ma il campione non bastava in laboratorio. Fecero un altro prelievo. Sanguinò. Bestie di studenti che risparmiano anestesia, Dio solo sa il motivo. Chucho disse che non avrebbe sopportato un altro esperimento selvaggio. Continuò a sanguinare nelle feci. Vomitò. Lividi sul corpo. Ebbe uno scompenso. La lingua aggrovigliata in meno di mezz’ora. La vista alla fine del mondo. Morto nel Calixto García senza dare tempo a nessuno (non gli avrebbe fatto niente neppure la claque giovanile bolivariana). Vegliato questa notte tra giovedì e venerdì presso l’impresa di pompe funebri di Infanta, La Nacional.

Mia madre è rimasta lì tutta la notte. Io me ne sono andato. Non sopporto la luce fioca e la mediocrità istituzionale che ci ostacola persino dopo morti.

Chucho è stato un lottatore. Aveva più di settant’anni. Senza figli. Senza moglie. Per puro caso ha avuto vicino mia madre.

Si erano conosciuti nella fabbrica di bambole Lilí, proprio quando mia madre si stava innamorando di mio padre, l’onesto impiegato del Dipartimento Personale che aveva quasi vent’anni più di lei.

Io nacqui nel 1971. Mia madre si mise a fare la casalinga. Chucho attese, proprio come uno di quei personaggi di García Marquez che lui non ha mai letto. Passò un secolo o un millennio.

Quando tutti furono invecchiati, Chucho cominciò a frequentare la nostra casa di Lawton. Arrivava prima dell’alba. Aiutava a fare quel che poteva. Vecchietto arzillo con più energia e onestà della maggior parte dei giovani, incluso me stesso.

In quel momento mio padre sembrava il padre di mia madre. Chucho e lui giocavano a scacchi sotto un porticato degli anni Novanta. Mio padre aveva ancora la forza per sconfiggerlo. Aveva il vantaggio storico di chi ha avuto le mani libere per dedicarsi a lavori di tipo intellettuale.

Chucho, il tuo è stato un lavoro manuale. La lotta. Da gestore della Lotteria negli anni Cinquanta a Segretario di Sezione in un Partito Comunista di Cuba già stanco del comunismo cubano.

Sono le tre del mattino a Cuba. Scrivo nudo nella mia stanza, mentre lui riposa nei locali de La Nacional di Infanta, sala A (terzo piano), non molto lontano dalla sua casetta in un labirinto di calle Manglar. La notte ci unisce nella desolazione per il vecchio Chucho e per l’adolescente tardivo Landy.

Qualche volta, quando mio padre era già morto, lui avrebbe voluto dettarmi le sue memorie, ma con delicatezza ho sempre rifiutato. Non me ne pento. La sua vita non meritava l’inganno d’un racconto. La sua vita era una cosa oltremodo concreta. Un enigma. Come la parola “chucho”, per esempio, anche se tra i suoi amici quasi nessuno conosceva il suo nome e ancor meno il suo cognome (sempre che l’abbia avuto).

Chucho, ci mancherai.

Chucho, che avresti potuto essere mio padre nel vortice proletario dei lavori volontari degli anni Sessanta.

Chucho, che non ci credevi più però confidavi ancora nella Rivoluzione.

Con la tua grafia da cavallo che io mettevo in bella copia con la macchina da scrivere Underwood che era stata di mio padre. Verbali di riunioni e inviti a riunioni. Questo mi dava Chucho da dattiloscrivere.

Tac tac.

Tic tac.

È finito il tempo della nostra classe sociale.

Con te muore lo spirito del sottoproletariato. Povero, ma onesto. Trovavi soluzioni senza mettere di mezzo gli altri. Avevi un sorriso da personaggio cittadino uscito da un racconto di Lino Novás Calvo. Gridavi al telefono come un contadinotto montanaro. Questo eri. Un guerrigliero titubante in una reggia abbandonata che i suoi padroni originali chiamarono L’Avana.

L’organo ufficiale del Partito Comunista di Cuba di sicuro non si renderà conto della “perdita rilevante di un compagno di strada”, ma con Chucho è caduto il capo d’un tempo che nessun cubano rimpiazzerà. In un certo senso, per me è come se fosse morto Fidel (si assomigliavano molto nell’aspetto fisico quando si approssimava la fine).

Chucho, non voglio continuare a parlare di te usando la seconda persona singolare, quel vizio vuoto di chi dispensa dolori.

Arrivano le prime ore del mattino e presto albeggerà su questa Avana post rivoluzionaria. Mia madre è rimasta ancora più sola. Il tuo amore per lei è un poco più vicino a realizzarsi in un luogo che forse non esiste.

Chucho, mi dispiace. Addio.

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IL MONDIALE DELL’AVANA

di Orlando Luis Pardo Lazo

da DIARIO DE CUBA

https://www.diariodecuba.net/deportes/73-deportes/2209-el-mundial-de-la-habana.html

La sala è al gran completo. Da ogni parte si sfoggiano bandiere e magliette di ogni paese eccetto Cuba. Vediamo vuvuzelas improvvisate fatte di cartone e materiale radiografico. Ci sono persone perfettamente aggiornate o del tutto ignoranti di cose calcistiche. Sospettosamente soli o insieme a famiglie rumorose. Ai limiti della repressione o della transizione, due parole imprescindibili quando è il momento di far festa, con o senza la sorveglianza del Grande Fratello e del Cardinale. Nelle sale dei cinema Yara e Payret di Centro Avana, nel quartiere Vedado, senza la minima speranza di ottenere un visto e un biglietto aereo transoceanico, per cinque pesos nazionali, anche noi cubani possiamo essere protagonisti del nostro piccolo mondiale calcistico 2010.

Sono giorni eccezionali sull’Isola. Un periodo durante il quale ci sintonizziamo con la contemporaneità planetaria, una sorta di update sportivo in tempo reale. Persino la televisione trasmette l’evento in diretta su diversi canali, una tecnica ormai quasi dimenticata per mancanza di perizia o per eccesso di prevenzione politica. La sola cosa certa è che finalmente abbiamo un argomento da poter commentare liberamente con i vicini che normalmente non scambiano con noi neppure mezza parola.

Andare al cinema oggi vuol dire recarsi in Sudafrica: se Mandela non viene all’Avana, noi avaneri andremo da Mandela. Il resto di Cuba continua a essere off-line, ma nella capitale la tessera bianca del Ministero degli Interni viene abolita grazie alla tessera gialla e rossa della FIFA.

Pure se non ha superato il turno eliminatorio, Cuba si è qualificata per giocare questa Coppa del Mondo. Le auto mostrano adesivi e insegne d’importazione, mentre tra le buche del quartiere spuntano come funghi porte senza rete e scritte del secolo passato. Scalzi o con scarpe da tennis di poco prezzo, con pantaloncini ma senza maglietta (questo genere di abbigliamento è un lusso per andare al cinema), va di gran moda tutto ciò che può essere preso a calci in pubblico. E fortunatamente non è un supplemento di atti di ripudio organizzato dallo Stato, ma una spontanea ed effimera moda cittadina. Il calcio come speranza per il futuro.

Gli annunciatori specializzati sono le persone che reclamano democrazia in mezzo a questa gran confusione. Lanciano concorsi ai quali si partecipa usando il telefono cellulare. Parlano senza censura dei vantaggi di Twitter e sono cultori fanatici delle chat. I titoli della stampa internazionale vengono subito commentati sugli spazi liberi di Internet. Grazie a tutto questo lo show mediatico delle Tavole Rotonde trasmesse dalla televisione cubana si trasforma in un mediocre spettacolo.

Per questo motivo, ogni quattro anni, Cuba entra a far parte del Primo Mondo occidentale e tutto il resto è retorica reazionaria. Una simile porzione di illusione si diffonde durante l’estate insidiosa della patria, dove gli stadi si rovinano ogni volta che vengono riparati, ed è sufficiente per resistere a tutte le ristrettezze del prossimo piano quinquennale (che spesso diventa cinquantennale).

La cosa peggiore di questo Mondiale del Sud Avana Africa 2010 probabilmente è l’odore. La stoffa dei sedili è impregnata da varie generazioni di secrezioni compatriote di ogni genere e qualità. Sperma, sudore e lacrime del post proletariato cinefilo: “lanciatori” golosi di un altro tipo di gol, pure senza aria condizionata. L’atmosfera amorosa non conserva neppure uno specifico glamour, ma soltanto un certo fetore di sabbia logora, teatro dei perdenti. Ave Castro, coloro che stanno per qualificarsi ti salutano: Argentina, Brasile, Germania, Spagna, tra gli altri surrogati di Cuba. Ma l’eleganza socialista non si conquista neanche per decreto ministeriale.

Mi piacerebbe che la finale non si giocasse mai. Oppure, se proprio deve arrivare che non avesse fine. Cuba congelata in un recinto di energia cinetica. So per esperienza che, dopo il fischio finale, resta un assordante silenzio domenicale. Uno sfiancante vuoto di memoria (il popolo profano non ricorda bene chi è stato eliminato nelle varie fasi). Una sistematica assurdità. Una solitudine sociale eccessivamente in compagnia (pare una poesia di Benedetti, che a sua volta sembra un cognome da calciatore).

Quando verrà innalzata la coppa, arriverà la fine delle trasmissioni. I cinema Yara e Payret torneranno a proiettare i loro files digitali in bassa risoluzione, tra maschere sonnolente e squallidi custodi. Il pianeta non si allontanerà come un oggetto volante non ideologico all’altro lato dello schermo. La vita sportiva cederà il passo a un’economia precaria e a una politica pedestre. Le Tavole Rotonde televisive recupereranno la loro atmosfera anaerobica sulle reti televisive e radiofoniche. E il sipario di pixel calerà un’altra volta, con maggior forza ufficiale, sopra la nostra Avana al margine della Storia (raffigurazione di un Mandela che non è venuto, che non abbiamo visto).

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LETTERA APERTA AL MONDO
MA NON AD ABEL PRIETO
(MINISTRO DELLA CULTURA DI CUBA)

di Orlando Luis Pardo Lazo
https://orlandoluispardolazo.blogspot.com

La settimana scorsa ho fatto un’esperienza eccezionale. Per due giorni ho parlato davanti a una macchina da presa, impegnato a collaborare alla realizzazione della docu-fiction Trocadero 162, bajos, del regista Tomás Piard, che vuole raccontare gli ultimi anni di José Lezama Lima. Il film narra l’ostracismo finale del nostro più grande scrittore nella sua stessa patria e la sua resistenza contro il vuoto della società cubana fino alla morte avvenuta nell’agosto del 1976. La pellicola cerca di porre rimedio all’ignoranza abissale che ancora oggi esiste attorno alla sua scrittura, non solo tra il pubblico dei profani ma anche tra gli universitari dell’Isola (persino nell’esilio Lezama Lima è come uno strano fossile, ma almeno è entrato a far parte dei programmi di insegnamento).
Sul set dove si girava il film ho incontrato una studentessa di Storia e una giovane professoressa della Facoltà di Arti e Lettere, entrambe dell’Università dell’Avana. Ho dialogato da vicino con due persone che hanno avuto il piacere di assaporare l’amicizia, la rassegnazione, il sorriso e persino la mancanza dell’ultimo Lezama Lima: il poeta incompiuto di Oppiano Licario e il narratore inedito di Fragmentos a su imán, un’ombra così piñeriana che nuotava addormentata con le mani legate. Virgilio vomitò la sua paura, ma Lezama Lima se la inghiottì. (Orlando fa riferimento allo scrittore cubano Virgilio Piñera e alle sue dichiarazioni – so solo che ho paura, molta paura – contro il regime dopo il discorso di Castro agli intellettuali, ndt).
L’ultima opera di Tomás Piard – che nel 2008 ha realizzato con l’ICAIC il lungometraggio El viajero inmóvil(Il viaggiatore immobile) su Paradiso (capolavoro di Lezama Lima, ndt) – è già in fase di montaggio presso la Facoltà di Arte dei Mezzi di Comunicazione Audiovisivi, e debutterà domenica 19 dicembre  2010, giorno del compleanno di Lezama Lima. Abbiamo lavorato molto, ragionando sull’opera del grande scrittore per ore e ore di riprese. La produzione di UNIÓN non ha ripagato lo sforzo. Adesso si aggiunge la beffa che in nessuna delle sequenze di Trocadero 162, bajos compariranno il mio volto e la mia voce. Lo Stato cubano cancella ancora una volta, per un’assurda decisione politica, le tracce insignificanti e magnifiche di Orlando Luis Pardo Lazo (come un Re Mida al contrario, tutto quel che tocco si trasforma in orrore).
Qualche funzionario, nelle segrete stanze del Ministero della Cultura, ha preso la decisione più irrispettosa e si è lasciato sfuggire una sforbiciata dispotica. La nostra nomenklatura fatta di menzogne vomita la sua sterilità sulla memoria senza pace di José Lezama Lima. Ripetiamo il crimine di Carneade contro gli scrittori cubani. Oggi come ieri. Continuiamo a stigmatizzare come terapia occupazionale. Cambierà l’universo, ma i censori non cambiano: continuano a essere mantenuti dall’infantilismo del potere che inventa nemici per risolvere problemi. Se accadono certe cose con tale disinvoltura in pieno novembre 2010, non voglio neppure immaginare su quale letto di rose morì Lezama Lima negli anni Settanta del secolo scorso.
Non so se in un altro paese una persona dovrebbe rinunciare a portare avanti il suo compito per una simile atrocità (io per lo meno non rinuncio a essere uno dei narratori underground della mia generazione). Non so se affiggere un proclama di combattimento alla porta di ogni ministero o conferire ai nuovi Pavon (un famoso censore del passato, ndt) il beneficio stilistico del mio perdono. Nel mio cuore di figlio orfano mi spiace per Tomás Piard, un cubano buono e universale che rozzi provinciali definiscono un regista amatoriale. Mi spiace per il 2011 che si annuncia peggiore di un altro Quinquennio Grigio, sembra un assurdo periodo nero per le persone geniali. Mi rallegro solo per la trasparenza di questo gesto grottesco con cui il potere mette nero su bianco il suo disprezzo assoluto per tutto quel che profuma di intellettuale (la Sicurezza delloStupro conferma così di fronte al mondo la sua stupidità).
Nei piani alti sanno bene che nessun cittadino e meno che mai un Premio Nazionale per la Letteratura protesterà (lo stesso Lezama Lima non protestò). I funzionari del ministero sono consapevoli che questo colpo basso farà venir meno la solidarietà intorno alla mia persona, per mero istinto di conservazione (si salvi chi legge). Pensano che resterò più solo di un suicida, e proprio questa è la formula dell’odio trionfantenel sistema socialista (in spagnolo: socialipsista, ndt): con tutti e per la mediocrità di tutti (eccetto Abel Prieto, Ministro della Cultura che è esentato dalla lettura di questa lettera aperta al mondo: il suo incarico gli permette di amministrare i presupposti della colpa ma non la dignità della cultura).
Di fronte alla sfida della bellezza e della verità, la nostra patria postuma prima del tempo fa il gioco di sempre mentre i suoi cani cerbero non si azzardano a muovere un dito per cambiare le cose. Nascere qui pesa come una sconfitta innominabile. Non so proprio dire quella parola: Rivoluzione.
Al punto in cui siamo non ho niente in cui sperare, neppure l’assenza. Cuba sarà libera. Io non lo sono mai stato.

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Knuck knuck knuckin’ on my nuca

Miro mi nuca.

No ha sido nada.
Un cinturón de petequias por la demasiada fuerza de un efebo oficial y acaso por mi mala coagulación.
Miro mi nuca en un jpg.
Según se interprete, es insultante o interesante de contar.
En el principio no fue el Verbum, sino la Barbariem.
Violencia extra-verbal a pulso.
Caminar en El Vedado será a partir de hoy una experiencia extrema.
La Avenida de los Presidentes remitirá ahora a una prisión post-principesca.
En segundos, Yoani y yo estábamos de brazos torcidos dentro de un auto importado desde nuestra Madrastra Patria: China.
Mi cabeza contra la alfombra del carro y Yoani casi de patas arriba.
No pude verla, la identifiqué porque no se callaba ni maniatada.
En segundos, la oí gritar con la vehemencia del ser más libre del planeta.
Tenía una rodilla de macho cubano clavada en el pecho y todavía los increpaba.
En segundos, de esa energía chupé fuerzas para sostener un poco mi voz.
Me dijeron que le dijera a Yoani que se callara.
Esa frase, pronunciada por tres desconocidos a nombre del Estado Cubano, resume toda la escenografía obsoleta y obscena de este país:
Díganle a Yoani que se calle.
Díganle a Yoani que se calle.
Díganle a Yoani que se calle.
En segundos, nos depositaron despóticamente en una esquina que confundí con el patio interior de un barracón.
Yo estaba mareado.
Sentí asco, tuve ganas de vomitar.
No podía mover el cuello.
Abracé a Yoani (antes nunca lo había hecho).
Empezó a sollozar.
La mujer más grande de Cuba parecía una niñita de cero años.
Porque Yoani es eso: el futuro de Cuba cristalizado sobre un esqueleto frágil e irrefrenable.
La besé en la cabeza. Su pelo tironeado con odio olía a la libertad.
Una.
Dos.
Diez.
Incontables veces besé su cabeza sin edad.
Pero nunca le dije que se callara.
Pero nunca le dije que se callara.
Pero nunca le dije que se callara.

Orlando Luis Pardo

La Habana, 7 novembre 2009

 

Toc toc toc sulla mia nuca

Guardo la mia nuca.

Non è successo niente.
Una scia di ematomi per l’eccessiva forza di un giovane poliziotto e forse anche per la mia cattiva coagulazione.
Guardo la mia nuca in una jpg.
Secondo da che parte si guardi, può essere insultante o interessante da raccontare.
Al principio non fu il Verbo, ma la Barbarie.
Violenza extra verbale effettiva.
Camminare nel Vedado da oggi sarà un’esperienza estrema.
L’Avenida de los Presidentes si trasformerà in una prigione post principesca.
In pochi secondi, io e Yoani, eravamo costretti con la forza a entrare in un’auto  importata dalla nostra Matrigna Patria: la Cina.
La mia testa contro il tappeto della macchina e Yoani aveva le gambe in alto.
Non ho potuto vederla, ma l’ho identificata perché non stava zitta neppure con le mani legate.
In pochi secondi, l’ho sentita gridare con la forza della persona più libera del mondo.
Aveva un ginocchio di macho cubano piantato nel petto e nonostante tutto continuava a insultarli.
In pochi secondi, ho preso forza dalla sua energia per far sentire un po’ la mia voce.
Mi dissero che dovevo dire a Yoani di stare zitta.
Una frase, pronunciata da tre sconosciuti a nome dello Stato Cubano,

riassume tutta l’obsoleta e oscena scenografia  di questo paese:
Dì a Yoani di stare zitta.
Dì a Yoani di stare zitta.
Dì a Yoani di stare zitta.
In pochi secondi, ci hanno mollato dispoticamente in un angolo che ho scambiato per il giardino interno di un capannone.
Mi girava la testa.

Ho sentito schifo, ho avuto voglia di vomitare.
Non potevo muovere il collo.
Ho abbracciato Yoani (prima non lo avevo mai fatto).
Ha cominciato a singhiozzare.
La donna più grande di Cuba sembrava una bambina appena nata.
Perché Yoani è questo: il futuro di Cuba cristallizzato in uno scheletro fragile che non può essere fermato.

L’ho baciata sulla testa. I suoi capelli che avevano tirato con odio profumavano di libertà.
Una.
Due.
Dieci.
Innumerevoli volte ho baciato la sua testa senza età.
Ma non le ho mai detto di stare zitta.
Ma non le ho mai detto di stare zitta.
Ma non le ho mai detto di stare zitta.

Orlando Luis Pardo
La Habana, 7 novembre 2009

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VOLANTI

di Orlando Luis Pardo Lazo

4 agosto 2010

La storia di Cuba raccontata dai suoi periodici.

Foglietti grinzosi con inchiostro più pesante dell’aria, ma che nonostante tutto volano quando i vicini li lanciano dalle grondaie.

Parole mutevoli. Caricature non gravide. Titoli di eroi gonfiati con un pallone di elio.

Vola, vola, vola.

Periodici ufficiali che galleggiano sul nulla della realtà, sulla panna dell’irrealtà, sul rumore innegabile delle nostre teste.

Crani esasperati sotto l’ombra di questi tappeti magici tessuti con carta di giornale.

Il vapore di Cuba li fa salire.

Verso l’infinito e oltre.

Paradiso fumante del proletariato.

Volantinaggio spontaneo che non è ancora sovversivo.

Zeppelin di marca GranmaTrabajadoresTribuna o Juventud Rebelde: ognuno con la sua monotonia arcaica di un solo colore.

Li ho visti decollare dai loro hangar nelle terrazze.

Li ho visti volteggiare per minuti, talvolta per ore, talvolta per mesi sugli stessi panoramici quartieri della mia città.

Avana gassosa che adotta la forma del recipiente che la contiene.

Villaggio di stampa preda nell’aria libera di un’atmosfera tropicale, affollata.

Globosfera.cu…

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Pesimo poema

di Orlando Luis Pardo Lazo

Lunes de post-revolución

https://orlandoluispardolazo.blogspot.com/

Oyendo a Mariela Castro en la UNEAC

En una de esas homeopáticas peleas cubanas contra la homofobia

Viéndola reír limpia y pulcra

Con el garbo guerrillero pero burgués de su madre joven en los 50’s

Acariciando el micrófono como un milagro

Entre sus manos sinónimas de la Hembra Nueva

Paladeando la retórica de su visión plurisex

En el corazón acrítico y monocorde de una institución cultural

Oyendo a Mariela Castro en la UNEAC

Pienso en todos los grandes maricones

Que hicieron la historia del himen hombre en esta isla

Tipos enmudecidos a botazos primero

Y encerrados a la gallinita ciega después

Lumpénicos al inicio y leucopénicos de remate luego

Cuerpos que no cupieron en el canon pacato pero promiscuo de Cuba

Pájaras parametrizadas en un poema de la virgen Piñera

Compañeros de closet de toda clase materialista y dialéctica

Glamour de tres por culo con las encías

Mamando un alambre de púas en la UMAP de los 60’s

Barriendo funerarias o como custodios de baño

Camilleros de sus propios cadáveres sin consolador

En cines cómplices o guaguas cutres de madrugada

Sobremuriendo al teatro real-socialista de los años machos

Viditas narradas por nadie en la tribuna trócula de la revolucioncita mundial

Oyendo a Mariela Castro en la UNEAC

En una de esas homeopáticas pataletas cubanas contra la homofobia

En la misma capilla donde Padilla se emputeció hetero

A pedido de la policía política de los 70’s

Pienso en toda esa sociedad incivil del placer en libertad

Disidentes del deseo como maldición de puertas adentro

Hasta fugar del país parapléjico en un barquito de papel sanitario en los 80’s

O esperando el proceso de rectificación de rectos y tendencias negativas

Clavados en las colas de prótesis dentales gratis en un policlínico de los 90’s

Envejecidos sin ser invitados al anésimo Congreso del Partido en los años cero

Enterrados en tierra santa del posproletariado mundial

Amables y amargos

Apelando al Parlamento para podar sus penes patrios

Sin un desfile

Sin una película

Sin un poema

Donde vomitar todo el injusto tiempo humano que les tocó

 

Pessima poesia

di Orlando Luis Pardo Lazo

Lunes de post-revolución

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Ascoltando Mariela Castro all’UNEAC

In una di quelle omeopatiche battaglie cubane contro l’omofobia

Vedendola ridere linda e pulita

Con la grazia guerrigliera ma borghese di sua madre giovane negli anni 50

Accarezzando il microfono come un miracolo

Tra le sue mani sinonimo di Donna Nuova

Assaporando la retorica della sua visione plurisex

Nel cuore acritico e monocorde di un’istituzione culturale

Ascoltando Mariela Castro all’UNEAC

Penso a tutti i grandi finocchi

Che fecero la storia dell’imene uomo su quest’isola

Tipi fatti tacere a pedate prima

E rinchiusi a mosca cieco dopo

Emarginati all’inizio e isolati in ultima istanza

Corpi che non trovarono posto nel canone bigotto ma promiscuo di Cuba

Uccelli regolamentati in una poesia della vergine Piñera

Compagni di banco di ogni scuola materialistica e dialettica

Glamour di tre per culo con le gengive

Succhiando un fil di ferro spinoso nelle UMAP degli anni 60

Spazzando sale mortuarie o come custodi di bagno

Cammellieri dei loro stessi cadaveri senza vibratore

Nei cinema complici o autobus squallidi di buon mattino

Sopravvivendo al teatro real-socialista degli anni maschilisti

Piccole esistenze mai narrate dalla tribuna stanca della rivoluzioncina mondiale

Ascoltando Mariela Castro all’UNEAC

In una di quelle omeopatiche battaglie cubane contro l’omofobia

Nella stessa cappella dove Padilla si definì etero

Su richiesta della polizia politica degli anni 70

Penso a tutta quella società incivile del piacere in libertà

Dissidenti del desiderio come maledizione da portare dentro

Fino a fuggire dal paese paraplegico in una barca di carta igienica negli anni 80

O aspettando il processo di rettificazione dei giusti e delle tendenze negative

Infiltrati nelle code per le protesi dentarie gratuite in un policlinico degli anni 90

Invecchiati senza essere invitati all’ennesimo Congresso del Partito negli anni zero

Sepolti nella terra santa del post proletariato mondiale

Amabili e pieni di amarezza

Chiedendo al Parlamento di poter potare i loro peni patriottici

Senza una sfilata

Senza una pellicola

Senza una poesia

Dove vomitare tutto l’ingiusto tempo umano che ebbero in sorte.

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La musica del cinema cubano

di Orlando Luís Pardo Lazo

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Da Voces 13 (Febbraio 2013)

https://vocescuba.files.wordpress.com/2012/02/voces13.pdf

La musica del cinema cubano. Molto meglio del cinema cubano. Musica senza parole. Come dire, senza censura. Dove non hanno mai osato sceneggiatore e regista, il compositore è passato senza chiedere permesso, diretto all’anima. Melodie che sopravvivono nella memoria del cuore, che ricordiamo anche quando non siamo più in grado di distinguere a quale pellicola cubana appartengono. Potrebbero persino appartenere a qualche orribile documentario degli anni Settanta. Una musica mai ufficiale e celebrativa che, una volta scoperta dagli archeologi sotto una cappa di muffa e negligenza, sarà la vera colonna sonora della Rivoluzione.

Allora non me ne rendevo conto, ma per anni sono andato al cinema solo per ascoltarla. Odiavo il cinema cubano, ma andavo lo stesso a vedere ogni prima visione e persino le repliche. Andavo a caccia di sonorità per dare un senso alla mia adolescenza silenziosa, introversa, composta di scenari muti che non mi permettevano di capire se volevo davvero vivere qui. Non solo, non riuscivo a comprendere neppure se volevo continuare a vivere.

Posso garantire che la musica del cinema cubano mi ha salvato dal deserto atroce che sarebbero stati gli ultimi anni Ottanta. Un deserto ridicolizzato quando arrivarono gli anni Novanta con una carica di violenza rionale e di fucilazioni ai massimi livelli. Sono stati anni di esili in massa e di strane malattie per colpa di una dieta decadente e per la mancanza di igiene.

Non conosco cosa più stupida del cinema cubano. A parte due o tre opere maestre, il panorama è stato sempre monopolizzato da modeste commedie. Ridere di noi stessi, si presume che sia la nostra miglior tradizione. Ridere, mostrando i denti come se fossero di un teschio.

La musica si vergognò della mancanza di sincerità delle immagini: l’ingenuità criminale anteriore soppiantata da un’ipocrisia apatica, afasica, con cui abbiamo messo da parte la nostra ultima opportunità di essere liberi almeno nella sponda illusoria dell’immaginazione. Eravamo autori austeri, siamo diventati servi sinistri.

Un giorno mi resi conto che erano almeno cinque o sei anni che non mettevo piede in un cinema cubano. O meglio, entravo ma non ascoltavo niente, neppure quel silenzio spaventoso che sarebbe risultato così magistrale (con una eccezione). Neppure un’aria armonica da portare nella solitudine delle nostre case, che in realtà erano carcasse. Gusci vuoti di una patria priva di protagonisti e pentagrammi.

La musica del cinema cubano scomparve quando i suoi compositori cominciarono a ingrassare, a mettere da parte dollari e visti d’uscita per l’estero. Divenne paleomusica. Rimase registrata nella puntina imperfetta di un epoca maledettamente reale. Fu per lei impossibile rigenerarsi nel nuovo secolo e nel millennio digitale. Adesso non è possibile neppure un pessimo plagio. Questa sordità la chiamiamo, per essere precisi, socialismo. E va da sé che sorridiamo. Risate con i denti guasti, ciechi ma orgogliosi del loro disfacimento come se fosse un’indecente e democratica decorazione.

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IL CASTRISMO NON ESISTE, AMORE MIO

di Orlando Luís Pardo Lazo

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28 febbraio 2012

Esiste l’odio nel tuo cuore. Quella è la vera storia di Cuba. Una storia di diffidenza provocata dal potere. Di violenza linguistica che si traduce in violenza sui corpi. Una storia di estrema aridità, di non solidarietà come unica garanzia del socialismo. Un processo di perdita dell’identità nazionale in chiave di nazionalismo atrofizzato, come prima fase di una disumanizzazione che ci porta a lottare fino alla morte non per liberarci ma per essere più schiavi.

Esiste la comodità di sopravvivere. L’indolenza di guardare da qualche altra parte. Di non essere colpevoli. La codardia di consideraci vittime incapaci di essere protagonisti. L’ipocrisia di confidare astrattamente in Dio, ma mai nella Verità e nella Vita reale che proprio Lui ci ha dato.

Esiste la bruttezza cubana. Proprio così. In un teatro totalitario tutto è brutto persino la ridicolaggine. Impossibile provare misericordia nel bel mezzo di un simile panorama. Cominciando dalla gente, quella rozza statistica di incredibili tabù sotto il manto materialista di un’umiliante mancanza d’immaginazione.

Esiste il niente con il contagocce. Invecchiare privi di un solo senso capace di sostenerci. La paura che ci fa diventare prima mediocri e subito dopo meschini, virtuosi della vertigine (il presente che fugge dal suo futuro senza neppure osare guardare oltre), incapaci della benché minima salvezza. Ed esiste, certamente, la morte che viviamo mentre aspettiamo il Giorno F che sarà proprio il giorno del nostro funerale.

Il castrismo non esiste, amore mio.

Esiste solo la nostra indecente mancanza d’amore in quanto persone, popolo, paese postumo o pessima patria che per fortuna si è già perduta.

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REP(UBL)LICA

 

MANIFESTO DEGENERAZIONALE

di Orlando Luis Pardo Lazo

Lunes de post – revolución

https://orlandoluispardolazo.blogspot.com/2010/06/republlica.html

Essere cattivi, essere puliti, essere reazionari, essere lucidi, essere il migliore. Difficile compito per una generazione lasciata al margine dell’azione, soppiantata nella strada della paura, piantata nella strada della paura.

Che peccato. Potevamo arrivare così lontano, rendendo dinamico qualunque concetto carsico della nostra nozione di nazione.

Oggi cerco lo sguardo dei miei amici, che non ci sono più, e vedo solo vetri infami. Hanno rinunciato alle loro biografie in cambio di un po’ di tempo per non uccidere e per non farsi uccidere. Alla fine, ognuno si è ritirato nella codardia complice della sua piccola grotta.

Tormentati dall’azzardo dello zar, abbiamo lasciato soli noi stessi, nelle mani di adulti adulterati che usano protesi dentarie per i loro discorsi e fanno penosamente l’amore: nelle mani di missionari mediatici che coltivano la virtù invadente dell’avversione o dell’imbecillità, nelle mani di cubani con corazze senza cuore, nelle mani di fantasmi stipendiati che stigmatizzano oltre misura qualunque germoglio di nuova vita, nelle mani di guerrieri statali che mancano di grazia nel loro pedante patriottismo, perché i loro artigli grossolani sono sostenuti soltanto dall’ombra cinica delle truppe della Sicurezza Nazionale: sono soltanto marionette del bullismo ministeriale, che battono i piedi perché venga loro permesso un microfono merdoso alla radio o in televisione, oltre al conosciuto cartoncino bianco e a un elargito assegno in bianco per viaggiare. E davanti a un simile stato di mercenarismo intellettuale sarebbe ingenuo perdere cinque minuti di testo per esercitare il diritto di replica (è preferibile continuare a essere l’epicentro).

Essere narcisisti, essere anarchici, essere terrificanti, essere muti, essere il migliore. Difficile compito per una generazione che si è lasciata strappare la bellezza dell’azione, spostata nella strada della paura, prostituita nella strada della paura.

Che lusso. Potevamo arrivare così lontano, facendo saltare in aria qualunque concetto carsico della nostra nozione di nazione.

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UN ALTRO GIORNO DI NOVEMBRE

di Orlando Luis Pardo Lazo

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9 novembre 2009

Fare l’amore dopo aver provato la morte.

La città è il male. Nella città si concentra la lussuria criminale del potere. E contro questo male nella biografia di ogni cittadino non c’è salvezza.

Sei solo. Tu e il tuo corpo, in ordine sgrammaticato. La città all’esterno è come una mole mostruosa, piena di uomini che vogliono cancellarti non con un colpo solo ma con un cazzotto. La città ha inizio dove finisce il tuo corpo. L’Avana è come un carcere di consonanti mute nell’aria prigioniera della città.

È possibile fare l’amore dopo aver provato la morte?

Schiaccio i tasti del computer come un paralitico. Ricordo uno Stephen Hawking più ingegnoso che geniale. Mi fa male il collo appena comincio a guardare lo schermo. Tortura di schiacciare i tasti. L’impronta urbana dell’architettura rivoluzionaria comprende, a partire da questa colonna vertebrale, anche questo dolore. Resta il dubbio se sono o no condannato nella mia biologia incivile: nel mio corpo o cadavere prelibato che ha perso la voglia di fare l’amore.

Un giorno di novembre, come in un film quasi rinnegato dal suo regista Humberto Solás. Una pellicola in bianco e nero che l’ICAIC ha censurato nel corso di un paio di quinquenni grigi. Monocromia della censura. Un giorno di novembre. E che dopo si è rivelato una perla di tristezza cubana durante i tempi sereni della rivoluzione. Un giorno di novembre. Un uomo ricorda che clinicamente può morire. Ma si impegna a rivivere ogni corpo nella sua testa (che gli fa tanto male come adesso succede a me) e, per colmo, si innamora di un’altra Lucía e le fa democraticamente l’amore, anche se la scena verrà massacrata dalle forbici pacate di un perverso censore. Un giorno di novembre. 1972 è oggi.

Un’altra domenica di novembre. Il cielo dell’Avana si colora di un grigio amabile e, per la prima volta dopo il pugilato che ha fatto mancare l’ossigeno alla mia mente, pensiamo all’impossibilità di fare l’amore.Hipoxiabana nostra che sei nei cieli…

Non si può amare umiliato.

Non si può amare con la libertà della sedia a rotelle: sopravvive il desiderio alla malattia (alla sclerosi laterale, per esempio, o a un semplice colpo di karate disgraziato)?

Non si può amare dalla vendetta.

È possibile amare dopo aver provato la morte?

Quando recupererò il mio corpo? Quando lo allontanerò da questo cimitero?

Le immagini scorrono. Vedo la strada percorsa. Intorpidita, e non per colpa della pioggerella d’autunno.Like tears in the rain. Come lacrime tra le rovine. Vedo l’uomo con stivali e camicia a quadri che mi ha intervistato nove mesi fa sotto il nome di Ariel, folletto giocoso di Shakespeare o incubo utopico di José Enrique Rodó. Vedo grida. Vedo corpi in cinetica cinica. Vedo frenate e la mania del telefono mobile (SMS del Servizio Militare) che incute timore. Vedo striscioni. Vedo la solitudine insondabile di un parco di callePaseo, le luci flebili che annunciano il crampo muscolare. Vedo volti amici di cartone. Tutto scorre a rallentatore. Clacson incantati. Anni di scenografia. La verità non abita tra noi, i sottocittadini di questo posto dove manca tutto eccetto la repressione. Pressione sul petto. Pulsazioni di frusta alle tempie. Cieli rannuvolati di fuliggine rossiccia e rabbiosa. In basso avanzano anche i nuvoloni. Pioggia scenografica. Marce. Segni. Danno fastidio tanti uomini in grigio. Vedo fotogrammi in bianco e nero. Quando si materializzerà il mio recupero? Quando terminerà questo film fantasma e quando avrà inizio la nostra vita irreale? Le immagini scorrono.

Cuba, uccidimi. Cuba, bugiarda di merda. Cuba, fottuto contenitore di martiri: ideologizzata da alcuni e idealizzata da me. Cuba, tua madre. Cuba, ti amo. Cuba, non morire in me. Cuba, non mutilare i migliori. Cuba, non ti trasformare in un macellaio. Cuba, non ti uccidere senza di me. Cuba, cadavere o corpo o corpetto prelibato che mi ha tolto la voglia di fare l’amore a novembre.

E al contrario: sarà possibile provare la morte dopo aver fatto l’amore?

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“Sono una persona che non conosce la parola odio”

Intervista a Yoani Sánchez

di Orlando Luis Pardo Lazo

Il Fondo per la Cultura e lo Sviluppo Principe Claus  (https://www.princeclausfund.org/en/what_we_do/awards/index.shtml ) ha incluso la blogger Yoani Sánchez tra i suoi premiati annuali.

Insieme al vincitore principale del Premio Príncipe Claus 2010, la Sánchez è stata invitata in maniera eccezionale alla cerimonia di consegna che avrà luogo il prossimo dicembre, nel Palazzo Reale di Amsterdam. La rivista digitale Diario de Cuba ha intervistato in esclusiva la blogger per chiederle cosa prova dopo aver ricevuto un premio così prestigioso a livello mondiale.

A Cuba questo importante riconoscimento sarà considerato una notizia o finirà in un limbo informativo? Potrà essere usato contro di te dai tuoi abituali detrattori su Internet?

Da molto tempo non è importante che gli avvenimenti vengano raccontati dai mezzi di comunicazione ufficiali perché si trasformino in notizie all’interno dell’Isola. Voglio pensare che questo premio ricevuto sia in relazione proprio con il momento in cui noi cittadini, protetti dalla tecnologia globalizzata, abbiamo strappato allo Stato il monopolio informativo. Sarà usato contro di me, ma sono preparata. Dimmi chi ti attacca e ti dirò chi sei. Ormai vivo così.

I premi in denaro sono un argomento utilizzato dagli ambienti ufficiali per additare come “mercenari” i membri della società civile. Cosa accadrà, vista la cifra considerevole che ti verrà elargita, nel contesto dell’impoverita economia cubana?

Di fronte a ogni somma di denaro assegnata come premio, ci sono sempre almeno tre domande: da dove proviene, a quali condizioni viene dato e come si usa. I 25.000 euro in dotazione a questo premio vengono raccolti tra la cittadinanza olandese e non ci sono condizioni per la loro assegnazione, a parte aver meritato il premio. Useremo questa cifra per porre la prima pietra di un libero strumento informativo a Cuba. Sto già lavorando insieme a un gruppo di colleghi a questo progetto. Non so ancora come potrò far arrivare sull’Isola la somma di denaro che accompagna l’onorificenza, ma in qualche modo farò. Tuttavia posso assicurare che parte del premio verrà trasformato in tessere di accesso a Internet, ricariche per telefoni mobili e infrastrutture tecnologiche per molti altri blogger e giornalisti cubani.

In poco più di dieci anni non è andata male a Cuba con i premi Príncipe Claus. Hai rapporti con gli altri vincitori nazionali? Che opinione hai delle loro opere?

Dagoberto Valdés è uno dei miei migliori amici. Lui ha ricevuto il Príncipe Claus nel 1999 a nome del collettivo della rivista Vitral, uno degli esempi più interessanti del giornalismo cittadino che hanno visto la luce a Cuba negli ultimi cinquant’anni. Nel caso di Tania Bruguera, la conosco solo grazie alla sua opera, specialmente per la sua celebre Cátedra de Arte Conducta, dove ha promosso il coraggio e la trasgressione artistica. Senza conoscerla personalmente, ho partecipato in maniera spontanea alla sua performance El susurro de Tatlin, che ha avuto un’enorme ripercussione alla Biennale dell’Avana del 2009. A partire da qual giorno ho seguito le sue presentazioni con rispetto e attenzione. Desiderio Navarro, che ha ricevuto questo stesso premio l’anno scorso, è amico di mio marito dai tempi della loro adolescenza a Camagüey, e solo una persona come lui – con la sua energia e il suo talento – avrebbe potuto sostenere di fronte a tanti ostacoli la qualità della rivista Criterios. Entrare a far parte di un elenco dove compaiono i nomi di questi tre cubani è già un premio molto speciale.

A parte lo stimolo personale, questo premio può intendersi come un riconoscimento al lavoro svolto dalla blogosfera alternativa cubana? Credi che avrà un effetto di legittimazione o sarà controproducente per i blogger all’interno della cultura cubana?

Le critiche cadranno soltanto su di me, ma sono molto disponibile a spartire la gloria e, di fatto, anche il denaro. Il discorso della legittimazione è simile a quanto detto per le notizie. Gli individui diventano sempre più indipendenti e non hanno bisogno di nessuno che legittimi le loro azioni. Se con quel che faccio sto dando “un cattivo esempio”, ben vengano i problemi. E benvenuto chi si azzarda non tanto a seguire il mio cammino, quanto a trovare il suo.

Approfitto dell’occasione per chiederti un’opinione sull’importanza che ha la visibilità mediatica tra i settori della contestazione a Cuba. Le conseguenze sono banali? Generano contrasti con i protagonisti meno assediati dalla stampa mondiale?

La visibilità mediatica non deve essere fine a se stessa, ma sempre la conseguenza di un’attività costante. Più di vent’anni fa un giovane camminò sul braccio di un’enorme gru che restaurava la cupola del Capitoliodell’Avana. La notizia uscì nei periodici e si commentò persino fuori del paese. Fu visibile come una bolla di sapone, come un fuoco d’artificio, ma nessuno saprebbe dire oggi cos’è stato di quell’intrepido equilibrista. A Cuba ci sono molte persone che hanno bisogno di visibilità per non essere schiacciate dalla macchina repressiva. Vedi per esempio Reina Luisa Tamayo, che dalla strada senza via d’uscita dove vive, a centinaia di chilometri dalla capitale, ha girato un video con il telefono mobile dove si vedevano una cinquantina di uomini in uniforme mentre le impedivano di recarsi al cimitero di Banes, dove riposa suo figlio Orlando Zapata Tamayo. In quel momento non c’era sul posto neppure un corrispondente straniero accreditato sull’Isola, ma il mondo intero ha potuto vedere quelle immagini grazie a Internet. Non dobbiamo dipendere dai grandi mezzi di informazione: è un’altra egemonia dalla quale dobbiamo imparare a scappare. In quanto ai contrasti che può generare questo premio, posso assicurare che redigere l’elenco dei nemici e degli amici, è soltanto un mio compito. Nessuno può iscriversi senza il mio consenso ad accettarlo o meno come avversario. Fino a questo momento non ho segnato nessun nome di mio pugno nell’elenco dei nemici, per questo motivo mi considero una persona che non conosce il significato della parola odio. Preferisco la sana ingenuità di credere che oggi tutti stiano rallegrandosi con me per aver vinto il Premio Príncipe Claus 2010.

Quali sono i prossimi programmi di Yoani Sánchez?

Continuare a lavorare e ad aprire brecce nel muro della censura e del silenzio. Due settimane fa ho inaugurato il primo servizio  di podcast da telefono mobile, via MMS, diretto da Cuba verso internet. Tra alcuni giorni mi troverò davanti a un gruppo di blogger e di giornalisti per insegnare loro a sfruttare al meglio i loro cellulari, per superare i limiti di acceso al web che abbiamo su questa Isola. Non voglio smettere di apprendere e di insegnare, perché il mio sogno è che in breve tempo noi cittadini riusciremo a essere padroni della nostra informazione, saremo capaci sia di produrla che di riceverla. Chi mi conosce bene sa che ogni conoscenza tecnologica che acquisisco è come un software libero che condivido con gli altri. Il mio Premio Principe Claus 2010 farà in modo tale che “la libertà informativa telematica” arrivi a un numero maggiore di persone.

 

Orlando Luis Pardo Lazo

Da Diario de Cuba, 6 settembre 2010