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Cubareale - Niki

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Cubani e punto

03.04.2013 10:27

 

YOANI SÁNCHEZ. 

3 aprile 2013

YOANI SÁNCHEZ

 

Alcuni anni fa, quando sono uscita per la prima volta da Cuba, mi trovavo a bordo di un treno che dalla città di Berlino era diretto verso il Nord. Una Berlino già riunificata, ma che conservava ancora frammenti di quella brutta ferita rappresentata da un muro che per anni aveva diviso una nazione. 

Nello scompartimento di quel treno, mentre ricordavo mio padre e mio nonno ferrovieri, che avrebbero dato qualunque cosa per viaggiare a bordo di quella meraviglia composta da vagoni e locomotiva, intavolai una conversazione con un giovane che era seduto proprio davanti a me.

Dopo il primo scambio di saluti e dopo aver maltrattato la lingua tedesca con un «Guten Tag» chiarendo che «Ich spreche ein bisschen Deutsch», l’uomo mi domandò immediatamente da quale Paese provenissi. Io gli risposi con un «Ich komme aus Kuba». Come accade sempre quando si viene a sapere che uno proviene dalla maggiore delle Antille, il mio interlocutore tentò di dimostrare che era ben informato sul conto del nostro Paese. Nel corso di quel viaggio, avevo incontrato quasi sempre gente che mi diceva: «Ah… Cuba, sì, Varadero, rum, musica salsa». In un paio di casi ricordo persone che su Cuba sembravano avere come unico riferimento il disco «Buena Vista Social Club», che proprio in quel periodo era diventato molto popolare. Ma quel giovane incontrato a bordo di un treno che partiva da Berlino mi sorprese. A differenza di altri non si rivolse a me con uno stereotipo turistico o melodico, ma andò oltre. Mi chiese: «Sei di Cuba? Della Cuba di Fidel o della Cuba di Miami?». 

Mi feci rossa in volto, dimenticai la poca lingua tedesca che sapevo e gli risposi nel mio miglior spagnolo di Centro Avana: «Ragazzo, io sono cubana di José Martí». La nostra breve conversazione terminò con quelle parole. Nonostante tutto, per il resto del viaggio e per il resto della mia vita, ho avuto sempre presente quello scambio di frasi. Mi sono chiesta molte volte chi ha portato quel berlinese e tante altre persone nel mondo a vedere i cubani che vivono dentro e fuori dall’Isola come due mondi separati, due mondi inconciliabili. La domanda ritorna spesso nelle pagine del mio blog Generación Y. Come mai hanno diviso la nostra nazione? Come mai un governo, un partito, un uomo al potere, si sono attribuiti il diritto di decidere chi dovesse considerarsi cubano e chi no? La risposta a certe domande la sapete molto meglio di me. Voi, che avete vissuto il dolore dell’esilio, che siete partiti nella maggior parte dei casi solo con i vestiti che indossavate. Voi, che avete detto addio ai familiari, molti dei quali non avete più avuto occasione di rivedere. Voi che avete cercato di conservare Cuba, unica, indivisibile, completa, nelle vostre menti e nei vostri cuori. 

Ma io continuo a chiedermi: Che cosa è accaduto? Come mai la definizione di cubano è diventata un attributo di carattere ideologico? Credetemi, quando uno è nato e cresciuto con una sola versione della storia, una versione mutilata e conveniente della storia, non può rispondere a una simile domanda. Per fortuna, è sempre possibile svegliarsi dall’indottrinamento. Basta che ogni giorno una domanda, come acido corrosivo, si faccia strada nella testa. Basta non credere passivamente a quel che ci hanno detto. L’indottrinamento è incompatibile con il dubbio, il lavaggio del cervello finisce quando quello stesso cervello comincia a porsi domande sulle cose che gli hanno detto. Il processo di risveglio è lento, comincia con un senso di stupore, come se improvvisamente si vedessero i lati nascosti della realtà. Nel mio caso è cominciato tutto così. Sono stata una piccola pioniera indottrinata, come voi sapete. Ho ripetuto ogni giorno durante l’alzabandiera mattutino della scuola primaria lo slogan: «Pionieri per il comunismo, saremo come il Che». Mi sono messa a correre parecchie volte con la maschera antigas sotto il braccio verso un rifugio, mentre i miei maestri mi assicuravano che presto ci avrebbero attaccato da qualche parte. Ci ho creduto. Un bambino crede sempre a quel che dicono gli adulti. Ma c’erano alcune cose che non mi tornavano. Ogni processo di ricerca della verità ha il suo detonatore. Basta un tassello che non va nel posto giusto, una cosa che non ha logica. E la logica mancava proprio fuori dalla scuola, nel mio quartiere, nella mia casa. Non riuscivo a capire una cosa: se coloro che erano fuggiti dal Mariel erano «nemici della Patria» perché le mie amiche erano così felici quando qualcuno di quei parenti esiliati mandava cibo e vestiti? Quei vicini di casa, salutati con un atto di ripudio nelle case popolari di Cayo Hueso, il quartiere dove ero nata, adesso mantenevano la madre anziana rimasta a Cuba, che a sua volta regalava parte delle risorse alle stesse persone che avevano lanciato uova e insulti ai suoi figli. Non capivo. E da quella incomprensione dolorosa, come ogni parto, è nata la persona che sono adesso. 

Per questo, quando quel berlinese che non era mai stato a Cuba cercò di dividere la mia nazione, saltai come un gatto e lo affrontai con decisione. Per questo, sono qui davanti a voi, per fare in modo che nessuno, mai più, possa dividerci tra un tipo di cubano e un altro. Ne abbiamo bisogno per la Cuba futura e per la Cuba di oggi. Senza di voi il nostro paese sarebbe incompleto, come una persona che si è vista amputare le gambe. Non possiamo permettere che continuino a dividerci. Stiamo lottando per vivere in un Paese dove siano consentiti il diritto alla libera espressione, il diritto di associazione e tanti altri che ci sono stati strappati. Al tempo stesso dobbiamo fare tutto il possibile – e persino l’impossibile – perché voi possiate recuperare quei diritti che vi sono stati tolti. E poi non deve esserci più un voi e un noi… ma soltanto un noi. Non permettiamo che continuino a dividerci. 

Sono qui perché non ho creduto alla storia che mi hanno raccontato. Come molti altri cubani cresciuti sotto una sola «verità» ufficiale, mi sono svegliata. Dobbiamo ricostruire la nostra nazione. Noi da soli non possiamo. Voi che oggi siete qui – e lo sapete bene – avete aiutato molte famiglie dell’Isola a mettere in tavola un piatto di cibo per i loro figli. Vi siete fatti strada all’interno di società nelle quali avete dovuto cominciare da zero. Avete portato con voi il ricordo di Cuba e l’avete protetto. Aiutateci a unificarla, a far cadere quel muro che, a differenza di quello di Berlino, non è di cemento né di mattoni, ma di menzogne, silenzi e cattive intenzioni.

In quella Cuba che molti di noi sogniamo non ci sarà bisogno di chiarire che tipo di cubano uno sia. Saremo cubani e basta, cubani e punto, cubani. 

 

Testo letto durante la premiazione nella Torre della Libertà, Miami, Florida, 1° aprile 2013 

Traduzione di Gordiano Lupi