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Pianto per le patate

03.04.2013 10:15

 

YORDAN FUENTES DE ARNAIZ. 

1 aprile 2013

Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

 

“Sappiamo essere felici inconsciamente, ingenuamente, certi giorni…”dice Mounier nelle Lettere sul dolore. Credo fosse questo l’atteggiamento principale nei giorni di quei due anni trascorsi nella mia Scuola al campo *. Vorrei che fosse questa l’immagine che mi porto di quel periodo, quella di una felicità inconscia e ingenua, ma ci sono certi episodi che dileguano quella parvenza e fanno emergere il sottile dramma che ci cingeva tutti.

Ricordo che era il periodo della raccolta delle patate, nei mesi primaverili. Era un evento così importante da fare sospendere le lezioni a volte per un paio di settimane. I più si rallegravano, io odiavo visceralmente tutta la vicenda. Organizzati in brigate i ragazzi provavano a divertirsi alla meglio. A volte volava qualche patata e colpiva il più sprovveduto nel bel mezzo di una risata collettiva. Tuttavia, le patate non andavano mai sprecate. Da un lato c’era l’emulazione legata alla raccolta che coinvolgeva ogni piccola brigata, la scuola, poi tutte le scuole municipali e così via… quasi fino ad arrivare all’intera Nazione. E a questo punto quel formicaio insignificante che era la scuola, piena di quel febbrile lavoricchio, provava a innalzarsi come portatrice di senso. “Quello che fate voi qui si ripercuote sulla nazione…” ci arringava ogni mattina il professore di turno. Dall’altro, tutti noi ci portavamo delle patate sotto le camicie, in tasca e con qualsiasi sotterfugio valido pur di evadere la sorveglianza cui eravamo sottoposti all’uscita dei campi e di portare a casa le agognate patate. Erano esilaranti il ritorno, una truppa un po’ più ciccia di quando la mattina alle otto i nostri corpi scarni si erano avvicinati ai solchi.

Sveglia ore 6:30 e suonava l’allarme che scandiva gli orari della vita scolastica. E giusto per essere sicuri che tutti si buttassero giù dai letti a castello dei lungi dormitori comuni, qualche professore saliva le scale battendo, come un forsennato, un vassoio di latta e un machete. Dopo una veloce tolettatura con l’acqua gelida scendevamo per la colazione. Era composta da un pezzetto di pane e acqua zuccherata. Poi, il raduno in piazza e ascoltavamo le notizie del giorno e i dati della raccolta. In fine, per le 7:30 circa le file si dileguavano versi i campi.

Quel mezzogiorno al nostro ritorno per mancanza di elettricità non c’è l’acqua per fare il bagno dopo i lavori, e il pranzo non era pronto. Questi eventi, che non erano strani anzi erano la normalità, apparivano come una benedizione. Per quelli che dovevano andare a lavorare il pomeriggio e per noi che dovevamo ricevere delle lezioni. I primi, perché fino a quando non avessero mangiato il pasto, non sarebbero andati a lavorare: nella peggiore dell’ipotesi erano già puliti e potevano aspettare il ritorno dell’acqua. Per i secondi, perché le lezioni eventualmente potevano essere sospese. Alle tre circa il pranzo e per nostra sorpresa: un menù composto da un pure di patate e sugo di pomodoro. Eravamo affamati e quello ci sembrò, assecondati dalla voracità propria degli adolescenti, una magra consolazione.

Iniziarono le lezioni di quel caldo pomeriggio e in classe c’era la professoressa di Letteratura Spagnola. L’argomento ora mi sfugge (Cervantes, Unamuno, Lorca chi lo sa…), ma ricordo solo un pianto sordo che si sentiva provenire dai primi posti. La prof si gira e domanda: – ma, cosa succede, perché piangete? Tre ragazze in lacrime rispondono: prof., abbiamo fame, così non si può studiare! E quella fuori di sé, sorpresa e fatta una furia, risponde: “Questo è intollerante!” “Faccio chiamare il Preside.” Scompare e cala il silenzio, quello che poteva avvenire di seguito, di certo non poteva essere bello. Tornano, i due incarnando l’ufficialità si rivolgono a tutti noi: “È inconcepibile questa situazione”. E, rivolgendosi a una di quelle che aveva gli occhi pieni di lacrime le domanda: – Quanti sacchi di patate hai raccolto tu questa mattina? – Lei in un singhiozzo risponde: ho raccolto quattro. Lui, come un ecco: quattro… e girandosi verso la lavagna, con un gessetto in mano, inizia a fare quello che per me è stato uno dei più strani calcoli. Da un lato, il valore delle patate raccolte, dall’altro, le risorse impiegati per l’elaborazione del pure di patate consumato e… paradossalmente, quello che noi avevamo consumato per pasto non si  riusciva minimamente a coprire, con il lavoro svolto quella mattina. “Vedete, disse il Preside, voi siete in debito con lo Stato. Non avete, alcun diritto di lamentarvi e di piangere. È vergognoso quello che fate. Dovete, invece essere grati.” Il calcolo e quelle parole mi si sono rimasti impresi. Siamo tornati allo studio, affamati e taciturni.

Mounier avrebbe commentato: “Le spiegazioni non diminuiscono il grande scandalo della sofferenza.” Ma, il mio piccolo preside non aveva, né una così grande umanità, né un briciolo di umana intelligenza per capire Mounier, tanto meno la nostra fame. Lui, in fondo è la conseguenza di un sistema che ha corroso l’umano, rimpicciolendole l’animo, e noi come ultimo rifugio di queste cose ridiamo. Forse perché la felicità ci appartiene e il desiderio inconscio di raggiungerla ci fa ancora sorridere al ricordo dei vecchi Presidi comunisti.

 

* le “Scuole al Campo” sono stati centri educativi su cui il regime cubano aveva poggiato in grande  misura la pedagogia rivoluzionaria finalizzata al controllo sociale e la creazione “dell’uomo nuovo”. Sono state soppresse nel 2009.