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Cubareale - Niki

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        Da questo post tutto il blog di Cubareale si sposta sulle pagine di Cubareale.blogspot.it

 

A cuba la convergenza internazionale di Permacultura

 

agricoltura urbana a cuba

 Foto: https://www.thepolisblog.org

Cuba la propria transizione l'ha già avuta: dopo la fine della guerra fredda e la caduta dell'Unione Sovietica, maggior importatore di petrolio a Cuba, l'isola conobbe il picco del petrolio (peak oil). Questo evento portò ad un veloce sviluppo dell'autosufficienza agricola attuata attraverso la produzione di cibo in città e ad una progettazione permaculturale dei sistemi agricoli. Per una settimana, Cuba, diventerà "capitale della Permacultura", ospitando l'undicesima convergenza internazionale di Permacultura.

Dal 29 novembre al 3 dicembre il fermento a Cuba è alto: moltissimi sono infatti i delegati internazionali che partecipano alla convergenza per confrontarsi intorno a temi legati alla progettazione permaculturale. La convergenza vuole essere un'opportunità di fare rete, attraverso workshops, presentazioni, scambio di esperienze tra permacultori di tutto il mondo. Un confronto teorico e pratico su come attuare la transizione verso modelli di progettazione che tengano conto in modo olistico dei vari elementi che compongono un sistema.

L'evento si sta svolgendo a Jibacoa nella provincia di Mayabeque, ed è stato preceduto da una conferenza internazionale realizzata all’Avana.

La Permacultura è un concetto che mira alla creazione di cicli naturali durevoli e sostenibili. I principi permaculturali possono essere applicati all’agricolutra, così come alle infrastrutture sociali, allo sviluppo del paesaggio, all’architettura, ai sistemi energetici ed ambientali.

I principi della Permacultura ci aiutano a progettare sistemi artificiali, umani e tecnici più sostenibili, al fine di ridurre gli sprechi e di trovare soluzioni che aprano la strada ad un futuro senza lo sfruttamento illimitato delle risorse del nostro pianeta.

Quando si sviluppò, negli anni '70, la Permacultura andava nel senso di un'agricoltura permanente, che sostituisse le monoculture, per un sistema di produzione agricola che puntasse alla diversità.

Ma permacultura, non è solo agricoltura, o un modo particolare di fare degli orti. La permacultura è una "cultura permanente", da cui il termine, o meglio, una cultura della permanenza.

Speriamo che a Cuba i permacultori stiano avendo delle splendide giornate di incontro e scambio!

 

Gaia Palmisano

 

Cuba, un Peso è di troppo

L'addio alle due monete parte dalle imprese. Il Paese prova a cancellare il sistema distorto. Ma i sussidi ora sono a rischio.

di Marco Todarello

 

La doppia moneta a Cuba è stata introdotta nel 1994: oltre al peso cubano sull'Isola c'è il peso convertibile.

(© Getty Images) 

Raimundo strabuzza gli occhi quando gli si chiede se è possibile pagare il soggiorno in moneda nacional, il vecchio peso cubano (Cup) che vale 25 volte di meno del peso convertibile (Cuc), la moneta forte di Cuba che lui è abituato a maneggiare.

Non aveva mai sentito un turista fare quella domanda. E lo sgomento nel suo volto segnala la fine di un'epoca e dei due mondi che convivono a L'Avana: quello dei fortunati e quello di chi non lo è.

Il governo di Raúl Castro ha promesso infatti un'unificazione valutaria, «imprescindibile per ristabilire il valore del peso cubano e le sue funzioni come moneta».

DUE MONETE DAL 1994. Un obiettivo strettamente finanziario, secondo Cuba, che ovviamente non ha citato le disparità sociali create del doppio standard introdotto nel 1994, e che ha fatto dell'Isola l’unico Paese al mondo in cui vigono due monete.

Due decenni fa il peso convertibile serviva a sostenere il capitale straniero in arrivo e a non svalutarne la forza, ma nel tempo è diventato l’emblema di un sistema distorto cui ora si cerca con molta fatica di porre rimedio.

I VANTAGGI DEL TURISMO. Raimundo è uno di quelli cui è andata bene: a Baracoa, cittadina dell’Ovest, è riuscito a fare della sua dimora una casa particular (le case private per i turisti) e vive molto meglio di tanti suoi connazionali: ha una moto, un televisore, vestiti nuovi e il suo menù è vario, si permette addirittura il pesce due volte a settimana.

Come Raimundo, tutti coloro che vendono servizi ai turisti, lecitamente o illecitamente, vengono pagati in Cuc e dunque beneficiano del maggiore potere d’acquisto. Tra questi ci sono i tassisti, le guide e il personale di villaggi e hotel, che tra l’altro possono contare anche sulle mance elargite dagli stranieri.

Anche chi non ha legami con l’industria turistica, se ha qualche parente residente all’estero, può accedere alla preziosa valuta grazie alle rimesse.

Lo stipendio mensile degli statali è di 13,3 euro

Il peso cubano vale 25 volte di meno del peso convertibile.

(© Getty Images) 

Ma la maggior parte dei cubani è tagliata fuori. A partire dagli impiegati statali che possono contare su uno stipendio pubblico che in media ammonta a 455 Cup mensili, equivalenti a 18 Cuc (13,3 euro).

Non c’è solo una forte disparità di reddito, rispetto a chi ha accesso alla moneta forte. Ma anche un vero blocco all’acquisto di alcuni prodotti che si possono comprare solo in peso convertibili.

I PRODOTTI PER RICCHI. Per esempio carburanti, materiale per l’edilizia, radio, televisori e in generale la tecnologia, come per chi voglia connettersi a internet, ma anche beni primari come pesce, molti tipi di carne, a volte perfino le uova e il latte.

Fino a qualche anno fa erano reperibili nei mercati rionali e nelle bodegas, ed erano acquistabili in moneda nacional e previsti dal razionamento della tessera annonaria - un altro simbolo del socialismo cubano di cui è stata annunciata l’abolizione - e oggi sono diventati merce rarissima.

L'ECONOMIA PIEGATA DALL'EMBARGO. Le fondamenta dell’economia cubana, anche per gli effetti dell’embargo imposto dagli Usa, non sono bastate a sostenere i costi di tutti quei prodotti che lo Stato è costretto a importare.

Oggi oltre il 70% degli alimenti necessari al fabbisogno nazionale arriva infatti dall’estero e naturalmente è comprato in Cuc.

Fallito l'esperimento della doppia moneta

Il governo di Raúl Castro ha promesso l'unificazione valutaria tra peso cubano e peso convertibile.

(© Getty Images) 

Quando il governo cubano pensò di introdurre la doppia moneta erano venute meno le fondamenta di un'economia che aveva funzionato per 35 anni, basata sui sussidi sovietici e sugli accordi commerciali ad hoc instaurati con i Paesi dell’Europa dell’Est.

Allora quell'intervento contribuì a evitare il tracollo, ma l'esperimento evidentemente non ha funzionato. Per questo si è decisa l’unificazione monetaria, nonostante sia un’operazione lunga, complessa e di non assicurato successo.

LA RIFORMA PARTE DALLE IMPRESE. Il governo cubano lo sa bene e per il momento ha evitato di illustrarne tempi e dettagli, limitandosi a dire che la conversione al nuovo sistema si prevede cominci «in modo sperimentale» e «gradualmente dalle persone giuridiche», ovvero le imprese, e deve riguardare i privati cittadini solo in un secondo momento.

Non è facile garantire a tutti il valore dei propri risparmi, siano essi in peso cubano o peso convertibile. Ancora più duro trovare un tasso di cambio con il dollaro che regga: al momento per le imprese è di un dollaro per un Cuc, che sale a uno a 25 per i cittadini.

FINE DELL'ASSISTENZIALISMO? Allo stesso modo è impensabile che lo Stato riesca a mantenere l’attuale regime di sussidi pubblici, se si pensa che a Cuba la spesa sociale impegna il 53% dell’intero bilancio nazionale.

Per il socialismo cubano si tratta di una prova forse definitiva. Solo il tempo può dire se il nuovo corso annunciato da Raúl Castro al VI congresso del Partito comunista ha un futuro e può modernizzarsi, correggendo le disuguaglianze create dalla doppia moneta.

Venerdì, 29 Novembre 2013

 

Il futuro, domande e previsioni     per farcela

La tag cloud con le parole chiave 

Dieci pronostici, dieci fallimenti. Dieci aspettative che sono rimaste lettera morta su un pezzo di carta

YOANI SANCHEZ

Dieci pronostici, dieci fallimenti, dieci previsioni che sono rimasti lettera morta sopra un pezzo di carta. A questo si è ridotto un decalogo di previsioni future - personali o nazionali - che avevo redatto nel 2003. Per questo, conoscendo i contorti percorsi che prendono gli eventi, oggi cerco di immaginare le sorprese che ci riserverà il prossimo decennio. Sono certa - almeno di questo sono sicura - che saranno anni difficili, che arriveranno momenti duri per tutti. Non crediate di poter andare a letto una notte con tutti i nostri grandi problemi irrisolti e che il giorno dopo, al risveglio, saranno scomparsi. È molto ingenuo credere che una volta superato questo regime totalitario tutto si risolverà. Non è così. Ci saranno nuove difficoltà e dovremo vincere nuove sfide. Siamo preparati per affrontarle?  

Siamo pronti a vivere in una società dove la responsabilità ricadrà su di noi e non sullo Stato? Un paese che ci permetterà di eleggere un presidente, che potrebbe anche essere corrotto, menzognero, autoritario. Saremo capaci di capire, in simili situazioni, che non votiamo per nominare un “padre”, ma un funzionario pubblico che dovrà rendere conto delle sue azioni? Quanto tempo impiegheremo per non sospettare più di tutte le espressioni che contengono la parola “sociale” e dei sindacati, adesso semplici poli di trasmissione del potere statale nei confronti dei lavoratori? Siamo preparati alla tolleranza? Potremo convivere pacificamente con altre tendenze politiche e ideologiche che prenderanno i microfoni e proporranno i loro programmi? Vista la nostra inesperienza, non finiremo per cadere tra le braccia di un altro populista? Siamo consapevoli che vivremo in una Cuba dove ci saranno - molto probabilmente - molti nostalgici del castrismo? Che cosa faremo se invece di un vero cambiamento, i componenti della nomenclatura cambieranno le divise verdeoliva con giacche e cravatte da impresari?  

Come reagiremo di fronte all’immigrazione? Adesso conosciamo solo il fenomeno dei cittadini che se ne vanno e degli ospiti - temporanei - che fanno turismo nella nostra terra. Tuttavia, dobbiamo sapere che se riusciremo a costruire un paese prospero, arriveranno altre persone e chiederanno di restare. Come li accoglieremo? Quali effetti produrranno tanti anni di mancanze e di mercato razionato sulle abitudini di consumo delle persone? Le famiglie si indebiteranno fino al midollo, comprando tutto quello che verrà pubblicizzato dalla TV? Il dilemma della proprietà statale versus privatizzazioni come si risolverà? Sarà possibile mantenere l’offerta di infrastrutture educative e ospedaliere in tutto il paese, migliorandone la qualità, eliminando ogni finalità ideologica e retribuendo in maniera dignitosa gli impiegati di tali settori? Che cosa accadrà di questo enorme apparato governativo, i cui costi ricadono sulle nostre spalle e di cui conosciamo appena la portata? 

Come vedete non ho certezze, ma soltanto domande. Interrogativi che mi ossessionano quando parlo del futuro della nostra nazione. Sono poche le cose che mi sono chiare: vivrò a Cuba, farò tutto quel che posso per aiutare il mio paese e cercherò - con la mia professione giornalistica - di sgombrare il campo da molti dubbi oppure di amplificarli fino a quando qualcuno non darà risposta.  

Traduzione di Gordiano Lupi  

 

 

CUBA: STANNO PROSPERANDO I FIGLI ILLEGITTIMI DELLA REVOLUCION

MIMMO CANDITO

 

Andrés si dice “abbastanza soddisfatto”. Aveva cominciato qualche anno fa con una vecchia poltrona e uno specchio, ora ha due specchi e due poltrone (una è anche quasi nuova). Andrés taglia capelli e rade barbe in una strada affollata di Centro Habana, raddoppiare in due anni le dotazioni della “peluqerìa” non è un risultato da poco, in un'isola dove il tempo pare spesso ingessarsi, imprigionato dentro rigidità che la Revoluciòn esige a difesa della propria sopravvivenza.

Ma Andrés lo sa bene, che Cuba non è più quella che era, anche se l'icona immortale del “Che” vigila ancora sulla grande piazza e si chiama sempre Castro quello che dirige l'orchestra della storia nazionale. I giorni passano lenti, all'Avana, il sole rosso e la pioggia larga dettano a stento un calendario che pare anch'esso imposto dal regime, e allora arrangiarsi resta comunque la migliore arte nazionale, quella nella quale fantasia talento e pigra spregiudicatezza forgiano comunque una soluzione possibile. “Resolver” è il verbo che si coniuga come un imperativo quotidiano, e lo si incontra a ogni angolo di strada, indifferente alla cappa calda e umida delle grandi nubi che traversano il cielo del Caribe. 

Sono incontri che fino a qualche anno manco te li sognavi, che guai a pensare di rompere il monopolio dell'economia tenuto stretto dentro le mani forti del regime. Finivi diritto in galera, e perdevi il futuro. Poi arrivò la rivoluzione della Rivoluzione, che naturalmente aveva un altro nome ma quello, comunque, voleva dire: che ora si cambiava, e che niente era più come prima anche se tutto restava com'era sempre stato. Cominciò nel 2008 però ebbe una sua formalizzazione 2 anni fa, e come nella Cina di Deng (ma è lo stesso in questa di Xi Jinping) anche all'Avana è stato il rituale liturgico del congresso del Partito comunista ad aprire il grande portone del cambiamento. Il corpaccione dello Stato che tutto fa e tutto controlla si sfaldava sotto le parole nuove del fratello di Fidel, e un orizzonte possibile si fece vedere al di là delle caute ombreggiature ufficiali. In quell'orizzonte, un milione di lavoratori pubblici veniva spedito a casa, licenziato di brutto dalle sue eterne sicurezze, e in cambio gli veniva imposto d'imparare a nuotare. O nuotare o affogare. 

E nuotare voleva dire mettersi in proprio, inventarsi un mestiere e provare a campare senza la sicurezza del salario a fine mese. Sono i “cuentapropistas”, i nuovi figli illegittimi della vecchia rivoluzione imbolsita. Carmelo Mesa-Largo, uno dei più attenti economisti che da Miami seguono la storia della Cuba castrista, traccia otto cicli che si alternano in questa storia ch'è lunga ormai mezzo secolo, quattro cicli li chiama “idealisti” e quattro “pragmatici”, una sorta di pendolo che si sposta e dondola seguendo una volta le pressioni della vecchia guardia conservatrice e una volta la necessità di aprire la cassaforte del paese alle esigenze d'una economia in evidente asfissia di capitali. Ora siamo nell'ultimo ciclo “pragmatico”, quello dove la Revoluciòn mette un po' da parte le sue bandiere ideologiche e lascia spazio al mercato, “ma uno spazio mai così ampio come questa volta”, dice il professore, che ha appena scritto un libro nel quale Raùl non è più “il fratello di” ma si è meritato ora un titolo tutto suo, Raùl e basta.

Andrès però, al telefono da laggiù, non ama molto parlare di politica e di strategie; diciamo per lui che i fatti, a raccontarli, sono meno compromettenti delle idee, e dei giudizi. I gattopardi dell'Avana hanno conservato intatto il loro strumentario repressivo, “adelante” sì, d'accordo, ma “con juicio”, con tanto juicio; e poi la Revoluciòn è comunque un mito che resta tuttora ben piantato nel cuore dell'isola, come una identità comune, condivisa con un sentimento profondo e la cui crisi, al massimo, viene imputata al tradimento d'una Nomenclatura sclerotizzata, che difende la propria continuità più che lo spirito di un antico progetto. E sarebbe proprio l'ora di finirla lì. Ma il tempo di Cuba è pigro, a cambiar pelle ci si mette sempre del tempo, e le cose si consumano lentamente nella vita quotidiana dell'isola.

E allora, Andrès preferisce raccontare di suo zio Julio, che ora fa anche lui il cuentapropista ed è uno dei tanti ex servitori dello Stato che oggi se ne stanno piazzati agli angoli delle strade a fare il nuovo mestiere d'ambulante; e non solo in centro, anche se il tranquillo quartiere del Vedado è quello che gli offre i migliori guadagni. Ha un carrettino, sul quale espone frutta e generi alimentari e ci campa su. La licenza di vendita, allo zio, è costata soltanto 50 pesos - che non è una gran somma, dice Andrés - anche se lo stipendio che, prima, lo zio prendeva dallo Stato era poco meno di 500 pesos. Julio era nei quadri del Ministero dello zucchero, che è stato uno dei più flagellati dalla “actualizaciòn del modelo” (nome ufficiale delle riforme che denudano il gigantesco impianto centralizzato delle politiche governative), e ha dovuto mollare la sua solida poltrona e mettersi in strada, “con la zia che piangeva che chissà come ce la saremmo cavata”.

In realtà, la “actualizaciòn” prevedeva freddamente che a essere espulso dalla nicchia confortante del lavoro statale fosse, entro il 2015, un milione di pubblici dipendenti, e che nel corso del tempo l'intera macchina pubblica si sarebbe poi dovuta smagrire addirittura del 33 per cento; sogni caraibici: oggi i numeri dicono spietati che l'esodo si è arrestato su quei primi 400mila che hanno accompagnato in strada il vecchio tìo Julio, e pare proprio che non si riesca ad andare oltre. Anche i gattopardi sonnecchiano, a Cuba.

Quando Raùl decise ch'era tempo di cambiare per non finire sepolti sotto le macerie d'una rivoluzione dove la “spinta propulsiva”s'era esaurita ormai da tempo, il piano delle riforme elencava ben 178 possibili licenze di lavoro privatizzato; e c'era di tutto, dall'antennista al taxista, dal venditore ambulante di prodotti agricoli all'affittacamere, al gelataio, al venditore di Cd, all'operatore di apparecchiature per l'intrattenimento pubblico. Una rivoluzione diffusa, insomma, dove l'inventiva ch'è la dote maggiore dei cubani potesse liberare tutte le proprie irriverenti potenzialità. E per molti non è andata affatto male: Andrès dice che “el tìo” riesce ad acchiappare fino a 130 pesos al giorno, con un bilancio annuale non lontano dai 40.000 pesos, ch'è un gruzzolo ben più sostanzioso dei 6.400 pesos che prima gli passavo lo Stato. “E la zia ora è contenta, e non si preoccupa più”.

Andrès compra la sua merce dai contadini (c'è stata una larga redistribuzione di terre incolte ai “campesinos”) o anche dai negozi statali, e naturalmente deve fare un ricarico che gli consenta un buon margine di guadagno: i fagioli neri (che a Cuba sono come per noi gli spaghetti) li vende a un terzo in più del prezzo ufficiale, e così anche la carne di maiale, che invece dei 56 pesos al chilo viene in vendita a 70. Naturalmente, deve pagarci su le tasse: sono poco più di 2.500 pesos l'anno, “e non va male”. Solo che la corruzione sta nelle vene del regime, e per poter lavorare lo zio Julio deve pagare “ogni tanto” una multa di 180 pesos agli ispettori della polizia: sono multe, diciamo, discrezionali, che non sempre finiscono davvero nelle casse dello Stato. Ma la burocrazia ha i suoi costi, e comunque anche gli ispettori della polizia devono poter campare.

Sta nascendo una nuova classe media, abborracciata, legata spesso ai guadagni spropositati del settore turistico, sempre in bilico sulle contraddizioni d'un sistema monetario duale (1 peso vale 1 dollaro, ma poi nei fatti ce ne vogliono 25), costretta a navigare dentro le timidezze pavide d'un regime che vorrebbe cambiare senza però rimetterci il potere. Le prospettive sono buone ma incerte, come i venti veloci del Caribe che spostano le grandi nuvole ancorate ai cieli dell'isola d'un comunismo che non ce la fa più.

Ps. Anche senza cognome, Andrés e Julio sono nomi finti. Troppi guai potrebbero piombargli addosso, se fossero identità riconoscibili dalla polizia cubana.

 

Ordine di chiusura per i locali 3D.

 

Aperte negli ultimi mesi soprattutto nella capitale, avevano avuto un grande successo. Vietati anche i videogiochi

di OMERO CIAI

04 novembre 2013

Cuba, primo stop alle riforme: al bando le sale cinematografiche private

Spettatori in attesa di vedere un film al cinema "3D mania" all'Avana (ap)

NON è "l'indietro tutta" ma forse il segnale che le pur blande riforme economiche di Raúl Castro hanno aperto una contesa dentro i massimi vertici del potere fra rinnovatori e conservatori sulle vie da seguire. L'altro ieri, con una nota ufficiale del Comitato esecutivo del Consiglio dei ministri, il governo cubano ha ordinato la chiusura immediata delle sale di cinema private, i locali di videogiochi e la vendita di prodotti d'importazione.

I cinema privati e le sale di videogiochi sono sorti, soprattutto all'Avana, negli ultimi mesi approfittando delle pieghe della legge sull'iniziativa privata che cinque anni fa costituì l'avvio del programma riformatore di Raúl. A differenza delle sale dello Stato, di solito mal tenute e con una programmazione da cinema d'essai, quelle private proiettano pellicole appena uscite e in 3D, importate spesso illegalmente dagli Stati Uniti o dall'Europa, ed hanno avuto subito un grande successo di pubblico.

Ma l'esito e il loro status legale indefinito hanno provocato un problema per le autorità che hanno autorizzato alcune forme di iniziativa privata ma vogliono nello stesso tempo proteggere le imprese di Stato. Tra l'altro la nascita delle sale private, dei locali di videogiochi e della vendita di prodotti importati (dai vestiti ai rossetti fino ai tagliaunghie) per le strade della capitale ha favorito anche l'arrivo di investimenti privati dall'estero. Piccole società o imprenditori che hanno scommesso sulla formazione di un nuovo mercato interno grazie alla riforme. È il caso di un canadese citato dall'Associated Press che ha aperto una sala 3D investendo 100mila dollari solo per le attrezzature.

L'accelerazione alle modiche pillole di capitalismo sull'iniziativa privata consentite dal regime deve aver fatto scattare l'allarme provocando l'intervento del governo per reprimere e regolare una situazione che rischiava di andare "fuori controllo". Dall'avvio delle riforme economiche nel 2008 l'isola ha attraversato numerosi "stop and go" ma è la prima volta che il governo interviene in modo drastico contro il cosiddetto "cuentapropismo", il lavoro in proprio, che secondo stime pubbliche ha generato oltre 400mila posti di lavoro in pochi anni.

Dietro alla chiusura delle sale cinematografiche private sembra però esserci anche altro. E come nel caso della crociata contro il reaggeton, il ballo apertamente osceno che fa impazzire i Caraibi, c'è il desiderio del regime di continuare a gestire la politica culturale. Non a caso qualche giorno prima dell'ordine di chiusura su un organo ufficiale come Juventud Rebelde si poteva leggere: "Le sale private promuovono molta frivolezza, mediocrità, pseudocultura e banalità. Questo è il contrario di una politica che dovrebbe esigere solo la qualità per il consumo culturale dei cubani". Niente James Bond e tanta "Corazzata Potemkim", avrebbe detto anni fa qualcuno

 

Cuba abbandona la doppia moneta

Era un sistema in vigore dal 1994: doveva servire a proteggere l'economia, ma non ha funzionato e il governo ne ha annunciato la fine

 

Martedì 22 ottobre il governo cubano di Raul Castro ha annunciato l’eliminazione del sistema della doppia moneta – basato sul peso comune e sul peso convertibile – in vigore nel paese dall’agosto del 1994. La decisione è stata resa pubblica da una nota di una decina di paragrafi pubblicata sul quotidiano cubano filo-governativo Granma.

Dal 1994 il sistema della doppia moneta prevede che gli abitanti di Cuba ricevano lo stipendio, paghino i prodotti e i servizi di base in pesos comuni (CUP), mentre per i prodotti importati e alcuni servizi, come il turismo, vengono utilizzati i pesos convertibili (CUC). Il sistema era stato introdotto dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando Cuba dovette affrontare una grave crisi economica causata dalla scomparsa di governi che erano stati per tanti anni i principali, a volte unici, destinatari dei suoi prodotti. Ogni peso convertibile equivale a 1 dollaro americano o a 25 pesos comuni. Il provvedimento governativo prevede che il valore del peso convertibile sia progressivamente unificato con il valore più basso del CUP. La nota su Granma spiega i motivi della scelta del governo cubano:

«L’unificazione della moneta e del tasso di cambio non è una misura che risolva da sola tutti i problemi attuali dell’economia, però l’applicazione di questa misura è imprescindibile al fine di garantire il ripristino del valore del peso cubano e delle sue funzioni come moneta, ovvero come unità di conto, mezzo di pagamento e riserva di valore.»

L’economia cubana è quasi interamente gestita dallo stato: nonostante il settore del turismo sia cresciuto parecchio dopo la fine dell’Unione Sovietica, Cuba è rimasta in una situazione di isolamento economico internazionale e di crisi. Il sistema della doppia moneta avrebbe dovuto proteggere l’economia di Cuba, ma nel corso degli anni ha prodotto alcuni effetti negativi: per prima cosa si è creata una disparità di ricchezza sempre più grande tra chi è pagato in CUP e chi invece ha accesso ai dollari o ai CUC provenienti dal settore del turismo o dal commercio estero; inoltre le due monete hanno creato due “mercati paralleli”, e un conseguente senso di esclusione economica di una fascia della popolazione cubana.

L’eliminazione del sistema della doppia moneta era stata pianificata fin dall’aprile del 2011, nell’ambito dell’ampio piano di riforme strutturali dell’economia decise da Raul Castro. Il governo di Cuba ha stabilito un calendario di massima per l’eliminazione del sistema della doppia moneta, ma non ha specificato nei dettagli le tempistiche: ha comunque aggiunto che il processo inizierà con il cambiamento dei sistemi informatici statali per la gestione dei registri contabili. L’agenzia di stampa Reuters, citando alcuni economisti cubani, ha scritto che il processo richiederà circa 18 mesi prima di essere concluso.

 

 

Il nuovo tour americano di Yoani

(- In via di conclusione una bella favola?-  Niki)

21 Ottobre 2013

  

Per stare dietro agli spostamenti internazionali di Yoani Sánchez dobbiamo leggere o ascoltare ogni giorno Martì Noticias, ché al Nuevo Herald qualche viaggio comincia a sfuggire. Apprendiamo che in data 18 ottobre la famosa blogger era a New York dove ha parlato (novità!) di reti sociali e di giornalismo civico agli studenti dell'Università di Baruch. Ieri – domenica 20 ottobre –, invece, ha parlato all'Assemblea Generale della Società Interamericana della Stampa, a Denver (Colorado), per dire: «Il peccato originale del Presidente Raúl Castro è quello di non essere mai stato eletto a ricoprire l'incarico che occupa». Sconcertante affermazione paragonabile alla scoperta dell'acqua calda. Udite, udite, la blogger ha aggiunto: «Castro ha ereditato il potere senza poter contare sul voto dei cittadini cubani». Per poi concludere: «Paragonare Raúl con Fidel è un esercizio abbastanza superficiale, perché entrambi sono repressori». Talmente repressori – aggiunge il vostro piccolo cronista che non scrive per El País, non è originale, non ha mai firmato contratti milionari per partecipare alla fiera dell'ovvio – che la blogger continua a fare il giro del mondo e a dire quel che crede, senza subire la benché minima conseguenza...

 

Gordiano Lupi

 

A Cuba i nuovi turisti sono i cubani

Nei primi sette mesi del 2013 sono aumentati del 12,6% raggiungendo quota 339.470

Per far fronte al calo di turisti stranieri (-1,8 % dall'inizio dell'anno), Cuba spera nel turismo interno. L'industria del turismo cubana, infatti, punta ad arrivare ai tre milioni di persone in vacanza, e per raggiungere questo traguardo può contare su un aumento del numero di "vacanzieri" nazionali in grado di compensare alcuni cali nel numero di visitatori stranieri a causa della crisi globale.

Nei primi sette mesi del 2013, infatti, i turisti cubani nel loro Paese sono aumentati del 12,6 % rispetto allo stesso periodo del 2012. In particolare, lo scorso agosto, mese in cui i cubani sono più spesso in vacanza, è stato battuto il record nazionale negli alloggi e hotel del Paese, in grande contrasto con cinque anni fa, quando quei luoghi erano stati parzialmente chiusi ai cittadini. Nel mese di agosto di quest'anno, il record è stato superato quando 17.099 cubani hanno occupato le camere in un solo giorno.

Da gennaio a luglio scorso 339.470 cubani hanno soggiornato in alberghi come turisti e, secondo le stime, alla chiusura del 2013 si raggiungerà la cifra di 625.000, quasi 100 mila in più rispetto al 2012.

 

  Nuovissime da cuba su aperture economiche

 

Nuove aperture al lavoro autonomo

 di  Luca Pistone.  Scritto  il  30 settembre 2013  alle  7:00. da: https://atlasweb.it

Il governo cubano ha dato il via libera a dieci nuove modalità di lavoro autonomo sull’isola, tra le quali spiccano gli agenti postali, delle telecomunicazioni e immobiliari.cubacastro

La Gazzetta Ufficiale di Cuba ha pubblicato nel fine settimana una risoluzione con la quale viene ampliata la lista delle attività di lavoro autonomo, in linea con le recenti riforme promosse dal presidente Raul Castro per modernizzare l’economia del paese.

Si tratta di cambiamenti che obbediscono alla “necessità” di contemplare nuove attività, “rimuovere le limitazioni” e “definire meglio la denominazione e il campo di applicazione” delle licenze, secondo quanto hanno detto i dirigenti del ministero del Lavoro e della Sicurezza Sociale al quotidiano ufficiale Granma.

Tra le novità, viene messa in evidenza la legalizzazione della professione dell’agente immobiliare, attività che ha trovato una certa diffusione a partire dal 2011, anno in cui il governo ha concesso ai cubani di vendere e acquistare immobili privatamente.

In rilevo anche la nuova figura dell’ “agente delle telecomunicazioni”, che si occuperà della “promozione e vendita al dettaglio di prodotti e servizi delle telecomunicazioni fornitigli all’ingrosso da Etacsa”, l’impresa statale che disciplina il settore.

L’gente postale privato “consegnerà la posta alla popolazione”, ma dovrà prima ottenere la licenza di “operatore designato” dall’ufficio territoriale delle Poste di Cuba.

La lista dei nuovi lavoratori autonomi comprende anche i grossisti e i dettaglianti di prodotti agricoli (solo in alcune province), gli antiquari, i gestori di alloggi in affitto, gli imprenditori edili, tra gli altri.

Secondo gli ultimi dati ufficiali, sono 436.342 i cubani che esercitano una professione autonoma nell’isola.

 

Gli atleti cubani potranno gareggiare all'estero

Da: https://ilvecchioeilmare.blogspot.it/

sabato 28 settembre 2013

Da tempo avevo anticipato che c'era aria di cambio anche nella sfera dello sport a Cuba (In vista aperture all'economia nello sport cubano, post del 22 agosto 2012). Finalmente, con buona pace di Alberto Juantorena, strenuo difensore del dilettantismo (magari di Stato), è arrivata la disposizione che permette agli atleti cubani, di qualsiasi disciplina, di competere per club stranieri all'estero. Una principio anche questo che, seppur atteso nella speranza, era inaspettato dai più. Le difficoltà maggiori saranno per i potenziali giocatori delle Grandes Ligas del baseball nordamericano,

ma anche di qualunque altro sport, che troveranno difficoltà ad essere contrattati legalmente fino a che risiedano a Cuba, in virtù dell'assurda legge sull'embargo. Questo continuerà ad essere un problema, perché se tutti gli atleti potranno essere contrattati in ogni parte del mondo, negli Stati Uniti, no, almeno sotto il profilo legale e quindi il pericolo di fughe, nel settore del baseball non è scongiurato. Si aspettavano "aperture"? Piano piano arrivano.

 

Il Decreto sulla Zona Speciale del Mariel

mercoledì 25 settembre 2013

Ho dato una rapida scorsa ai decreti riguardanti questo provvedimento che entrerà in vigore dal prossimo 1° novembre. Non sono un tecnico né un esperto in Legge, per cui quasi 240 pagine di "burocratichese" sono abbastanza indigeste. Per quello che ho potuto vedere le novità importanti sono: che la concessione per l'investimento ha una durata di 50 anni prorogabili e non è soggetta alla "Legge 50" per cui la gestione può essere anche straniera al 100% e gli eventuali utili possono essere riesportati nella valuta convertibile preferita dal titolare del convegno che può essere "persona fisica" o "persona giuridica". In questa ottica, il titolare della concessione potrà avere agevolazioni migratorie per gestire l'azienda o potrà avvalersi di personale straniero, non residente, di sua fiducia e che avrà a sua volta agevolazioni migratorie per lo svolgimento del suo lavoro. La mano d'opera comune, invece è soggetta, come assunzione; alle "vecchie" norme per cui è soggetta all'ufficio di collocamento locale. Altre agevolazioni sono previste per le importazioni delle merci (Dogana) e i trasporti aerei, navali, su strada o per ferrovia. Questo per sommi capi il contenuto che naturalmente deve poi essere valutato da esperti per i dettagli. In sostanza la futura Zona Speciale sarà un'area prettamente industriale, dove anche la mano d'opera locale formata da cittadini cubani o residenti permanenti avrà a sua volta benefici salariali e contrattuali rispetto alla media del Paese.

 

 

 

Cuba tra riformismo e rivoluzione

Come le nuove misure economiche cambieranno il Paese - 

Come diceva una vecchia canzone  «Lo que cambió ayer, tendrá que cambiar mañana». Il mondo uscito dalla Guerra Fredda cambia volto a grande velocità, e così fanno gli attori statali che vi operano. Dalla ferrea regola del mutamento non sono escluse anche le vecchie roccaforti ideologiche.

Da qualche anno è ormai in corso una ristrutturazione della Cuba comunista ad opera di Raul Castro, succeduto al leggendario ma acciaccato fratello Fidel alla guida dell'isola a partire dal 2006 (ufficialmente dal 2008). Un processo lento e graduale, che rispecchia  il pragmatismo di Raul, meno idealista dell'ex Líder Máximo, più uomo di governo che caudillo del popolo.

I cambiamenti voluti dal Politburo hanno investito le relazioni tra Stato, individuo e società in modo radicale e con tutta probabilità permanente, trasformando Cuba in una nazione a Partito Unico che, pur mantenendo un saldo controllo sulla vita economica e sociale dei suoi cittadini, si va facendo meno statalista e si apre meno timidamente che in passato all'economia di mercato.

Bisogna ricordare che l'uso di politiche di apertura al mercato e alle libertà economiche non rappresentano una novità assoluta. Già in passato Fidel aveva risposto a gravi crisi economiche con misure che allentavano la presa del socialismo reale. Ad esempio, dopo il crollo dell'URSS e la gravissima recessione che seguì (il PIL scese del 36%), si inaugurò il cosidetto "Período Especial", che rappresentava un primo slittamento dal modello di pianificazione centrale a un modello a mercato decentralizzato, sempre nell'ambito del socialismo. Perfino la Costituzione cambiò:  nel 1992 fu modificato l'articolo che proibiva la proprietà privata dei mezzi produttivi per permettere di decentralizzare almeno parzialmente la produzione in vari settori quali il turismo, l'agricoltura, l'industria e l'artigianato.

Alcune di queste riforme furono mantenute, altre in seguito soppresse, di modo da non intaccare nella sostanza il modello cubano, che continuò a mantenersi inalterato fino alla recente crisi del 2008, che toccò a Raul affrontare. Mentre le riforme precedenti sembravano infatti parziali concessioni dovute a periodi di emergenza, il nuovo corso indetto sembra derivare dalla presa di coscienza che l'intera struttura economica e sociale cubana necessiti di un cambiamento strutturale:«Riformiamo, o affondiamo», dichiarava il Presidente nel 2010, in uno dei suoi messaggi alla nazione.

Questa nuova consapevolezza è causata da alcune debolezze intrinseche nell'economia del paese, tra cui un saldo negativo della bilancia dei pagamenti dovuto a un eccesso di importazioni, un sistema industriale e produttivo obsoleto e bassi tassi negli investimenti.

I provvedimenti presi per ovviare a questi nodi strutturali sono stati numerosi: dall'aumento di investimenti stranieri, a un ampliamento del mercato immobiliare, all'espansione del settore privato, a una maggiore decentralizzazione dell'agricoltura, alla diminuzione dei dipendenti pubblici. Tutte misure impensabili nei decenni precedenti. Alcuni hanno impattato con forza sulla società cubana, come l'aumento del settore privato, che ha visto crescere del 150 % i lavoratori non impiegati dallo Stato. Stimolare le piccole imprese potrebbe però rivelarsi insufficiente con un mercato del lavoro iper-regolamentato e burocratizzato.

Si sono anche moltiplicate, per le vie di L'Avana e delle altre città, le insegne dei paladares e delle casas privadas, piccoli alberghi e case in affitto per i turisti. Anche i taxi ora si dividono tra servizio pubblico e privato. Si sono così moltiplicati i paragoni con i vecchi stati socialisti staccatisi dall'URSS, ma soprattutto con la Cina e il Vietnam, paesi che hanno sperimentato una simile transizione economica. Si tratta di similitudini stimolanti ma che costituiscono un possibile azzardo.

Ad esempio, il settore terziario rappresentava una percentuale molto limitata delle economie di questi paesi, a Cuba i servizi occupano la maggior parte della popolazione e costituiscono il 75% del PIL. Questo fa di Cuba, come sottolinea un interessante studio apparso su 'Foreign Affairs' «un Paese sottosviluppato con problemi del mondo sviluppato». Ad ogni modo, modelli di successo (economicamente parlando) come quello cinese sono ancora lontani dal concretizzarsi. Le specificità demografiche, economiche e geografiche fanno di Cuba un caso estremamente peculiare tra le economie in transizione che adottano modelli misti.

Uno dei più recenti esempi del nuovo corso, che ne mette bene in luce benefici e problematiche, è rappresentato dalla progressiva implementazione di nuove misure sul traffico di persone da e verso l'isola. Non sono così lontani i tempi in cui il conflittuale rapporto con gli USA, che hanno sempre tentato, almeno fino all'inizio del nuovo millennio, di fomentare un cambiamento finanziando organizzazioni politiche dissidenti ostili al regime, rendeva i movimenti dei cittadini cubani (soprattutto quelli ormai stabilitisi oltremare) un aspro terreno di scontro. Gli emigrati cubani, spesso professionisti che privavano il paese di importante capitale umano, venivano puniti con l'espoprio dei beni a favore dello Stato. Da quando Barack Obama ha consentito le visite dei cubani americani alle famiglie rimaste sull'isola, nel 2009, il traffico è aumentato vertiginosamente. A questo aumento contribuirà, in senso inverso, la nuova legge sull'immigrazione approvata dal Politburo a gennaio di quest'anno che, per la prima volta dopo cinquant'anni, ha rimosso l'obbligo del visto d'uscita e della lettera d'invito per viaggiare all'estero. La legge estende anche il periodo massimo di soggiorno all'estero da 11 a 24 mesi.

I benefici di questa maggiore elasticità sono legati alle rimesse che arrivano ai cittadini cubani dai loro parenti all'estero, che poi altro non sono se non piccoli investimenti, preziosi a livello economico. L'economia dell'isola è fortemente dipendente dai soldi che arrivano dall'estero. Combinati con il moltiplicarsi delle piccole imprese private, gli effetti positivi delle rimesse sono aumentati ulteriormente.

Eppure questa ed altre misure potrebbero rivelarsi insufficienti a produrre un aumento decisivo della ricchezza cubana. Ciò di cui Cuba necessita infatti sono investimenti maggiori, che solo medie e grandi imprese possono offrire. E' proprio su questo versante che emergono tutte le contraddizioni insite nel sistema politico cubano: si teme che misure economiche che favoriscano l'ingresso di grandi capitali esteri potrebbero minarne l'equilibrio interno, provocando sollecitazioni che andrebbero al di là di quello che Raul e i suoi ministri auspicano. Per questo motivo i vertici al potere hanno sempre privilegiato partner commerciali che gli fossero prossimi ideologicamente: i sovietici ieri, il Venezuela oggi. Un rapporto di dipendenza che ha già dimostrato la sua fragilità.

Per il governo cubano si presenta ora il dilemma fondamentale di quella che possiamo già definire l'epoca del post-castrismo: preservare l'ordinamento politico socialista o favorire una crescita economica che potrebbe, in ultima istanza, minarne definitivamente la struttura.

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Cuba sceglie la revolución del superlusso

 

           Punta colorada golf club

( https://vimeo.com/channels/rosebudfilms/36134624 )

REUTERS

L’isola di Fidel Castro è sempre più lontana da come

il fondatore del regime l’aveva concepita

In costruzione alberghi e villaggi con porti per yacht in stile Abramovich

PAOLO MANZO

SAN PAOLO

 

La revolución del pueblo guidata da Fidel è meglio che ve la scordiate. Scordatevela perché la Cuba targata 2013 sta puntando oramai sulla revolución del superlusso. L’«altra Cuba» non è più insomma quella del Che e neanche quella del partito unico – che pure ancora esiste e resiste. L’«altra Cuba», quella di oggi, è fatta sempre più di maggiordomi al servizio ventiquattro ore su ventiquattro, di yacht «alla Abramovich», di resort stile Cancún e di campi da golf degni di un Master. 

Per rendersene conto basta guardare agli ultimi due mega-investimenti fatti da Raúl Castro, il fratello di Fidel oggi alla guida del Paese. Il primo si chiama «Marina Gaviota» ed è un vero e proprio gioiello del settore turismo luxury o, se preferite, di alta gamma. Già perché questa struttura – per cui sinora sono stati spesi circa un miliardo di dollari dal regime in partnership con investitori stranieri – non è una colonia estiva per il pueblo ma un villaggio superesclusivo con un porto da mille posti barca per ricchi. Situato a Varadero - la penisola più vicina alla costa della Florida e dove ogni anno confluiscono milioni di villeggianti da ogni parte del mondo - il «Marina Gaviota» ospita già oggi un lussuoso hotel a 5 stelle dove i prezzi medi si aggirano attorno ai 200 euro a notte, 10 volte lo stipendio medio di un cubano. Presto, a lavori ultimati, potrà anche ospitare gli yacht dei turisti più facoltosi del globo lunghi sino a 150 metri - «alla Abramovich» per l’appunto e non le barchette del pueblo. Al suo fianco stanno costruendo un villaggio Vip, con 200 appartamenti da sogno e contornato da svariati chilometri di spiaggia paradisiaca. 

Dall’altra parte dell’isola, a Pinar del Río e a meno di un’ora di volo da Cancún, si sta invece edificando un altro pezzo forte della revolución del lusso fortemente voluta da Raúl, ovvero il «Punta Colorada Golf & Marina». Sarà il più grande complesso turistico di Cuba, sorgerà su quattromila ettari, con sedici chilometri di spiagge mozzafiato, ventimila appartamenti dotati di ogni confort, cinque hotel a 5 stelle e sette campi da golf da 18 buche da far invidia a Tiger Woods. Il tutto condito dalla presenza di due «porticcioli» con una capacità totale da 1.400 posti barca. Difficile immaginare qualcosa di meno comunista e di più consumista se si pensa che proprio a Punta Colorada il regime ha in mente di far attraccare anche le navi da crociera più «in» che solcano il Mar dei Caraibi.

 

Commerciante, una brutta parola

* Le contraddizioni dell'evoluzione delle riforme sull'economia cubana si evidenziano in questi post.

Yoani Sancez

Se la realtà potesse personificarsi, entrare in un corpo, avere contorni fisici, se una società potesse essere rappresentata come un essere vivente, la nostra sarebbe un adolescente nel periodo della crescita. Una persona che si vede allungare braccia e gambe, che desidera scrollarsi di dosso il paternalismo e diventare adulto. Ma quel ragazzo imberbe, indossa un vestito così stretto che non riesce quasi a respirare. La nostra quotidianità è rimasta schiacciata dal corsetto di una legalità fatta di eccessive proibizioni e di un’ideologia antiquata e poco funzionale. Dipingerei così la Cuba di oggi, perché una forma di pubertà repressa, rappresenta bene il contesto in cui vivo. 

Il governo non pare propenso a riconoscere le nostre necessità di espansione economica e politica. Al contrario, tenta di costringerci in forme assurde. Basti vedere il caso del limitato numero di occupazioni consentite per il lavoro “per conto proprio”, quel settore che in qualunque altro paese sarebbe definito “privato”. Invece di ampliare il numero di licenze per includere molte altre attività di produzione e servizi, le autorità pretendono di ritagliare la realtà in maniera tale da farla ricadere nell’elenco delle cose consentite. La legge non cerca di incentivare creatività e talento, ma è come una briglia stretta che limita il campo di azione individuale.

L’ultimo esempio di questa contraddizione lo vediamo con le azioni di polizia contro chi vende vestiti importati, che provengono fondamentalmente da Ecuador e Panama. Secondo i media ufficiali molti di questi mercanti hanno utilizzato una licenza da “Sarto” che consentiva di commercializzare gli articoli prodotti con le loro macchine da cucire, per offrire invece camicie, pantaloni e borse di confezione industriale. I trasgressori sono stati puniti con il sequestro della mercanzia e con multe esorbitanti. In questo modo gli ispettori pretendono di far indossare alla nostra realtà la camicia di forza di quanto stabilito dalla Gazzetta Ufficiale. 

Invece di tanta persecuzione sarebbe opportuno autorizzare il lavoro del “commerciante”. Comprare, trasportare e rivendere articoli molto richiesti non dovrebbe essere considerato un delitto, ma un’attività regolata da contribuzione fiscale tramite imposte. Negare questo meccanismo strategico dell’ingranaggio di ogni società significa ignorare la struttura economica sociale. L’apparato legale di una società non esiste per condannarla all’infanzia del piccolo chiosco, della manifattura e della vendita di frittelle, ma per aiutarla a progredire professionalmente e materialmente. Fino a quando il governo cubano non accetterà queste regole elementari dello sviluppo, la nostra realtà dovrà crescere allungando le braccia verso illegalità e clandestinità. 

 

Traduzione di Gordiano Lupi  

 

 

Zona Speciale di Sviluppo del Mariel

da https://ilvecchioeilmare.blogspot.it/

Dal primo novembre entrerà in vigore la Zona Speciale di Sviluppo del Mariel, nella provincia di Artemisa ad occidente della capitale e godrà di uno Statuto Speciale per promuovere nuove forme economiche. Il fulcro sarà il costruendo porto industriale che prende appunto il nome dalla località che sarà il più importante porto commerciale di Cuba. Il primo molo, di 700 metri di lunghezza, sarà inaugurato il prossimo gennaio e il complesso verrà ultimato entro il 2015. Nell'opera sono impegnati ingenti capitali, mezzi e tecnici brasiliani. L'area, distribuita su 465 km. quadrati, comprende diversi centri abitati della provincia. Vi si avvieranno attività a Statuto Speciale dove potranno investire anche gli stranieri senza obbligo di residenza, attenendosi naturalmente alle Leggi cubane, fra cui il Decreto di approvazione di questa Zona Speciale, 

che verrà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale nei prossimi giorni e conterrà i dettagli di come poter accedere agli investimenti e in quale misura dovranno o potranno essere. Anche per i lavoratori di questa "zona franca" ci sarà un regime speciale di trattamento. Indubbiamente un'altra spinta riformista, dopo anni di immobilismo.

 

Garrincha e le canzoni di protesta

“Voglio studiare per fare il gigolò”

19 Settembre 2013

  

– Noi sì che parliamo di cose sacre per il popolo di Cuba! Come in questa canzone, che parla dei dolci favoriti dei Cinque Eroi!

 

Questo è il grido del cantante di Garrincha, emulo governativo di Robertico.

I Cinque Eroi sono i cinque agenti cubani, prigionieri del governo USA, accusati di aver svolto attività di spionaggio in territorio americano. Come è noto a chi segue le cose di Cuba, la propaganda governativa fa largo uso del tema in funzione nazionalista...

Il futuro chiarirà i motivi per cui Robertico ha cantato quella canzone in TV. Il tempo è galantuomo, come nel caso del battibecco all'Università tra Eliécer Avila e Ricardo Alarcón. Come tutti hanno potuto vedere, Alarcón è stato defenestrato. Uno più uno, anche a Cuba, fa sempre due.

20/09/2013

  Dopo l'exploit televisivo di Robertico Carcassés (non lo conosceva nessuno – neppure io che vivo di cultura cubana da 15 anni a questa parte – e adesso il suo nome è sulla bocca di tutti, canterà persino con Silvio Rodriguez), la satira cubana si appunta sulle canzoni di protesta.

Garrincha disegna un improbabile cantante che intona questi versi:

– Voglio... mangiarmi un gatto vivo, studiare per fare il gigolò... prendere a sassate un cieco, mangiarmi mia nonna bollita... avere un locale con una caffetteria...

Il comunista (in verde olivo) non si scompone e rassicura una vecchietta scandalizzata:

– Compagna, è stato molto peggio quel che ha detto quell'opportunista di Robertico Carcassés.

 

Gordiano Lupi

 

 

Garrincha, Robertico e la Rivoluzione

            Il musicista jazz Roberto Carcassès, invitato con altri ospiti ad un concerto per la liberazione dei 5 agenti cubani antiterroristi,ancora in prigione negli USA, ha improvvisato in diretta uno stornello che inneggiava alla libertà di opinione e ad elezioni libere. Come prima ritorsione del governo è stato sospeso a tempo indeterminato a esercitare la sua professione. Il fumettista Garricha da Miami ironizza con questo disegno che vede il musicista frustare  con il nastro giallo,  simbolo della protesta cubana e segno internazionale  che un prigioniero, un ostaggio torni a casa.

NIKI

18 Settembre 2013

 

Garrincha stigmatizza con ironia la frustata metaforica che Robertico Carcassés ha dato a Fidel Castro con la canzone messa in onda durante la diretta TV. Il cantante ha confermato su Facebook le sue idee, aggiungendo un appello per la liberazione dei cinque eroi (le spie cubane detenute da anni negli Stati Uniti), cercando di allinearsi al discorso rivoluzionario. Il cantante non crede che le sue parole abbiano recato “beneficio al nemico”, come ha sottolineato un funzionario del governo, né che la “Tribuna Antimperialista” fosse il luogo meno adatto per improvvisare le sue richieste libertarie.

«Con la mia canzone chiedo semplicemente di migliorare il nostro sistema, cosa che stiamo cercando di fare. Non sono un controrivoluzionario e non merito alcun tipo di repressione. Penso che la mia esibizione abbia dimostrato che il governo cubano accetta la diversità di opinione».

L'episodio è sconcertante, anche perché Silvio Rodriguez (notoriamente cantante pro regime) ha annunciato sul suo blog che Robertico canterà con lui nei prossimi concerti. E allora? Come sempre, quando si parla di Cuba, la risposta non è facile...

 

Gordiano Lupi

 

 Le mie parole durante il Forum 2000

Yoani Sánchez.

17 Settembre 2013

  

Buona notte,

Sono passati ormai oltre dieci anni da quando mi capitò tra le mani per la prima volta il libro di Václav Havel Il potere dei senza potere. Era foderato con una pagina del periodico ufficiale del mio paese, il quotidiano del Partito Comunista di Cuba. Foderare i libri era uno dei tanti sistemi che usavamo per nascondere alla vista di informatori e polizia politica i testi scomodi e proibiti dal governo. In questo modo siamo riusciti a leggere clandestinamente tutto quel che è successo dopo dopo la caduta del muro di Berlino, la fine dell'Unione Sovietica, la trasformazione ceca e tutti gli altri eventi che hanno interessato l'Europa dell'Est. Siamo venuti a conoscenza di tutti quei cambiamenti, alcuni più traumatici, altri più fortunati, e in molti abbiamo sognato che il cambiamento arrivasse presto anche nella nostra Isola del Caribe, oppressa da oltre cinquant'anni di regime totalitario. Ma il cambiamento più che sperarlo devi costruirlo. I processi di cambiamento non arrivano da soli, i cittadini devono promuoverli.

Oggi mi trovo qui, proprio nella città dove nacque Václav Havel, un uomo che riassume come pochi lo spirito del cambiamento. Mi trovo anche davanti a molte persone che hanno promosso, dato impulso e personificato il desiderio di cambiamento delle loro rispettive società. Perché la ricerca di orizzonti caratterizzati da maggior libertà, è una componente essenziale della natura umana. Per questo motivo diventano così incomprensibili e innaturali quei regimi che tentato di governare in eterno sulle proprie popolazioni, immobilizzandole, togliendo ogni desiderio di sognare un futuro migliore.

Ai tempi di Václav Havel, Lech Walesa e tanti atri dissidenti dei regimi comunisti, furono messi in campo validi strumenti di lotta pacifica e sindacale, persino la creazione artistica si schierò al servizio del cambiamento. Adesso è venuta in nostro aiuto anche la tecnologia. Ogni volta che utilizzo un telefono mobile per denunciare un arresto o racconto nel mio blog la difficile situazione di tante famiglie cubane, penso a come sarebbero stati utili questi attrezzi fatti di schermi e tastiere per gli attivisti dei decenni precedenti. Le loro voci e i loro progetti sarebbero arrivati molto più lontano, se avessero potuto contare sulle reti sociali e su tutto il cyberspazio che oggi si apre davanti ai nostri occhi. Il WEB 2.0 ha rappresentato, senza dubbio, una spinta per quello spirito di cambiamento che tutti noi abbiamo dentro.

Oggi, per la prima volta, è presente al Forum 2000 una piccola delegazione di attivisti cubani. Dopo decenni di reclusione insulare durante i quali il regime del nostro paese impediva a molti dissidenti, giornalisti indipendenti e blogger alternativi di viaggiare all'estero, abbiamo ottenuto una piccola vittoria: ci è stato aperto il lucchetto delle frontiere nazionali. È una vittoria limitata, incompleta, perché ancora ne mancano molte altre. La libertà di associazione, il rispetto della libera opinione, la capacità di eleggere i nostri rappresentanti, la fine degli odiosi meeting di ripudio che ancora persistono nelle strade cubane contro coloro che pensano in maniera diversa rispetto all'ideologia dominante. Malgrado tutto, siamo in molti a sentire che Cuba sta cambiando. Un cambiamento che si sta verificando nel modo più irreversibile e fondamentale: dall'interno dell'individuo, nella coscienza di un popolo.

Molti di voi avranno influito su quel cambiamento. Molti di voi che siete arrivati prima alla libertà e vi siete resi conto che non è la fine del percorso, ma che la libertà porta nuovi problemi, nuove responsabilità, nuove sfide. Voi che nei paesi di appartenenza avete mantenuto vivo lo spirito del cambiamento, persino mettendo in pericolo i vostri nomi e le vostre vite. Come lo spirito del cambiamento contenuto in quel libro di Václav Havel, foderato – per mascherarlo – con le pagine del periodico ufficiale più immobilista e reazionario che si possa immaginare. Come quel libro, il cambiamento si può proibire, censurare, si può definire quasi una brutta parola, si può ritardare e demonizzare... ma alla fine arriverà.

 

Praga, 16 settembre 2013

Yoani Sánchez

Traduzione di Gordiano Lupi

 

CUBA-STATI UNITI:

RIPRENDONO I COLLOQUI SUL SERVIZIO POSTALE DIRETTO

    di  Luca Pistone.  Scritto  il  17 settembre 2013  alle  7:00.

Stati Uniti e Cuba hanno iniziato ieri all’Avana il secondo round di colloqui su un eventuale ripristino del servizio di posta diretto tra i due paesi dopo mezzo secolo di interruzione.cubaposta

“Si lavorerà sui dettagli di un progetto pilota per offrire un servizio postale diretto”, recita una nota del dipartimento di stato Usa.

Le parti hanno concluso in giugno un primo incontro, definendolo “positivo e costruttivo”. La proposta, riportano i media statunitensi, è relativa all’invio di lettere, e non di pacchi o posta espressa.

La direttrice esecutiva dei servizi internazionali del servizio postale degli Stati Uniti, Lea Emerson, è alla guida della delegazione del suo paese ai colloqui, mentre i cubani sono rappresentati da José Cabañas, capo della sezione di Interessi a Washington,

Il servizio di posta diretta tra Cuba e Stati Uniti è stato interrotto nel 1963. Ciononostante, lettere e altra corrispondenza sono filtrate in entrambi i paesi separati da circa 145 chilometri attraverso altre nazioni.

Le relazioni tra i due paesi sono congelate dal 1959, anno in cui ha avuto luogo la rivoluzione cubana guidata dall’ex presidente Fidel Castro. Washington ha mantenuto contro l’Avana severe sanzioni economiche e commerciali per oltre mezzo secolo.

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha ripreso i colloqui sulla migrazione e il servizio postale con Cuba nel 2009, entrambi sospesi dall’amministrazione George W. Bush nel 2004.

Negoziazioni bruscamente troncate in seguito all’arresto nell’isola caraibica del contractor statunitense Alan Gross, condannato nel 2011 a 15 anni di carcere per il suo ruolo nella creazione di una rete illegale di internet che sfuggiva al controllo dello stato cubano.

Le autorità cubane hanno accennato ad un possibile scambio di Gross con quattro ex agenti dei servizi segreti cubani detenuti negli Stati uniti da 15 anni con l’accusa di spionaggio.

In agosto Cuba ha permesso per la prima volta la visita di un medico statunitense a Gross.

 

Cuba, vescovi a Raul Castro: è momento riforma politica

In lettera aperta, 13 prelati cubani chiedono società pluralista

‘Cuba è chiamata ad essere una società pluralista, essendo la somma di molte realtà cubane’

 

Riforme economiche sì, ma e' necessario anche un cambiamento "nell'ordine politico": e' il chiaro messaggio che la Chiesa cattolica cubana ha inviato al governo del presidente Raul Castro, attraverso una lettera aperta - con un titolo evocativo preso dall'epistola ai Romani: "la speranza non delude" - pubblicata oggi nel sito web della conferenza episcopale dell'isola (Cec). Nel testo, i tredici vescovi cubani sostengono che e' ormai "imprescindibile" che sia messa in atto "una attualizzazione, un aggiornamento della legislazione nazionale nell'ordine politico", cosi' come "sta gia' avvenendo nell'aspetto economico".

"Cuba e' chiamata ad essere una societa' pluralista, essendo la somma di molte realta' cubane, il che vuol dire in altre parole che Cuba e' la nazione di tutti i cubani, con le loro differenze e le loro aspirazione, anche se non sempre e' stato cosi'", si legge nella lettera. I vescovi riconoscono che negli ultimi anni "si e' aperta una tappa della nostra storia che comincia a mostrare le possibilita' che si aprono quando si applicano nel paese un insieme di misure che incidono sull'economico, il sociale e fino a un certo punto il politico" e sono "il riflesso chiaro, anche se per ora incompleto, di richieste da tempo presenti nella popolazione". Fra queste riforme i vescovi ricordano la liberalizzazione del settore agricolo, "la liberazione di coloro che erano stati imprigionati per le loro idee politiche" e "l'eliminazione di misure restrittive che attentavano contro la dignita' dei cittadini", come la proibizione di usare strutture alberghiere, costituire una piccola azienda, comprare e vendere proprieta' o viaggiare all'estero. Ora pero', incalzano, e' giunto il momento della riforma politica a Cuba, dove "lo Stato partecipativo deve sostituire definitivamente quello paternalista" e "non si deve temere lo sviluppo di una autonomia sociale forte e responsabile, rafforzata dalla base e in accordo con le norme di una convivenza civile, in grado di sviluppare un lavoro fraterno". I vescovi ammettono che esistono ancora forti resistenze a ogni cambio politico nell'isola, il che e' dovuto anche "a una mentalita', un modo di pensare che si basa su fattori ideologici che erano presenti nell'origine e lo sviluppo" del regime castrista "e si sono mantenuti nel tempo senza tenere conto che la nostra realta' e' cambiata". Fra i settori nei quali la Chiesa afferma sia necessario un cambiamento c'e' anche il rapporto con gli Stati Uniti, andando verso "una politica di inclusione, in base al rispetto delle differenze, che permetta di attenuare le tensioni e le sofferenze che vivono numerose persone e famiglie".

 

 

Cuba: musicista critica regime in tv, messo al bando

L'Avana, 17 set. (Adnkronos/Dpa) -

 

E' stato messo al bando "a tempo indeterminato" da tutte le istituzioni culturali statali il musicista jazz che nei giorni scorsi aveva criticato in tv il governo cubano e chiesto maggiore liberta' di informazioni. Lo ha denunciato, sulla sua pagina Facebook, lo stesso musicista, Roberto Carcasse, 41enne pianista del gruppo di musica fusion Interactivo, rivelando di essere convocato da un funzionario governativo che gli ha comunicato la "sanzione a tempo indeterminato".

 

Yoani Sánchez. Un uomo davanti al microfono

 

I filtri non sono serviti a niente. Molti occhi davanti ai monitor in cabina di regia, con dita agili per tagliare un segnale, togliere l’audio, mettere da parte una telecamera e passare a un’altra che riprenda la folla… o il cielo. Non sono serviti a niente i professionisti allenati a fare censura televisiva, a disporre tutto per il meglio e a mandare in onda un sottofondo musicale, perché è venuto alla ribalta un artista “spontaneo” e ha detto quel che non avrebbe dovuto durante una trasmissione in diretta. Non sono serviti a niente, perché un uomo davanti al microfono ha preso una decisione esistenziale. Si è reso conto che l’onestà è molto più importante della sua carriera artistica.

Robertico Carcásses si è trovato al posto giusto nel momento giusto. Non ha perso l’occasione di parlare e ha detto senza tanti giochi di parole ciò che molti pensano del regime cubano.

Grazie Bobby, per il coraggio e per l’originalità, ma anche per esserti reso conto della grande opportunità che possiedi con la tua voce e con la tua arte. Grazie!

Yoani Sánchez

(da Generación Y, 15 settembre 2013)

Libero accesso all’informazione

per farmi una mia opinione.

Voglio eleggere il Presidente

per voto diretto e non per altra via.

Né militanti né dissidenti, cubani

tutti con gli stessi diritti.

Che finisca l’embargo…

e l’autoembargo.

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

Gli autobus abruzzesi in giro per Cuba

Sono felice di pubblicare finalmente  questo post con un briciolo di orgoglio essendo abruzzese e a due passi dalla sede di Socialcuba.

Questa notizia era attesa da un’anno, da quando l’ARPA, l'agezia pubblica di trasporti mise in vendita alla simbolica cifra di 1 euro diversi autobus in disuso.

4 di questi furono acquistati dall’associazione e resi efficienti per poi essere donati a Cuba, in particolare alla scuola di Pinar del Rio ma anche in funzione di trasposrto pubblico.

L’associazione ha progammi già eseguiti e in progetto di interscambio culturale e solidale con questa provincia ed in particolare con questa scuola di arte.

Qui sotto riposto un articolo pubblicato da un quotidiano locale ed una piccola clip del documentario realizzato alla consegna lo potete vedere qui: https://video.gelocal.it/ilcentro/locale/gli-autobus-abruzzesi-in-giro-per-cuba/17736

Gli autobus hanno il nome stampato ai lati di quattro giovani dipendenti dell'ARPA prematuramente scomparsi

NIKI

Dal Centro di domenica 15.09.13

 

Nella sede della Cgil a Teramo, alla presenza dell'ambasciatrice cubana in Italia Milagros Carina Soto Aguero, si è tenuta la proiezione del video “I nostri autobus in giro per Cuba”. Il reportage, realizzato a L'Avana, documenta l'avvenuta consegna di quattro autobus Arpa donati all'Università di arte plastica di Pinar del Rio. Il progetto di solidarietà ha visto collaborare insieme l'associazione Socialcuba, la Filt-Cgil e l'azienda di trasporti regionale. Ciascun mezzo è stato intitolato alla memoria di quattro lavoratori Arpa scomparsi prematuramente, Marco Curini, Gianfranco Cichetti, Pietro Cortellini e Sergio Pecorale. L'ambasciatrice è stata poi ricevuta a Palazzo di città dove ha incontrato il vicesindaco di Teramo Alfonso Di Sabatino e i rappresentanti dell'Unione industriale e dell'Ance (a cura di Fabio Iuliano)

 

Perchè si scrive meno di cuba

Questo post è un pò la sintetica spiegazione di come tutti i blog e gli spazi alternativi aperti sull'attuale situazione cubana si siano di colpo infievolliti.

Anch'io ho notato questo importante abbasssamento dei toni e della quantità di informazioni di tutti i generi, anche a livello di mera curiosità, che vengono riportate dall'isola.

Un momento di stanca, un quiete prima della tempensta, o solo la vita che scorre senza commenti.

Che Cuba stia lentamente cambiando non ci sono dubbi,  che forse abbia bisgono di essere lasciata in pace da commenti e descrizioni più o meno di parte anche.

Il mio blog che si occupa di Cuba con una, spero, apertura totale,  soffrirà certametne di questa mancanza di copia incolla  dai siti amici che quotidianamente apro la mattina, ma non sarà spento, a costo di tradurre personalemnte dal Granma in versione cubana, o altre foti in diretta dall'isola cercherò di tenerlo in vita melgio che posso.

NIKI

 

Gordiano Lupi. Perché scrivo poco di Cuba

(Yoani Sancez - New York - marzo 2013)

Non mi occupo molto di Cuba da un po’ di tempo a questa parte. Qualcuno mi fa notare che è un male, che potrebbe essere interpretato come un segnale di un certo tipo. Bene. Mi fa piacere che qualcuno abbia a cuore le sorti di quel che dico e di quel che faccio, più di quanto le abbia a cuore io. Vorrei spiegare anche a me stesso il motivo per cui mi occupo meno di Cuba da un punto di vista politico, ma non smetto di leggere e tradurre letteratura cubana, né di vedere pellicole caraibiche, né di ascoltare buona musica che proviene dall’Isola. Vorrei spiegarmelo il motivo, ma non ci riesco, almeno non ci riesco in maniera convincente e definitiva.

Provo a buttare lì qualche argomento, ma si tratta solo di esempi.

In Italia vivono moltissimi cubani, quasi nessuno fa politica, pochi conoscono l’esistenza dei blogger indipendenti, la maggioranza dei cubani esuli pensa solo a mandare soldi a casa, cercando di avere meno problemi possibili con il regime. Parola d’ordine: “Non mi occupo di politica!”. Io, in compenso, per scrivere della loro terra, ho perso la possibilità di rientrare a Cuba.

I dissidenti cubani spesso non sono migliori di chi li governa (male), molto spesso raccontano balle degne di Fidel Castro (che almeno le sapeva dire), in tanti casi inventano di sana pianta, diffondono cattiva informazione, rendono incredibili persino le cose credibili. Per esempio, la stampa alternativa racconta la storia di un’attrice cubana picchiata a sangue da agenti in borghese perché colpevole di simpatie anticastriste. Come si fa a prendere la notizia per oro colato, visti i precedenti? Chi mi assicura che la verità stia nei racconti dei dissidenti e non nella versione ufficiale di una donna malmenata per una lite dai vicini di casa? Mi pare che una volta l’abbia scritto Leonardo Padura Fuentes (voce autorevole della cultura cubana): «Servirebbe una vera stampa libera e indipendente perché sia i giornali di regime che i periodici alternativi non sono affidabili».

Aggiungiamo un’altra postilla.

Mi scrivono da una località italiana dove organizzano un festival di cinema che vorrebbero invitare Yoani Sánchez e proiettare Forbidden Voices, la blogger cubana dovrebbe parlare anche a nome della blogger cinese e di quella iraniana. Ora, a parte che io non sono l’agente di Yoani ma solo il traduttore, mi domando come potrebbe Yoani Sánchez parlare a nome di situazioni che non vive e che non conosce? Forbidden Voices è un buon film di cui per primo ho parlato in termini entusiastici, ma fin da subito ho sottolineato che tra un dissidente cubano e un cinese (o iraniano) corre una differenza abissale in termini di rischi e di sicurezza personale.

Concludiamo dicendo che ultimamente il blog di Yoani Sánchez non è che regali quelle perle di originalità, di realismo e di letteratura che in precedenza aveva elargito ai lettori. Crisi? Aggiungo: crisi sua o crisi mia? Non ho certezze, come vedete, ma solo tanti dubbi, che affiorano e che da un po’ di tempo a questa parte si sono fatti insistenti, inquietanti, opprimenti. E la cosa mi pesa, se non ne scrivo, con grande franchezza, come sono abituato a fare. Anche perché – a differenza di molti, schierati per interesse da una parte o dall’altra – non ho in ballo niente da tutelare, né il mio nome, né la mia credibilità, né un posto di potere, né una carriera costruita su menzogne e incantamenti.

In ogni caso, lontano da Cuba, ho riscoperto il cinema italiano del passato, le pellicole che ho sempre amato, mi sono dedicato a un’altra delle passioni della mia vita, la sola cosa che mi accomuna al grande Guillermo Cabrera Infante. E mi sono occupato della mia piccola Piombino, la mia città, riscoprendo la sua storia, le sue leggende, il suo passato. Sono andato alla ricerca del tempo perduto, consapevole che parte di questo tempo passa anche lungo le strade polverose di Cuba, nonostante tutto.

 

Gordiano Lupi

 

Viaggio al patrimonio sommerso

Traduzione dal Gramma di Aldo Abuaf da : https://ilvecchioeilmare.blogspot.it/

Per la sua posizione privilegiata, durante l’epoca coloniale Cuba divenne una rotta commerciale obbligata per l’intenso traffico navale per merci di ogni tipo fra l’America e l’Europa, in particolare il porto dell’Avana.

Questa propria condizione fece che le sue coste e acque antistanti fossero scenari di incontabili naufragi di diversi tipi di imbarcazioni come: navigli, fregate, brigantini, golette e altri mezzi navali di trasporto nel periodo tra i secoli XVI e XIX, i cui affondamenti furono causati molte volte dalla furia di madre natura, all’ignoranza delle caratteristiche del fondo marino da parte dei naviganti o alle guerre nelle quali si fronteggiavano le principali potenze dell’epoca, senza dimenticare quelli vincolati agli attacchi di piarti e corsari. Un articolo pubblicato tre anni orsono, in una rivista specializzata, dal riconosciuto archeologo e subacqueo professionista cubano, Alessandro López Pérez, e la altrettanto esperta ingegnera Mónica Pavía Pérez, rendeva conto di oltre duemila naufragi documentati sulle nostre coste, molte di loro di gran importanza storica e culturale. Oggi la cifra ascende a quasi tremila.

La creazione dell’Empresa Carisub S.A. nel 1980 gettò le basi per iniziare l’esplorazione e riscatto di varie imbarcazioni affondate nella piattaforma insulare della maggiore delle Antille, per cui venne richiesta l’organizzazione rigorosa dei fascicoli di ogni caso, lavoro che fu condotto dallo storico César García Pino e proseguita poi da César Alonso Sansón dell’Empresa Semar.

Scienza in primo piano

Più in la del suo rilevante lavoro di investigazione del passato coloniale, il Gabinetto di Archeologia dell’Ufficio dello Storico della Città dell’Avana lavora anche nella conoscenza e protezione del patrimonio sommerso nella rada capitalina, nella costa della stessa provincia e la costa nord di Mayabeque, compito assunto dalla Sezione di Archeologia Litorale Subacquea, costituita nel 2002 con questo fine.

Come ha riferito al Granma, Roger Arrazcaeta Delgado, direttore del gabinetto, la citata dipendenza conta con sette specialisti dedicati all’interessante tematica che ritrova e riporta alla luce i sisti archeologici che giacciono nel fondo del mare e risaltano per la preziosa informazione che offrono attorno al modo di vivere dell’epoca pre-hispanica e della colonia.

Ha indicato che attualmente sviluppano diversi progetti scientifici, dove emerge quello riferito al Recupero del Lungomare Tradizionale di fronte alle sfide del cambio climatico, iniziato nel 2011 dall’Ufficio dello Storico della Città dell’Avana, con la partecipazione di diversi enti nazionali e il finanziamento dell’agenzia svizzera Cosude. Ciò comprende l’identificazione, registrazione e diagnosi della ricchezza subacquea compresa nel tratto tra il Paseo del Prado alla calle Marina, fino alla profondità di 25 metri.

Luis Francés Santana, capo della Sezione di Archeologia Litorale e Subacquea, ha menzionato inoltre le prospezioni, portate a termine, sulla nave San Antonio affondata nella baia avanera nel 1909, lavoro durante il quale si poterno recuperare piastrelle di ceramica che stavano per essere sottratte illegalmente. Una volta desalinizzate, si utilizzano nei restauri di immobili famosi dell’Avana Vecchia.

Insolito saccheggio

Forse, uno dei lavori più notevoli del gabinetto di Archeologia in questa sfera, durante gli ultimi tre anni, è quello vincolato alla documentazione e studio della fregata spagnola “Navegador”, che in balìa di una forte tormenta invernale si incagliò in Boca Chipiona, vicino alla località di Santa Cruz del Norte, attuale provincia di Mayabeque, dove affondò il 4 febbraio del 1814.

Sommersa a una profondità tra i 6 e i 9 metri, la citata imbarcazione, era diretto all’Avana con un carico composto da molteplici pezzi di fine vasellame inglese (piatti, tazze da caffè e tè, caraffe, marmitte, coperchi di recipienti), oltre a bussole, accessori per lampade, bottoni metallici, rubinetti per botti di vino, fermagli di arredamento, pietre per mulini e molti altri oggetti.

Dopo aver ricevuto la segnalazione di un abitante del luogo sull’apparizione di alcune delle cose descritte, gli archeologi del Gabinetto verificarono l’informazione, trovarono resti dell’imbarcazione e con lo studio dell’informazione storica comprovarono che si trattava del “Navegador”.

“lo strano è che da diverso tempo il luogo era spogliato da subacquei , dai quali più di una volta abbiamo subito minacce per affrontare i loro ignobili propositi durante le spedizioni sul posto”, dichiarò l’archeologo Roger Arrazcaeta, responsabile di questo lavoro.

Fortunatamente, con l’appoggio della Polizia Tecnica di Investigazioni, specializza nel Patrimonio, il Consiglio Culturale, il Registro dei Beni Culturali, l’Impresa Semar, la direzione Municipale di Cultura e il Museo Municipale di Santa Cruz del Norte, tali fatti delittivi sono diminuiti significativamente e si poterono riscattare numerosi pezzi che erano in mano di persone irresponsabili.

Senza dubbio, al margine delle misure adottate, per poner fine al saccheggio, alla contaminazione provocata dal versamento di residui delle fabbriche vicine all’Empresa Cuba Ron (non ha compiuto da quasi un anno la promessa di risolvere questa situazione) è ad alto rischio la possibilità di conservare a livelli accettabili i resti strutturali della vetusta imbarcazione e gli oggetti di inestimabile valore che rimangono in fondo al mare, testimoni eccezionali della nostra eredità culturale.

Inoltre ciò rappresenta un pericolo per la salute degli specialisti del Gabinetto, che non cessano nel loro impegno di portare avanti quasta crociata per la salvaguardia del patrimonio subacqueo di Cuba.

 

Dove sono i contadini di Abela?

 

Yoani Sancez

La composizione è quasi circolare, compatta. Gli occhi seguono un percorso a spirale che comincia dalle scarpe di un uomo seduto in primo piano e termina con il gallo tenuto in braccio da un altro. Si notano pace, tracce di una buona conversazione e sullo sfondo un villaggio composto da casine di legno e foglie di palma. Sei contadini cubani sono stati rappresentati in questa pittura di Abela, tanto conosciuta quanto imitata. Hanno volti bruciati dal sole e lineamenti leggermente indigeni. Sono magnetici, irresistibili. Il nostro sguardo si spinge a osservare i dettagli dell’abbigliamento. “Vestiti di tutto punto”, copricapo impeccabile, maniche lunghe, forse con tessuti inamidati per l’occasione. 

Contagiata dalla familiarità con il dipinto, scendo nel campo, mi inoltro nei solchi dove tante volte sono andata a raccogliere tabacco, fagioli, aglio… Vado alla ricerca di quella unità primordiale del nostro essere cubani, rappresentata dall’uomo rurale. Ma, sotto il sole rovente di agosto, al posto di quei “contadini di Abela”, incontro gente vestita con abiti militari. Pantaloni verde oliva, camicie che da anni hanno perso le decorazioni militari, vecchi berretti di qualche battaglia mai combattuta. I contadini si coprono con divise delle Forze Armate o del Ministero degli Interni, per poter affrontare la durezza della campagna. Non hanno molte possibilità di scelta. 

Sul mercato informale è più facile comprare una giacca da ufficiale che una camicia per lavori agricoli. Costa meno un berretto da poliziotto che un copricapo fatto con fibre di palma. Le cinture di cuoio sono un ricordo del passato; adesso è più facile ed economico trovare quelle usate nell’esercito. Succede la stessa cosa con le calzature. Gli stivali di gomma scarseggiano, al loro posto uomini e donne che lavorano la terra portano scarpe progettate per la trincea e il combattimento. In un paese militarizzato fino ai più piccoli dettagli, le cose militari si impongono sulla tradizione. Il contadino di oggi - per il suo abbigliamento - sembra più un soldato che un agricoltore. 

Il centralismo statale ha finito per annientare la produzione autonoma di indumenti destinati ai lavori agricoli. Neppure le recenti agevolazioni in tema di lavoro privato hanno promosso questo settore. Non si tratta solo di un tema economico o di approvvigionamento, questa situazione colpisce anche le nostre idiosincrasie e i nostri costumi popolari. Una versione attuale del quadro di Abela, ci lascerebbe l’impressione di trovarci di fronte a un gruppo di militari in abiti sgualciti, che posano per il pittore in mezzo all’accampamento… mentre sta per suonare la tromba che dà inizio alla giornata. 

 

Traduzione di Gordiano Lupi  

 

Cubani cinici; cubani parassiti

Félix Luis Viera. 

30 Agosto 2013

  

Con la riforma migratoria castrista e i vantaggi concessi dal governo statunitense, molti cubani che vivono negli USA tornano al paese di origine solo per fare viaggi di piacere

 

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Non si deve criticare una persona espatriata perché torna a vedere la sua terra natale. Nel caso degli esiliati cubani, sappiamo che molti, dopo la loro uscita da Cuba, avvenuta 10, 20, persino 40 anni fa, giurarono di non tornare e hanno prestato fede a tale giuramento. Altri, qualche volta sono tornati; alcuni per rivedere i familiari più stretti, in certi casi molto anziani; altri, semplicemente, per constatare lo stato di rovina in cui versa il quartiere dove nacquero e per visitare i parchi e i cimiteri dove si trovano i loro ricordi e i loro cari. Conosco casi di persone che "avevano bisogno" di contemplare un'altra volta quelle montagne e quel mare che li hanno visti crescere. Tutto questo, compreso molti altri esempi simili che non ho citato, è umano.

Ma ultimamente, grazie alle nuove leggi migratorie approvate dal castrismo e ai vantaggi concessi dal governo statunitense, molti nostri compaesani che, paragonati a coloro che sono rimasti sull'Isola, vivono vantaggiosamente nel paese del Nord, viaggiano verso la loro terra d'origine solo per piacere, per “fare turismo”, per “fare la bella vita” e mostrare i loro dollari, i loro vestiti, le loro possibilità. Questi cubani esiliati, soprattutto a Miami, vanno a Cuba con il solo scopo di “godersi la vita”, frequentando locali notturni, spiagge e centri di divertimento... sfruttando tutto quel che trovano di positivo in simili luoghi. Tutto è piuttosto economico per le loro possibilità e in ogni caso alla portata dei loro redditi. Malgrado ciò, quando chiesero asilo politico negli Stati Uniti dichiararono che l'Isola era un luogo invivibile, che erano perseguitati, o qualcosa di simile. In pratica, questi cubani emigrati sfruttano il lato positivo degli Stati Uniti e – per alcuni giorni – il meglio della loro terra natale, nonostante la situazione di degrado in cui versa.

Alcuni dei cubani esiliati che si comportano così fanno parte di quel contingente di compatrioti che – nei luoghi dove vivono – si fanno passare per i più coraggiosi, i più scherzosi, i portabandiera di un popolo che ama il divertimento, i migliori amanti, i migliori ballerini, i più intelligenti e ingegnosi del pianeta. Di fatto, sono soltanto dei caproni.

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A Cuba, invece, abbiamo un nuovo modello di compatriota. Per oltre mezzo secolo la maggior parte dei cubani, dagli alti dirigenti fino ai venditori al dettaglio e agli amministratori di farmacie, si sono dedicati a investire molte ore lavorative per portare a termine ruberie e piccole truffe. Non deve sembrare strano che dopo la crisi totale che investe il paese dal 1991 e la depenalizzazione del dollaro, decisa alcuni anni dopo, spuntasse un nuovo tipo di cubano: quello che non “muove un dito”, ma attende solo la manna dal Nord, dove vivono i familiari e dei buoni amici che lo mantengono.

Queste persone di solito sono giovani o adulti in età lavorativa. Il loro ragionamento è semplice: perché lavorare, anche nelle attività private recentemente liberalizzate dal governo, se con il denaro inviato dai familiari che vivono all'estero campano senza problemi? A Cuba esiste da oltre 40 anni la Legge Contro il Vagabondaggio, applicata con severità e persino con crudeltà – l'ho visto con i miei occhi – negli anni Settanta. Questa legge non è stata derogata, ma in realtà non viene più applicata.

– Mi hai portato qualche extra? – È stato il saluto di un cugino a un maestro che si è recato recentemente a Cuba per far visita ai familiari. Ha detto “extra” perché questo zio manda regolarmente al cugino e agli altri parenti i dollari che servono per sopravvivere.

– Zio Alberto non manda niente da quasi tre mesi.

Zio Alberto è un altro zio che, secondo quel che mi ha raccontato lo zio che è stato da poco in visita a Cuba e che è amico mio, non invia rimesse con regolarità.

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Che cosa fare in casi simili? Credo che non possiamo fare niente. Soltanto analizzare il risultato.

 

Félix Luis Viera

(da Cubaencuentro, 27/08/2013)

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 Ottantasette e non li dimostra

Alejandro Torreguitart Ruiz

18 Agosto 2013

 

Il vecchio compie ottantasette anni. Sì, lo so, sono fuori tempo massimo, ne hanno già parlato tutti. Il Granma c’ha fatto un’edizione speciale, bontà sua, i giornali di mezzo mondo si sono affannati a fare riassunti, facendo finta di credere che il vecchio avesse detto qualcosa di nuovo. Un mio amico mezzo scemo, uno che non ci sta con la testa e scrive un blog, è ripartito con la vecchia storia Fidel è morto, non ha festeggiato il compleanno in pubblico, non s’è fatto vedere, e via col mambo delle puttanate in rete, che poi la gente ci crede e il governo smentisce. Da dieci anni a questa parte credo che il vecchio l’abbiano fatto morire almeno una dozzina di volte, ma è sempre resuscitato, più arzillo di prima.

Ottantasette e non li dimostra, ha detto mio padre. Sarà merito di tutta la moringa che mangia, credo. Cazzo, non li dimostra, papà, sai quante volte vorrei essere morto per davvero prima di ridurmi in quelle condizioni? Il vecchio resta vivo, non si sa grazie a cosa, un po’ come questa rivoluzione che perde pezzi, come una macchina scassata che vaga per le strade polverose, un almendron. Il vecchio non avrebbe mai immaginato che la sua vita si sarebbe prolungata per altri sette anni. Nemmeno noi, a dire il vero, ma consolati, tanto fanno come se tu non ci fossi: lavoro privato, licenziamenti, dissidenti che espatriano, qui è tutto un casino, dammi retta, non credo che ti farebbe piacere capire come un tempo. Mentre tu ricordi l’Unione Sovietica, la crisi dei missili e i compagni coreani, un bel po’ di dirigenti del partito hanno messo da parte capitali immensi e vivono da nababbi. Non solo, si prendono in casa le servette orientali per fare i lavori domestici, proprio come una volta, proprio come quando c’era Batista e anche prima, al tempo dei proprietari terrieri. Barba mio, se ci fossi ancora tu nei tuoi cenci, mi sa che t’incazzeresti parecchio. Altro che moringa!

Barba mio, ci mancano i tuoi discorsi fiume, ci facevi due palle come cocomeri, ma alla fine uscivi dalla piazza con la voglia di andare a zappare campi di patate per la rivoluzione. Ora l’entusiasmo è poco, da una parte un’invasata che pensa ai diritti dei gay, dall’altra uno Speedy Gonzales che teme persino la sua ombra, lui si regge sul Venezuela del camionista presidente, e noi, se non riusciamo a scappare, ci arrangiamo come possiamo. La politica? No, la politica non ci sta nella zuccheriera, come dice Varela. E non è roba per noi. Chi fa politica ha i suoi motivi, dove c’è un cubano c’è un partito, ormai lo sappiamo, l’unità resta un sogno, l’ultima volta che abbiamo fatto qualcosa di buono è stato nel 1959, ma guarda un po’ com’è finita. Il problema delle rivoluzioni è sempre lo stesso. A un certo punto si alza uno, recinta il campo, e dice: È mia. Un po’ come la proprietà privata. Pure la Rivoluzione – a volte – è un furto. Ai danni del popolo. Tu guarda l’Egitto.

E allora basta parlare di politica, tanto a me non mi paga nessuno, posso dire quel che voglio, resta soltanto uno sfogo, un racconto, uno sberleffo al potere. Non scrivo su El Mundo, non scrivo su El País, non ho contratti milionari, ogni tanto un camajan d’editore mi manda cento euro, a volte pure di più, e vado avanti. Bastano, per non affogare la disperazione nel rum di strada, quello fatto con alcol di legno che fa più vittime del comunismo. Bastano per andare a caccia di mulatte nella notte, quando il Malecón illuminato dalla luna e percosso dal vento del Messico ti fa venire voglia di tenerezza e parole d’amore. Bastano per non pensare…

Alejandro Torreguitart Ruiz

L’Avana, 14 agosto 2013

Traduzione di Gordiano Lupi

 

Mamma, voglio fare il dissidente

 

      Alejandro Torreguitart Ruiz.

 

  

Mamma è preoccupata. Dice che non scrivo più. Questa è bella, proprio lei che stava sempre a dire Alejandro non fai un cazzo dalla mattina alla sera, perché non ti trovi un lavoro serio invece di scrivere, ora mi rimprovera perché non scrivo.

– Mamma, ti senti bene?, – le chiedo.

– Mai stata meglio, – risponde. E intanto separa i fagioli buoni dai cattivi. Solito gesto che scandisce il ritmo del quotidiano in questo paese dove non succede mai niente e si va avanti così, tanto siamo cubani, s’inventa.

– Non scrivo a richiesta, mamma. Scrivo quel che vedo. Ho parlato di froci, puttane, gente che scappa, mogli che uccidono mariti. Ho messo in burletta Lovecraft e Dickens. Non ho più idee, mamma.

– Fattela venire, allora. Chiama il tuo amico camajan. Digli che ti pubblichi un libro, una raccolta di racconti, qualcosa. I soldi fanno comodo, Alejandro. Abbiamo la casa da restaurare…

Ora mi spiego la foga letteraria di mia madre. Non ha mai letto un libro in vita sua, al massimo Juventud Rebelde, le pagine dei fumetti, riviste tipo Palante e Bohemia, cose che non si trovano più. Figurati se legge quel che scrivo, e poi meglio così, ché con tutti i cazzi e i culi che ci metto dentro le prenderebbe male. Ma i soldi dei diritti le interessano, certo. Mai chiedersi da dove provengono. Basta che arrivino. E allora cara mamma, tu non lo sai, ma un modo ci sarebbe per fare un po’ di soldi senza fatica. Mi sa che non ti piace ma oggi come oggi rende bene fare il dissidente. Ricardo Alarcón deve essersi preso uno sturbo, ché da un anno a questa parte volano tutti in Europa e nordamerica, i cieli del mondo sono pieni zeppi di dissidenti cubani, le strade del nord brulicano di cubani coperti da enormi cappotti che parlano di politica, mangiano caldarroste e bevono vodka. E io che ho sempre avuto paura. Mi sa che sono proprio fesso. Pubblico libri in Italia, non mi faccio vedere, mia madre dice ti mettono in galera e buttano la chiave, mio padre aggiunge ragazzo fai attenzione. E io sto attento, tranquilli, ma qui non sta più attento nessuno, vanno in America i Porno Para Ricardo, persino Gorki, che a tempo perso manda affanculo Raúl Castro e dà del vecchio rimbambito a Fidel. Ma mica viaggiano e basta, mica affollano gli aeroporti per far dispetto al vecchio Alarcón, no, riscuotono pure un sacco di soldi, tra concerti, conferenze, lezioni universitarie e articoli sulla stampa di mezzo mondo. Scorreggia un dissidente? El País concede la prima pagina e una collaborazione da opinionista. Alejandro, fatti furbo, segui la tua strada. Altro che quattro spiccioli da un editore italiano per scrivere storie di froci e puttane, ché gli italiani quello leggono, pare. Dicono che la Sezione d’Interessi paghi bene, basta farsi coraggio, osare un pochino, aprire un blog, poi ci si mette in lista d’attesa. Magari trovo un agente letterario europeo, firmo qualche contratto, apro un conto in Svizzera o in Spagna, un posto vale l’altro, deposito i soldi e ogni tanto attingo per le piccole spese.

Non farò mai niente di tutto questo, lo so, ma è bello sognare…

– Mamma, ora come ora mi vengono solo poesie, – dico.

– Figlio mio, con la poesia non ha mai mangiato nessuno.

Ecco, mia madre non capisce un cazzo di letteratura, tra l’Indio Naborí e Lezama Lima preferisce il primo, pensa che Proust sia una malattia infettiva, una cosa tipo la proustite, nonostante tutto ha capito che con la poesia non si mangia. Mamma, si mangerebbe girando per il mondo a fare il santone, rischi zero, mica siamo il Kazakistan, non ci tocca nessuno. Mamma, voglio fare il dissidente, è il mestiere del futuro. Avrei tanta voglia di dirglielo, ma meglio di no, non reggerebbe il colpo. E poi mica ce la farei. Meglio inventarsi un’altra storia di puttane, guarda, come ha detto l’editore l’altro giorno, magari una trilogia, ché ora vanno di moda le trilogie. Quasi quasi scrivo La puttana dissidente, mi sa che diventa un best-seller, anche senza sfumature di grigio, ché qui le sfumature ci sono, e neanche poche, ma è meglio non dire di cosa...

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

Traduzione di Gordiano Lupi

 

Il catechismo secondo Mujica

 

Il linguaggio diplomatico, anche se distante e calcolato, lascia intravedere tutti i cambiamenti di un’epoca. Ricordo che per anni è stato possibile prevedere ogni parola che i presidenti stranieri avrebbero detto una volta giunti a Cuba. Nel copione dei loro discorsi non poteva mancare il riferimento alla “inossidabile amicizia tra i nostri popoli…”. Inoltre veniva sempre messa in evidenza la piena sintonia tra i progetti politici del capo di Stato ospite e la sua controparte cubana. Il percorso era uno, i compagni di rotta non potevano allontanarsi di un millimetro, come appariva chiaro dalle loro dichiarazioni. Erano tempi in cui dovevamo apparire come un blocco compatto, privo di sfumature e differenze.

Tuttavia, da alcuni anni, le dichiarazioni di chi giunge sull’Isola su invito governativo non sono più le stesse. Si sentono pronunciare frasi come: “alcune cose ci dividono, ma preferiamo cercare ciò che ci unisce”. Le nuove dichiarazioni sostengono che “rappresentiamo una molteplicità” e che “lavoriamo a un progetto unitario, mantenendo le rispettive differenze”. Evidentemente, le relazioni bilaterali del ventunesimo secolo non possono più essere caratterizzate da un discorso unanime e monocromatico. È ormai di moda esibire la diversità, anche se nella pratica viene messa in atto una strategia di esclusione e di negazione delle differenze.

José Mujica ha compiuto un altro passo in avanti rispetto ai discorsi dei presidenti ricevuti nel Palazzo della Rivoluzione. Ha sottolineato che “prima dovevamo recitare lo stesso catechismo per essere uniti, mentre adesso, nonostante le differenze, riusciamo ugualmente a essere compatti”. Noi che ascoltavamo increduli il programma diffuso dalla televisione nazionale ci siamo chiesti immediatamente se la dottrina alla quale si riferiva il capo di Stato uruguayano fosse il marxismo o il comunismo. Secondo quel che adesso viene affermato, due presidenti possono stringersi la mano, cooperare, farsi fotografare insieme sorridenti, anche se hanno ideologie diverse o contrastanti. Una lezione di maturità, senza dubbio. Il problema - il grave problema - è che certe parole vengono pronunciate e pubblicate in una nazione dove i cittadini non possono avere altro “catechismo” se non quello imposto dal partito al potere. Un paese dove in maniera sistematica viene divisa la popolazione tra “rivoluzionari” e “traditori della patria”, sulla base di considerazioni puramente ideologiche. Un’Isola dove i governanti fomentano l’odio politico tra la gente senza prendersi la responsabilità per quei semi d’intolleranza che seminano, irrigano e concimano coscientemente.

La diplomazia cubana è così. Accetta di ascoltare da un ospite straniero frasi che non farebbe mai pronunciare a una persona nata in questa terra.

Yoani Sanchez

(da Generacion Y)

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

Leadership

di Yoani Sanchez

da www.lastampa.it/generaciony

Noel rimette in sesto le pale di un ventilatore. Ha il suo piccolo laboratorio in un porticato del quartiere Cerro. Ripara ferri da stiro elettrici, frullatori, rimette a nuovo i motori obsoleti e quando capita anche le pentole per cuocere il riso e gli scaldabagni. Non è un lavoro che fa guadagnare molto. Parte dei clienti gli chiedono servizi a credito e dopo non si fanno più vedere; altri vogliono pagare a rate ma non finiscono di pagare. Tuttavia, oltre a un minimo sostentamento, quel lavoro procura a Noel un’esperienza unica. Ogni giorno, si trova a contatto con la gente, con molta gente. Parla, discute, gli raccontano cosa hanno trasmesso i programmi ripetuti dall’antenna parabolica illegale, soprattutto ascolta, apre gli orecchi e sente quel che gli dicono. Per questo motivo nella sua piccola stanza piena di grasso e cavi si è trasformato in un interprete di opinioni, in un leader nato, apprezzato per le sue capacità e rispettato per le sue parole.

Cuba è piena di gente come Noel, anonima, semplice, che conosce la realtà a un livello che nessun ministro potrebbe eguagliare, neppure ricorrendo ai consulenti più competenti. Persone che non si vedono sugli schermi televisivi e non sono un numero nelle parate, ma possiedono il carisma naturale e il giusto collegamento con la popolazione per guidare i cambiamenti. Per il momento conosciamo solo le persone con le quali cui abbiamo interagito e che abbiamo incontrato personalmente, ma sono molte di più. Non redigeranno mai un piattaforma politica, ma conoscono a menadito i problemi più urgenti che riguardano la nostra società. Non firmeranno una richiesta per esigere miglioramenti sul tema dei diritti umani, non apriranno un blog, non praticheranno il giornalismo indipendente o la giurisprudenza autonoma. La parola “attivista” li spaventa e chiamarli oppositori metterebbe fine alla vita che conducono adesso. Sono - senza bisogno di dirlo - tutto questo e molto di più. Sono cittadini coscienziosi, che hanno a cuore la situazione del loro paese.

Il futuro della nostra nazione sarà condizionato da cubani come questi. Vedremo arrivare alla sfera pubblica tante persone che oggi si trovano tra un ufficio e un laboratorio, davanti a un’aula o intenti a riempire moduli in qualche amministrazione statale. Quando capiranno che sarà possibile esprimere pubblicamente le loro opinioni, verranno fuori da ogni parte. Quando decideranno di fare quel passo sarà importante che non trovino diffidenza né volontà polemica, ma soltanto il nostro abbraccio. Perché mentre Noel ripara una pala rotta di un ventilatore, io sento che un giorno avrà anche la capacità di unire i pezzi divisi e in frantumi della nostra realtà. Metterà la stessa attenzione con cui attacca il materiale plastico e prepara il motore nella leadership sociale che domani potrà esibire. 

Traduzione di Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

 

L'economia cubana, si cambia?

 

Il regime comunista e socialista cubano ha ceduto imprese statali per iniziative private annunciando la creazione delle prime cooperative non agricole. Non succedeva dal 1959, anno di inizio della rivoluzione castrista.

A scriverlo è il quotidiano del Partito Comunista, Granma: "A partire da oggi 124 cooperative hanno cominciato a funzionare in via sperimentale in diversi settori dell'economia. In particolare: edilizia , trasporto, raccolta rifiuti e mercati di produzione varia ",

Le cooperative saranno indipendenti, potranno fissare i prezzi nei casi in cui non sono fissati dallo Stato e riceveranno un trattamento fiscale migliore rispetto alle imprese individuali grazie ad un decreto legge del mese di dicembre dell'anno scorso. La legge inoltre consentirà alle imprese l'assunzione di un numero illimitato di membri ed anche l'impiego trimestrale del personale a seconda dell'esigenza dell'impresa. Il governo ha anche dichiarato che, a partire dal 2014, ci sarà un grosso incremento del settore cooperativo come business alternativo alle piccole e medie imprese statali.

È incredibile ma il presidente Raul Castro, sembrerebbe perseguire l'obiettivo che lo Stato diventi più efficiente ed esca dalle attività economiche più importanti quali l'agricoltura e servizi al dettaglio. Cina e Vietnam hanno adottato misure analoghe negli ultimi decenni quando hanno cominciato a spostarsi verso un "socialismo di mercato". Oggi, quasi il 95% del Pil cubano è prodotto dallo Stato.

Il governo di Castro invece, con una svolta senza precedenti, vorrebbe portare entro 4-5 anni la produzione del "non Stato" tra il 40% ed il 45%. Sempre il governo ha inoltre già provveduto a deregolamentare le piccole imprese private nella vendita al dettaglio, affittando ai dipendenti piccoli negozi gestiti dallo Stato, taxi e terreni statali incolti per aspiranti piccoli agricoltori in cerca di lavoro.

I piani governativi per il prossimo anno prevedono la riduzione della forza lavoro dello Stato di almeno il 20%, circa un milione di lavoratori, l'eliminazione dei sussidi a favore di programmi di welfare e la concessione alle imprese statali di maggiore autonomia. Gli economisti locali hanno detto che un importante cambiamento per il settore "non-stato" significherà lo spostamento di grandi blocchi di attività economica ora gestita esclusivamente dal governo.Questo significa che anche aziende di media grandezza, diventeranno cooperative o imprese di proprietà individuale.

Questo cambiamento per Cuba può far gridare al miracolo? Raùl era un militante comunista e sovietico già all'epoca in cui Fidel aveva propensione fascista e militava nel partito ortodosso di Eduardo Chibas. Fu proprio Raùl a far cambiare direzione alla rivoluzione convincendo Fidel ad una apertura verso Mosca, quando invece era iniziata in maniera completamente diversa.

E fu proprio lui, Raùl, a sorreggere il regime cubano dietro al più affascinante e barbuto fratello. Di 5 anni più giovane di Fidel, Raùl Castro ha sempre comandato dalle "seconde file", lasciando altri in pasto all'opinione pubblica.

Raùl è il vero leader della nomenklatura militare a Cuba, che è quella che gestisce l'economia chiusa (turismo-zucchero) e che, come è anche facile immaginare, ne detiene i guadagni maggiori.

Come mai allora questa timida apertura verso una economia meno statalista? L'approccio economico tecnocratico volto a spostare l'economia cubana verso un modello cinese o vietnamita sembra più legato al momento di crisi globale, piuttosto che una reale apertura al mercato libero, anche se questo cambio di linea è certamente un passo importante. Secondo il governo cubano, più di 430.000 persone lavorano nel settore non statale, che è costituito da imprenditori privati ed i loro dipendenti.

 

Cuba, l’escozul e l’Occidente

LUNEDÌ 08 LUGLIO 2013 

Da : https://www.altrenotizie.org

di Silvia Mari

Escozul è il nome di uno scorpione, tipico di Cuba, il cui veleno blu è utilizzato a scopo terapeutico, in particolar modo per le sue proprietà analgesiche, antinfiammatorie e, questa l’ultima frontiera della sperimentazione in atto, anche antitumorali. A stimolazione lo scorpione rilascia questa sostanza, non subisce alcuna tortura da cavia e non viene ucciso, per buona pace degli ambientalisti.

La letteratura ufficiale non riporta ancora evidenze cliniche ma empiriche, ma i viaggi della speranza dall’Europa, in modo massiccio dall’Italia, e da altri parti del mondo verso la piccola isola di Cuba alla ricerca di questo farmaco per casi di pazienti oncologici terminali come medicinale palliativo o per terapie alternative, quando la chemioterapia non funziona o non viene tollerata, continuano.

Esistono di questo principio attivo naturale due varietà, una delle quali - quella omeopatica - viene commercializzata da un’azienda italiana con sede a Tirana che produce il cosiddetto Vidatox, CH30 a partire dal 2011. Questa operazione di commercializzazione internazionale nasce proprio dalla difficoltà con cui si è imbattuto il governo cubano nel fronteggiare le numerosissime richieste provenienti dall’Italia. Tirana è vicina alle nostre coste e nel frattempo si spera di arrivare ad un accordo di distribuzione con l’AIFA.

Il farmaco puro, tratto dal veleno dello scorpione - nome scientifico Rhopalurus junceus, prodotto dal centro governativo Labiofam, nell’isola di Cuba è in sperimentazione anche nel trattamento dei tumori cosiddetti “solidi”, vale - a dire non leucemie o linfomi. La dottoressa Mariella Guevara, responsabile del protocollo in atto, ha spiegato in appuntamenti internazionali sia che la raccolta dati e casi è ancora all’inizio sull’efficacia antitumorale, sia - questo l’aspetto più importante - che non va considerata come una strada alternativa alle terapie tradizionali, quale la chemioterapia. Si tratta di una chiarificazione importante specie per quanti hanno tentato di alzare una condanna pregiudiziale contro la “scoperta” cubana spacciandola per una sorta di stregoneria in antitesi alla medicina tradizionale.

La reazione della medicina occidentale di fronte a questa come a tante altre strade alternative ai protocolli consolidati è di sospetto e più probabilmente di scarsa conoscenza. E’ soprattutto questo clima di diffidenza che i medici come la dottoressa Guevara vogliono superare, testimoniando numeri alla mano il lavoro che questo paese porta avanti ogni giorno nonostante cinquanta lunghissimi anni di embargo che impediscono ancora oggi che entri negli ospedali cubani anche solo un’aspirina.

Nella storia di Cuba, isola della salute, la medicina è forse la vera e unica religione del paese. Non soltanto nella garanzia di un diritto di cura accessibile per tutti, ma nell’assoluta considerazione e rigore e protezione con cui i medici sono trattati dal governo.

La formazione degli operatori sanitari e il rigore del loro operato è considerata un priorità assoluta da parte del governo del Paese. Nel centro Internacional de Salud La Pradera il protocollo in corso di sperimentazione per i pazienti oncologici prevede, tra i farmaci utilizzati, il famoso veleno naturale dello scorpione, custodito gelosamente dall’attenzione morbosa delle multinazionali occidentali.

Nel quadro di isolamento e di ostracismo internazionale che patisce l’isola ci si aspetterebbe di leggere di continue epidemie e tassi di mortalità simil Africa, se non peggio. Eppure cosi non è mai stato, anzi. Ad Haiti sono stati i medici cubani ad intervenire per arginare il disastro dell’epidemia. La competenza del personale sanitario è nota e vale la pena ricordare che i medici cubani vengono inviati a prestare opera nei Paesi afflitti da malattie e povertà. Questa eccellenza insieme alla garanzia della sanità per tutti è un miracolo autentico che l’Occidente tanto patisce quanto non capisce.

In virtù di questa tradizione così sentita e seria sono per prime le Istituzioni sanitarie e i medici di Cuba a non proporre l’escozul naturale come farmaco in grado di guarire il tumore; sia perché la sperimentazione è ancora in atto sia perché le proprietà del farmaco, che pure hanno avuto finora riscontri importanti in merito alla regressione delle neoplasie, hanno un largo spettro di applicazioni a fronte di una tossicità ridicola se non nulla se paragonata alle nostre terapie, dalla chemio alla radio che anzi se combinate all’uso di questo farmaco riescono ad essere meglio tollerate dai pazienti.

Sarebbe bene domandarsi perché non crei analogo scompiglio sapere che di un vaccino fondamentale come quello contro l’Hpv, nella versione tetravalente della Sanofi Pasteur o in quella bivalente Cervarix prodotta da GlaxosmithKline, ancora non sia dato stabilire quanto protegga e per quanto tempo una donna che lo faccia dopo aver già iniziato una vita sessuale, nonostante sia raccomandato fortemente dai ginecologi anche a questa categoria entro una certa soglia di età.

Eppure, al netto di questa incognita, le donne si vaccinano, pagando di tasca propria il costo della medicina,  (ancora poche a dire il vero e purtroppo) e continuano a sottoporsi allo screening ginecologico annuale. Stupisce che analogo atteggiamento prudenziale, ma non censorio non si possa adottare per un farmaco a zero effetti collaterali su cui, anche fuori dai confini cubani, non c’è business se paragonato al mercato dei farmaci occidentali che ora ha messo a pagamento, di tasca propria da parte degli ospedali, alcuni chemioterapici di nuovissima generazione trattati come farmaci da banco.

In Italia il dibattito sull’escozul è iniziato con maggior clamore dopo un servizio giornalistico delle Iene, andato in onda nel 2010 e nel 2012 è iniziata un’indagine conoscitiva sulla variante omeopatica Escozul da parte della Commissione sanità del Senato. Istituto Superiore di Sanità e Società di Farmacologia sono al lavoro per raccogliere dati scientifici, ma non esistono ancora pubblicazioni incontrovertibili in tal senso.

Non si tratta di una smentita, ma dei necessari numeri che la casistica medica richiede per avvalorare una scoperta che al momento ha solo delle evidenze empiriche ogni giorno maggiori. Sarebbe quindi auspicabile che l'Italia si aggiornasse sugli studi cubani sul medicinale, che negli ultimi anni hanno fatto passi avanti considerevoli.

Quel che manca da parte della medicina tradizionale e dell’Occidente è un atteggiamento di apertura a questa sfida terapeutica che non porta l’ombra di alcun danno per chi volesse avvalersene. Sono i pazienti e i loro familiari ad essersi armati per una battaglia senza frontiera per la libertà di cura, forse spesso anche con una dose ingenua di speranza sulla guarigione dal cancro.

Una speranza che non è poi tanto diversa da quella di chi si accanisce fino all’ultimo ciclo di chemioterapia su corpi debilitati e spenti da cure molto tossiche che serviranno, su casi avanzati e terminali, al massimo per qualche mese di sopravvivenza in più. Eppure nessuno rifiuta tentativi estremi, magari spesso anche sbagliando nel non dire con esattezza la prognosi di una malattia, specialmente in Italia.

I due mondi, forse questo la scuola di Cuba vuole suggerire al mondo dei big del farmaco, hanno bisogno di incontrarsi riconoscendo all’isola che sfida i giganti il miracolo, anche politico e sociale, di una scoperta che copiata da qualche colosso farmaceutico avrebbe già, fuori da quell’isola, il nome di un brevetto. 

 

 

Una rivoluzione non può durare 50 anni

All'incontro streaming #askyoani
Da: https://www.tellusfolio.it/

12 Luglio 2013

   Parla con calma, chiara, senza generare equivoci su quanto dice, bella, vivace nello sguardo, piena di sogni che è certa siano forieri di prossimi cambiamenti.

   «Non è una crisi» dice, ed insiste più volte su questo concetto, «è l’inizio di una rinascenza». Parafraso il resto. “È dalla sofferenza che nasce sempre qualcosa di buono. Così come prima del parto il dolore è forte, sembra un dolore finale e cocente e pieno di incertezze… poi il figlio nasce e vivrà dei sogni che avremo saputo trasferire in lui”.

   Yoani è speranza, ottimismo, determinazione a non dover e volere essere conforme, certa di una strada di libertà che è fede che non incespica mai, quella che passa e che si respira a pieni polmoni. Significativo l’esempio del recinto di pecore… non puoi imprigionarle, qualcuna vorrà uscire e andarsene e non si dovrà fermarla… Credo non sia privo di riferimento preciso questo netto rifiuto all’inscatolamento, alla massificazione che veramente poco conosce la parola  “libertà”.

   Ha ricordato tutte le persone che le sono state d’aiuto, vicine nel cuore, nella solidarietà, nella lotta senza armi che ha visto la sua parola colpire più di un sasso. “Mi ha salvato l’elettronica, il mio blog, aver potuto parlare al mondo anche se siamo controllati e non abbiamo internet nelle nostre case”.

   Ha parlato dei grandi, di tutti i grandi, Mandela, Gandhi ma ha dato particolare rilievo a chi non assurgerà mai agli onori della cronaca. Ha parlato delle donne di Cuba, del loro coraggio di vivere e lottare, di gruppi di dissidenti che ogni volta che si riuniscono, rischiano l’arresto.

   Era la Yoani che volevo vedere, che avevo letto dalle traduzioni e libri di Lupi… sono stata felice, felice e grata.

 

Patrizia Garofalo

 

L'aeroporto José Martí si ristruttura

In diretta dall'avana da https://ilvecchioeilmare.blogspot.it/

Da domani, 8 luglio, iniziano i lavori di ristrutturazione al terminal 3, (il principale) dell'aeroporto di Rancho Boyeros. I lavori sono previsti per una durata di sei mesi ed hanno lo scopo di aumentare la capacità di ricezione del numero di passeggeri in arrivo e in partenza, visto che il flusso è notevolmente aumentato dal momento della sua costruzione. Durante il periodo di intervento, il terminal continuerà a funzionare, ma l'accesso sarà consentito ai soli passeggeri e non agli accompagnatori che dovranno rimanere all'esterno e usufruire dei servizi di caffetteria nella galleria adiacente al terminal operativo.

 

Incubo a Cuba

Giovane svizzera investe poliziotto a Cuba. Inizia il suo incubo

 

              Il presente post è purtroppo un'eventualità esistente nella legislazione cubana. Ogni persona colpevole e/o innocente che si trovasse di fronte ad un simile accaduto di gravità penale è obbligato a rimanere nell'isola a disposizione delle autorità per eventuale processo.
             I tempi cubani sono i medesimi per la giustizia, quindi si può incorrere in permanenza forzata anche per lungo periodo.
NIKI

 Zurighese bloccata da 128 giorni sull'isola: "Sono disperata, voglio tornare a casa"

 

ZURIGO- Vacanza non vuol dire per forza divertimento e relax. Almeno non per Sabrina (nome fittizio) che, a Cuba, ha visto la sua permanenza trasformarsi in un incubo. Questa giovane zurighese di 27 anni, infatti, è rimasta bloccata sull'isola per 128 giorni.

I fatti - Il 2 febbraio scorso la ragazza ha noleggiato, assieme ai suoi amici, un'auto per un giro per il Paese di tre settimane. Dopo soli cinque giorni di viaggio, però, Sabrina ha involontariamente fatto cadere un agente di polizia che stava guidando uno scooter. "Tutto è successo così in fretta. Non l'ho visto arrivare. Per fortuna non si è fatto male ", ha spiegato la ragazza sulle pagine del "Blick".

Dopo un controllo dei livelli dell'alcool nel sangue e un breve passaggio al primo posto di polizia, il gruppetto di ragazze ha potuto riprendere il loro viaggio. "Sono stata io a causare l'incidente. Questo è quello che ho detto agli agenti che hanno stilato il rapporto dell'incidente. Ho detto loro che mi dispiaceva", ha aggiunto Sabrina. Ma le scuse, evidentemente, non sono bastate. Finita la vacanza, giunte all'aeroporto de l'Avana, il 28 febbraio, pronte per tornare in Svizzera, le ragazze sono state fermate. "Un impiegato mi ha detto di aspettare", spiega la 27enne.

Poco dopo Sabrina scopre che l'agente investito aveva subito delle lesioni alla spina dorsale e aveva sporto denuncia contro di lei: "Ho cercato di pagargli 2.000 franchi a titolo di risarcimento, ma ha rifiutato!"

Da allora, la giovane di Dielsdorf (ZH) aspetta con ansia il suo processo: "Sono disperata e voglio tornare a casa. Presto finirò i soldi. La mia famiglia mi sostiene, ma comincia a diventare dura anche per loro".

 

 

ALLA RICERCA DELLA PILLOLA PERDUTA

 

 YOANI SANCHEZ,

Il pezzo di carta era stato lasciato sotto la porta, ma l’ha trovato solo l’altro giorno. La lista era scritta con uno stile rozzo, un’ortografia che scambiava “r” per “l” e alcune “b” per “v”. Ma è riuscito a comprendere il contenuto. Dieci pastiglie didiazepam costavano 10 pesos e lui doveva prenderne una al giorno, almeno per il prossimo mese. Non poteva fare a meno neppure del paracetamolo, quindi annotò un numero due accanto al nome del medicamento. Questa volta non gli serviva alcol, mentre aveva bisogno della Nistatina in crema. Suo figlio, inquieto per natura, necessitava di ansiolitici, quindi annotò un quantitativo sufficiente per diverse settimane. Era un commerciante fidato, non l’aveva mai truffato, tutte le medicine erano di buona qualità, alcune d’importazione. In alcuni casi aveva comprato da lui confezioni sigillate che recavano la dicitura “proibita la vendita, solo distribuzione gratuita”.

Il commercio di medicinali e altro materiale ospedaliero è in continua crescita. Uno stetoscopio sul mercato illegale costa il salario di due giornate lavorative; per comprare uno spray di Salbutamol per asmatici serve il guadagno di un intero giorno di lavoro. Le farmacie statali sono carenti di prodotti, ma i pazienti e i loro familiari non restano con le braccia incrociate. Un rotolo di cerotto costa circa 10 pesos in moneta nazionale, lo stesso prezzo di un termometro di vetro. Si deve scegliere tra infrangere la legge o continuare a misurare la febbre con la mano sulla fronte. Il pericolo, tuttavia, non consiste solo nella violazione di regole stabilite. In realtà molti clienti si medicano da soli o consumano pillole che nessun dottore ha prescritto. Il venditore clandestino non pretende che venga esibita una ricetta e non è interessato a sapere come il cliente userà pastiglie o sciroppi.

Nonostante le numerose operazioni di polizia contro il contrabbando di medicinali, il fenomeno sembra aumentare invece che ridursi. Nella zona avanera di Puentes Grandes una vecchia cartiera trasformata in deposito di farmaci, è l’emblema delle strategie e delle sconfitte governative sulla prevenzione del commercio illecito. La polizia è incapace di risolvere la situazione, perché la sottrazione di medicinali viene compiuta da magazzinieri, tecnici di farmacia, infermieri, dottori e persino direttori di ospedali. La domanda maggiore riguarda analgesici, antinfiammatori, antidepressivi, siringhe, cotone e creme contro i dolori. Il mercato illegale dei farmaci comporta anche adulterazione e contraffazione. Alcune pillole bianche, pagate trenta volte il loro valore ufficiale, possono risolvere un problema ma anche provocarne altri ben più gravi.

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 IL MISTERO DI MANGIARE A CUBA

 WENDY GUERRA

Mi preoccupa molto come e con quali mezzi i cubani ‘rimedino’ ogni giorno alla questione del cibo. Non è un segreto per nessuno che quello che la tessera di razionamento fornisce non è sufficiente a sfamarci, a darci nutrimento, a far sì che la nostra dieta sia bilanciata. Si sa, sono davvero pochi i prodotti che vengono distribuiti attraverso questo canale. Con gli stipendi di base è molto difficile comprare pesos convertibili (CUC), e senza questa moneta non è possibile accedere ai supermercati per acquistare gli alimenti necessari al fabbisogno giornaliero. Come si fa allora?

I mercatini rionali offrono diverse varietà di frutta e verdura e carne di maiale o montone. Ma tutti questi prodotti sono acquistabili con l’equivalente del peso cubano in CUC (24 pesos cubani per 1 CUC). Anche per il pane, il latte e il caffè è necessaria questa valuta.

 

Come si può fare per mangiare in modo equilibrato qui?

Entro al Supermercato Palco. È possibile che questi siano i prezzi giusti? Quattro cetrioli, di cui uno rotto: 1.70 CUC. Per fortuna nei mercatini ce ne sono di più economici.

Chi li stabilisce questi prezzi? Sarà vero che nei vari mercati o negozi dell’isola si applicano delle ‘maggiorazioni’ affinché gli stessi lavoratori ci possano ricavare qualcosa? Una cassiera guadagna più o meno 220 pesos cubani. Con quei soldi non potrà comprare gli stessi prodotti che vende durante la sua giornata di lavoro.

Passiamo al formaggio: un piccolo pezzetto di formaggio erborinato 21 CUC.

Tutto questo ha un perché. Da quando siamo bambini ci spiegano che il blocco, o embargo americano, provoca molti danni alle importazioni e accedere a determinati alimenti che, in circostanze diverse, sarebbe meno complicato coltivare, conservare o importare da un paese vicino ci costa il triplo.

Prendo in mano un dolcificante. Lo leggo: arriva dagli Stati Uniti. Com’è possibile? Come fa questo prodotto ad arrivare a Cuba nonostante il blocco?

Il popolo cubano mangia ogni giorno facendo le acrobazie tra lo stipendio e quello che riesce a ‘rimediare’ in modo illecito, tra le spedizioni famigliari e le collaborazioni con l’estero.

Oggi mangiare a Cuba racchiude una forte carica simbolica. A questa tavola si nascondono i segreti di un paese sommerso da diverse economie, che finiscono per sfidare il nostro antico precetto di lavorare per portare il pane in tavola.

L’arte di mangiare a Cuba è oggi un vero mistero.

 

traduzione di Silvia Bertoli.

 

SENZA PESI SULLA COSCIENZA

di Yoani Sánchez

da El Pais – 25 giugno 2013

 

A lei si è rotta un’unghia per l’agitazione. Domani dovrà tornare dalla manicure per farsi sistemare lo smalto e la bandierina inglese in miniatura che si era fatta dipingere. A lui in mezzo alla confusione si è scucita la camicetta, inoltre ha il corpo madido di sudore, come se gli avessero lanciato contro un secchio d’acqua. Non è una scena erotica, non si tratta di amore, ma di illegalità. Una coppia, sotto il sole di giugno, trasporta sabbia per finire di ristrutturare una cucina. Hanno rubato l’occorrente da un teatro in corso di restauro. Hanno girato intorno fino a quando il custode non si è addormentato dopo aver pranzato. Allora hanno riempito due borse, sufficienti per edificare un piccolo pianerottolo. Hanno costruito così la loro casetta, prendendo un po’ alla volta ciò che serviva, da un luogo o da un altro, sperando che nessuno si accorgesse che stavano sottraendo mattoni e mattonelle per il pavimento. La sua piccola abitazione è stata il risultato di un’attività predatoria, della tipica rapacità che tanti cubani manifestano nei confronti delle risorse statali. Prendere tutto quel che si può, portare via a quel potente padrone qualsiasi cosa, pensano… e subito passano a vie di fatto.

Tra i motivi per cui alcuni alcune costruzioni impiegano così tanto tempo per essere costruite o riparate non ci sono solo la negligenza e la mancanza d’efficienza. Il furto di cemento, acciaio e altri materiali per costruzione rallentano la realizzazione di molte opere pubbliche. In alcuni casi eclatanti, la quantità di risorse rubate ha moltiplicato per tre i preventivi dei costi di costruzione o restauro. I lavandini spariscono non appena vengono scaricati dal camion mentre le confezioni di vernice vengono riempite d’acqua per rivendere parte del prodotto sul mercato clandestino. Si narra persino di un hotel dove sono stati trafugati 36 impianti di aria condizionata, alcuni giorni prima dell’inaugurazione. Di fronte a così tanti furti, ogni oggetto o risorsa va sorvegliata con attenzione. Non solo. E’ necessario anche controllare chi è deputato all’attività di vigilanza.  

Molti occhi attendono solo un piccolo errore. Una mattina senza controlli comporterà la sottrazione di un’ingente quantità di calcina. Durante la vacanze estive, una scuola senza custode potrà perdere alcune finestre e diverse tazze del bagno. Le lampade scompaiono, gli interruttori elettrici vengono trafugati, il saccheggio riguarda le maniglie delle porte, i corrimano delle scale, le tubazioni e persino le tegole del tetto. Senza pesi sulla coscienza, né complessi di colpa da parte di chi compie i misfatti. Proprio come il povero nullatenente che ruba al padrone un pezzo della sua succulenta merenda quando quest’ultimo guarda fuori dalla finestra. Quasi tutti coloro che sottraggono materiali per costruzione di opere statali non provano alcun rimorso per ciò che fanno. Definiscono tale attività “recuperare”, “inventare”, lottare”, “sopravvivere”. Quando si fanno il bagno in una doccia costruita con piastrelle rubate, pensano sotto l’acqua che scorre: “quel che ti danno prendilo e quel che non ti danno… pure.”

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

I legami tra le forze produttive

 

YOANI SANCHEZ

Lo stesso giorno in cui Marino Murillo è comparso in televisione per illustrare la potenziale prosperità del modello economico cubano, la segretaria del Partito Comunista di un municipio di Pinar del Río incontrava con urgenza diversi contadini. L’assemblea ha avuto luogo nella località di San Juan y Martínez e si è focalizzata sullo stato di emergenza agricola in cui versa il paese. Tra le altre cose, la funzionaria ha chiesto ai cooperativisti della zona - dediti soprattutto alla coltivazione di tabacco - di seminare più frumento e tuberi. “Il paese attraversa una situazione di crisi alimentare” ha detto, senza provocare particolare agitazione nell’uditorio, perché il cubano medio non ricorda situazione diversa da crisi, angoscia e collasso cronico. “Cominciate a seminare che dopo arriveranno le risorse…”, si è affrettata a dire di fronte a persone abituate ad ascoltare il canto delle sirene sotto forma di promesse incompiute.  

Rapidamente l’assemblea ha cambiato direzione e i convocati hanno cominciato a inserire in agenda altri argomenti. Sono piovute subito le lamentele. Un produttore di frutta ha spiegato tutti gli impedimenti per stipulare un contratto direttamente con l’azienda La Conchita e poter così commercializzare le sue guayaba e i suoi manghi. Adesso non può farlo, perché deve vendere la produzione all’impresa statale Acopio che a sua volta ha il compito di somministrarla alla fabbrica di conserve e marmellate. L’intermediario ufficiale esiste ancora e si prende il maggior guadagno, ha detto l’agricoltore. Inoltre, un rotolo di fil di ferro lungo 400 metri per recintare un campo a un’impresa agricola statale costa 80 pesos (3,30 USD); mentre il contadino membro di una cooperativa può arrivare a pagare per identica quantità dello stesso prodotto anche 600 pesos (25 USD). Un sacco di cemento - indispensabile per ampliare le strutture di un’azienda agricola - costa al massimo 20 pesos (0,83 USD) per una fattoria statale e 120 pesos (5 USD, prezzo al dettaglio, per il cooperativista.  

Quando i rapporti di produzione diventano una camicia di forza per lo sviluppo delle forze produttive vuol dire che è arrivato il momento di cambiarli. Questo recitava una conclusione marxista tra le più studiate sia al liceo che all’università. Per questo se confrontiamo le dichiarazioni di Marino Murillo con le testimonianze di diversi contadini e il disastro agricolo che ci circonda, dobbiamo solo concludere che l’attuale modello economico si comporta come un abbraccio mortale per lo sviluppo e la prosperità di Cuba. Non serve a molto che i funzionari ci dicano che tutto va bene, che tempi migliori e progresso sono dietro l’angolo. Se chi lavora i campi continua a essere bloccato da regole assurde, coloro che stabiliscono simili restrizioni devono togliersi di mezzo e lasciare il passo ad altri capaci di lavorare meglio.  

 

Traduzione di Gordiano Lupi  

 

 

L’umorismo come esorcismo

 

YOANI SANCHEZ

Ero appoggiata al finestrino e facevo attenzione. Il vetro mostrava una vistosa incrinatura e a ogni scossone sembrava che dovesse cadere a pezzi. Per alcuni minuti, lungo il viale percorso dal taxi collettivo, mi ero imposta un esercizio di aritmetica: contare per strada tutte le persone che sorridevano. Nel primo tratto, tra avenida Rancho Boyeros e il cinema Maravillas, non ho visto nessuno. Una signora mostrava i denti non per allegria ma per colpa del sole, che le disegnava una smorfia composta da occhi socchiusi e labbra aperte. Un adolescente in uniforme da liceale gridava all’indirizzo di un collega. Non ho potuto sentire a causa del rumore del motore, ma le sue parole non contenevano alcuna battuta umoristica. All’altezza di Piazza Cuatro Caminos una coppietta ferma a un crocevia si baciava con passione, ma neppure in questo caso si notavano atteggiamenti giocosi. Tutt’altro. Era un bacio carnivoro, vorace, rapace. Un bebè in carrozzina sembrava sul punto di sorridere… ma era soltanto uno sbadiglio. Arrivati al Parque de la Fraternidad avevo potuto contare solo tre risate, incluso quella di un poliziotto che si burlava del giovane che aveva ammanettato e fatto salire sulla camionetta.  

Ho fatto questo esperimento in diverse occasioni, per verificare se siamo davvero quel popolo sorridente di cui parlano tanti stereotipi. Nella maggior parte dei casi, il numero di coloro che esprimono un certo grado di allegria non ha superato le cinque persone in un tragitto che varia tra i 4 e i 10 chilometri. Certo, questo non prova niente, ma è vero che nelle circostanze quotidiane le risate non sono così abbondanti come vogliono farci credere. In ogni caso restiamo un popolo dotato di molto senso dell’umorismo. Ma l’ilarità è una scialuppa di salvataggio che ci riscatta dal naufragio della depressione più che una caratteristica del nostro carattere. Ridiamo per non piangere, per non picchiare, per non uccidere. Ridiamo per dimenticare, fuggire, tacere. Per questo, quando assistiamo a uno spettacolo comico capace di far vibrare tutte le corde dolorose del nostro umorismo, è come se si aprissero le valvole di scarico e tutta la calzada 10 de Octubre cominciasse a ridere, inclusi gli edifici, i lampioni e i semafori.  

Venerdì scorso è successo qualcosa di simile durante lo spettacolo “De doime son los cantantes” che l’attore Osvaldo Doimeadios ci ha regalato nella sala del Karl Marx. L’umorista ha reso omaggio al nostro miglior teatro vernacolare esibendosi in magistrali interpretazioni e monologhi. Le penurie economiche, la riforma migratoria, gli eccessivi controlli sul lavoro privato, gli episodi di scandalosa corruzione collegati al cavo di fibra ottica sono stati alcuni tra gli argomenti che hanno strappato il maggior numero di risate. Ridiamo dei nostri problemi e delle nostre miserie, ridiamo di noi stessi. Finita la distrazione, il pubblico si è accalcato nei caldi corridoi per guadagnare l’uscita. Fuori, la calle Primera era affollata nonostante fosse notte. Ho preso un autobus per tornare a casa e mi sono affacciata al finestrino… nessuno sorrideva. L’umorismo era rimasto nelle poltrone e sul palcoscenico, eravamo tornati alla sobria realtà.  

 

Traduzione Gordiano Lupi  

 

 

 

WENDY GUERRA, TORNARE A CUBA

Scrittice affermata in europa.

Da. https://nuovacuba.wordpress.com/

18 giugno 2013

«Ciao, sono all’aeroporto, sono arrivata ma mi stanno per pesare e forse aprire le valigie. Mi potete aspettare con calma per favore? Qui va per le lunghe e devo spegnere il cellulare.»

È l’attacco inequivocabile dei rientri a Cuba. Sembrava che tutto fosse cambiato, ad alcune persone nemmeno le pesano, invece no, questo mese, entrando all’Avana, è successo a tre dei miei colleghi.

Anche se arrivi entusiasta, con la voglia di creare, pazzo per la gioia di ritrovare Cuba, vieni subito disarmato nel ‘raccontami vita, morte e miracoli’ dell’aeroporto. È la dogana, il luogo in cui gli impiegati dimenticano di essere cubani come te, con le stesse mancanze, con il bisogno di importare i beni di prima necessità che a Cuba non si trovano. Queste persone eseguono degli ordini, ma con un atteggiamento distante, vuoto; sembrano stranieri intenti a domandarci perché portiamo quel che portiamo nel paese in cui siamo cresciuti insieme carichi di necessità oggettive.

Che cosa direbbe Rousseau il Doganiere che, essendo lui stesso un artista straordinario, ebbe un posto come ispettore delle merci di frontiera a Parigi (da cui il suo soprannome douanier), e nella sua valigia fece entrare in quegli anni tanta pittura da dare una mano a completare la tavolozza a tutta la sua generazione, quella che ne poteva comprare ben poca da impiegare nei quadri che sono oggi gioielli universali.

Che cosa ho portato? Un enorme catalogo generale del Museo d’Orsay, un altro sull’impressionismo astratto, quello con la retrospettiva dell’opera di Inés Tolentino che lei mi ha regalato. La poesia completa di José Triana (con dedica dell’autore de La noche de los asesinos), un grosso dizionario francese-spagnolo.Ho portato creme, profumi e spezie, incensi, una lampada a olio per scacciare le zanzare quest’estate. Ho portato medicine per lo stomaco, per l’influenza, le allergie, i dolori, la nausea; molti medicinali per ripartire e sopportare l’estate lontano da Parigi, varietà di tè, olio d’oliva, una bottiglia di vino rosso, taccuini per gli appunti, i miei dolci preferiti e colorati de La Durée (casa fondata nel 1862); matite, penne, scarpe e vestiti, costumi da bagno, una cartuccia di inchiostro per la mia vecchia stampante, biancheria intima, indumenti pesanti, un piccolo paiolo, una caffettiera nuova, guarnizioni per il mio frigorifero, libri di diversi autori della mia generazione, quelli che qui non trovo e che si prestano all’infinito. Ho portato un cestino per il cucito, una borsa dell’acqua calda, l’apparecchio per misurare la pressione e alcuni quaderni a righe. Due disegni che ho comprato a un giovanissimo pittore di strada che disegnava ricurvo a 13 Rue du Four. Due dischi di magnifiche versioni delle Sonate di Scarlatti. Smacchiatori, lucido da scarpe neutro e alcune goccette per disinfettare l’acqua. Fortuna che non ho portato l’originale di William Navarrete, lui ha insistito e aveva ragione, ora l’avrebbero letto domandandosi perché un collega porta l’originale dell’altro. Il mio asciugacapelli, il mio shampoo. Questi sono gli oggetti che raccontano le vicissitudini della mia quotidianità, la stessa necessità collettiva di avere e offrire tutto ciò di cui c’è bisogno agli amici, oggetti che viaggiano ancorati al fondo della valigia per prolungare il confortante tempo della creatività su quest’isola che amo e difendo come poche cose nella mia vita, quest’isola che tratteggio a bordo dell’aereo, idilliaco pezzo di terra che di colpo mi viene strappato dalla confisca della frontiera. La colpa è di tutti quando non c’è niente e tu ti lasci privare di ciò che hai portato, è un problema di tutti ma, quando aprono la tua valigia, i doganieri si comportano come fossero degli svedesi sbigottiti.

«Che cosa portano gli artisti? Ma che si credono questi artisti? Chi pensano di essere per portarsi tutte queste cose? Perché non si cercano uno specialista che li capisca, che sappiano perché portano funi, parole stampate, indumenti pesanti, colori e compresse per combattere la nevrosi che crea ogni cosa, questa crisi che ti attende al tuo arrivo, qualcuno che ci capisca qualcosa di questi strumenti e di questi aggeggi per creare che nemmeno loro conoscono.»

Guardo le valige, mi fermo, di certo alcune di queste cose ci sono anche qui o a un certo punto si potranno procurare, ma la mia ossessione di non restare senza qualcosa di indispensabile mi fa portare tutto. Ho pagato un supplemento per il peso e qui lo dovrò ripagare.

«Non hai portato elettrodomestici o un DVD, un disco rigido, un cellulare da vendere?»

Non ho portato altro che quello che mi permette di rimanere qui e ora, a creare, a cercare il prossimo motivo per non andarmene da un luogo in cui faccio tutto il possibile per sentirmi bene.

Questo è il paese ideale per lavorare, qui il tempo ha altre caratteristiche, un altro peso, il clima e la luce ti stimolano a concepire idee incredibili. È importante che le cose si rimettano al loro posto.

Nella valigia di Cuba c’è tutta la mia vita. Chiudete tutto e lasciatemi passare che qui dentro viaggia la mia anima.

 

traduzione di Silvia Bertoli.

 

 CHI SONO COLORO CHE CONTROLLANO?

Yoany Sancez

Da. https://nuovacuba.wordpress.com/

18 giugno 2013

Il suo stesso vicino lo controlla. Nessuno glielo ha confermato, non l’ha letto in nessun rapporto e neppure è stato avvertito da amici poliziotti. Solo che non è tonto. Non appena apre l’uscio di casa, una testa bianca si affaccia dalla porta accanto. Ogni cinque o sei volte che entra o esce dalla sua abitazione, almeno in tre casi incontra l’anziano che vive nell’appartamento adiacente, intento a fingere di annaffiare le piante del corridoio. I portafiori debordano di umidità, ma il guardiano improvvisato continua ad aggiungere acqua. Non solo, fa domande, molte domande, sugli argomenti più impensati: “Dove hai comprato queste cose che porti nel sacchetto? È da molto che non viene a farti visita tua suocera, vero?”. Una cosa è certa, possiede la sua spia privata, una cellula di intelligence – composta di un solo membro – focalizzata sulla sua esistenza.

Il vicino informatore ha trascorso da solo il giorno della festa del papà. Nessuno dei suoi figli è venuto a fargli vista per festeggiare insieme a lui. La verità è che nessuno va mai a trovarlo, a parte, alcuni giorni fa, due uomini con i capelli tagliati in stile militare. Perché l’anziano ha fama di essere uno che risulta insopportabile persino alla sua famiglia. È “più solo del rintocco delle una”, dicono di lui gli altri abitanti del disastrato edificio. A metà pomeriggio il controllato ha bussato alla porta del suo controllore per regalargli un pezzo di torta. “Assaggialo, me l’hanno portato le mie figlie”… gli ha detto gustando la soddisfazione di essere un uomo soddisfatto e apprezzato. Un breve sguardo colpevole è comparso negli occhi del ficcanaso. Ma di notte è tornato subito al compito di verificare chi esce e chi entra dalla casa confinante.

Si tratta di una regola non scritta ma molto frequente. Quasi tutte le persone che svolgono il compito di spiare la vita di altri cubani presentano una grande frustrazione nelle loro esistenze personali. Certo, non è che ogni disgraziato diventa un informatore della Sicurezza di Stato, ma il fallimento personale è un brodo primordiale di cui approfittano i reclutatori degli informatori. Sono questi individui a formare una truppa d’assalto disposta a distruggere il prossimo. In ogni quartiere, i più estremisti sono proprio coloro che hanno una vita familiare e affettiva più disastrosa. Non è una regola… chiaro… ma come si ripete!

Al suo vicino, pensionato, frustrato e solitario hanno assegnato il compito di controllarlo. Gli hanno concesso un potere sulla sua vita, un’ascendente che il soggetto sfrutta e assapora ogni giorno. Il potere di distruggere sorrisi, di redigere rapporti che un giorno o l’altro manderanno in galera quell’insopportabile padre e marito felice che vive all’altro lato della parete.

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

 ANDROID E L’INGEGNO DEI FURBI

YOANI SANCHEZ 

Da. https://nuovacuba.wordpress.com/

18 giugno 2013

Si sono laureati all’Università di Scienze informatiche o in altre facoltà di ingegneria, ma si guadagnano la vita in maniera indipendente. Sono i nuovi creatori di applicazioni per Android che proliferano a Cuba. Le loro tastiere hanno ideato una popolare “app” dotata di un database filtrato dalla compagnia telefonica e chiamata – in maniera molto azzeccata – ETECSA-Droyd. Basta installarla nel telefono mobile e si potrà conoscere nome, indirizzo e persino data di nascita della persona che chiama. Nessuno scappa al controllo. Sono a portata di mano i dati di un ministro, di un funzionario defenestrato e persino dei figli del Generale Presidente. Meraviglie della clandestinità, in un paese in cui il proibito si confonde ogni volta di più con quel che desideriamo e con le cose possibili.

Tra questi giovani nativi digitali, i migliori programmatori hanno già firmato contratti con imprese di altri paesi. Lavorano dalle loro abitazioni dell’Avana, Camagüey o di altre province, ma il prodotto finale è diretto verso Tokio o Parigi. Certo, sono solo i casi più fortunati. La maggioranza di questi programmatori, prima di ottenere l’agognato impiego a distanza, dovrà fare una lunga gavetta a base di installazioni di nuove funzionalità su telefoni di clienti nazionali. Se avranno fortuna, un giorno si presenterà un turista che chiederà di riparare il suo iPhone o un Samsung Galaxy. Sarà l’opportunità per dimostrare talento tecnologico e strappare al visitatore straniero un accordo di collaborazione o un invito per andare a lavorare in un altro paese.

Tuttavia, il percorso di questi individui geniali può subire gravi incidenti. Negli ultimi mesi, i tribunali cubani hanno processato  diverse persone implicate nel commercio di telefoni mobili e di software per Smartphone. A luglio, è stata arrestata una persona in possesso di un carico di HTC e di navigatori per auto, oltre alla strumentazione per creare nuove versioni di applicazioni, tra queste anche l’illegale ETECSA-Droyd. Adesso è in attesa di giudizio e buona parte dei guadagni realizzati grazie al talento informatico dovrà spenderlo per un avvocato. I reati digitali non sono più soltanto materiale per soggetti di film stranieri. Hackear, attaccare un sito web, sperimentare strumenti che rubano password wi-fi, sono diventati il passatempo di alcuni giovani dotati di talento per codici e linguaggi di programmazione. Le nuove tecnologie sbarcano sul mercato illegale, quella parte della nostra esistenza così rudimentale – quasi medioevale – ma anche così sofisticata e innovatrice.

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

LONTANI DALLA SPIAGGIA… VICINI A INTERNET

YOANI SANCHEZ, 

Da: https://nuovacuba.wordpress.com/

 

18 giugno 2013

Playa Siboney: La punta del cavo di fibra ottica

Gli abitanti della zona di Playa Siboney (maps.google) hanno buoni motivi per essere tristi e parecchio infastiditi. L’uragano Sandy ha divelto buona parte delle infrastrutture costiere, distrutto case, scagliato rocce enormi sul lungomare e danneggiato seriamente la vegetazione della regione. Oltre otto mesi dopo un’alba infernale durante la quale si è abbattuto un grave fenomeno meteorologico, lo Stato ha fatto davvero poco per ricostruire la zona. Alcuni abitanti hanno rimesso in sesto parte dei muri che circondavano le loro abitazioni distrutti dai forti venti. Anche se è vero che si vedono ovunque macchine operatrici e camion che caricano pietre e terra, il loro obiettivo non è quello di rimettere di nuovo in piedi il paese distrutto. In realtà si trovano lì soltanto per il cavo di fibra ottica che collega quella regione con il Venezuela.   Diversi padroni di ristoranti privati e case da affittare, si lamentano della diminuzione del turismo internazionale dopo la catastrofe di Sandy. “Gli stranieri arrivano con l’idea di restare una settimana o anche un periodo maggiore, ma quando vedono le condizioni in cui versa la regione se ne vanno dopo due giorni… sempre che resistano così tanto”. La bellezza naturale del paesaggio rende più drammatica la sua situazione attuale.  Davanti a un mare così azzurro da sembrare una cartolina illustrata, molte persone cercano di guadagnarsi la vita nonostante la situazione difficile. “Ma almeno avrete presto Internet, con il cavo così vicino”… provoco qualche abitante, mentre cerco informazioni. La reazione, quando menziono l’impianto, che è costato oltre 70 milioni di dollari,  è carica di scetticismo. “Quel cavo viene protetto persino da noi!”, afferma una signora con gli occhi che hanno quasi lo stesso colore di quel Caribe che osserva mentre parla. Il luogo in cui toccò terra nel febbraio del 2011 il cosiddetto ALBA-1, non sembra davvero beneficiare dei dati che circolano grazie a lui. Un “sarcofago” di cemento con una pesante chiusura metallica, fa le veci del primo “registro” del cavo che collega anche la vicina Giamaica. Un custode controlla giorno e notte il luogo da cui entrano ed escono tanti kilobytes. L’irriverente uragano dello scorso ottobre ha portato via la protezione che conservava la parte terminale dell’impianto e ha messo allo scoperto il reticolato di fibre e rivestimento. La mattina successiva all’incidente gli abitanti delle zone limitrofe si sono affacciati incuriositi per vedere il “nuovo inquilino” del posto. Sono arrivate subito le squadre incaricate di coprirlo e di realizzare una protezione per farlo scorrere sicuro. Per alcune settimane il lavoro è stato realizzato da una squadra dell’impresa di Telecomunicazioni la ETECSA, mentre adesso è nelle mani del Ministerro delle Forze Armate (MINFAR). Siccome la speranza è l’ultima cosa che si perde, come ricordano gli anziani del posto, gli abitanti di Siboney sperano ancora nel miracolo della ricostruzione e della connessione. “Questo potrebbe essere il paese con maggior accesso a Internet di tutta Cuba”, dice un giovane che pesca tra gli scogli. Ma non riesco a rendermi conto se lo dice scherzando o sul serio, perché il sole inclemente gli disegna una strana smorfia sul volto. Di sicuro quello stesso sito ancora disastrato, diventerebbe una zona più prospera e con maggiori opportunità se potesse contare sull’accesso al web. I negozi privati attirerebbero più visitatori grazie ad annunci pubblicati sul ciberspazio, giungerebbero maggiori informazioni sugli eventuali prossimi fenomeni meteorologici e potrebbero persino organizzare una campagna dicrowdfunding per ricostruire le zone vicine alla spiaggia. Ma questo significa sognare troppo, mi assicura un vecchietto che mastica un sigaro spento e porta un berretto verde oliva ben calcato fino agli orecchi.

Lontani dalla spiaggia… vicini a Internet   Nella città di Santiago di Cuba, a meno di una ventina di chilometri dal luogo in cui il cavo di fibra ottica tocca terra, esiste uno dei nuovi Internet Point. Un ufficio climatizzato, dotato di quattro computer e gestito da un’impiegata molto attenta a ciò che fa ogni cliente seduto davanti allo schermo. I prezzi sono stratosferici (4,50 CUC per un’ora), pertanto non ci sono code per entrare. Per me è il momento migliore per fare qualche prova di connessione e per verificare quali siano i siti consentiti e non consentiti. Tra i siti censurati durante il mio collegamento trovo Cubaencuentro(https://cubaencuentro.com/), Cubanet (https://cubanet.org/) e Revolico (https://revolico.com/). Forse anche altri portali e pagine sono oscurate, per questo chiedo ai frequentatori del blog di aiutarmi a ricostruire la geografia del web proibito. Come buona notizia, si leggono senza difficoltà Café Fuerte(https://cafefuerte.com/), Penultimos Días (https://penultimosdias.com/), Diario de Cuba(https://diariodecuba.com/) e El País (https://elpais.es/), oltre ai siti di Amnesty International(https://www.es.amnesty.org/) e Reporteros sin Fronteras (https://es.rsf.org/).

Riassumendo, anche se questa non è l’Internet che sogniamo, visti i prezzi elevati, i siti censurati e l’impossibilità di connettersi dalle abitazioni, possiamo dire che almeno è stata aperta una crepa nel muro della disconnessione. Adesso tocca a noi fare in modo che questa piccola fessura si trasformi in una porta. Non ci resta che vivere per vedere.

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 REPRESSIONE E PANNOLINI.

 

9 giugno 2013

traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

 

 

Alejandro Armengol - El Nuevo Herald

 

Non ci dovrebbero essere illusioni su un rilassamento del controllo politico sotto il presidente Raul Castro. Il sistema cerca di seminare sconforto assieme alla paura. Gli argomenti possono non essere persuasivi e le risorse utilizzate sono caratterizzate dalla loro mancanza di originalità. La polizia però non è interessata a convincere, ma a persuadere e la mancanza di fantasia è una delle regole del mestiere.

Se a Cuba ci fosse un barlume di democrazia, da anni i fratelli Castro sarebbero stati rimossi dal potere. In primo luogo, perché inetti. Ripeterlo è banale, eppure la ripetizione non ci salva dallo stupore. 

Un rapporto divulgato sul sito digitale Havana Times fa sapere, almeno a quelli nell’esilio, che le madri cubane sono costrette a riutilizzare i pannolini usa e getta. 

“Quasi tutto il corredo per i neonati si acquista nei negozi per riscuotere valuta a un prezzo esorbitante se si considera che lo stipendio base è di 250 pesos (10 CUC)”, ha detto Mercedes González Amade. 

Mentre il bambino è piccolo, c’è la possibilità che i pannolini usa e getta possano essere acquistati, come riferisce Havana Times specificando che quando la taglia è piccola la confezione contiene da venti a trenta pannolini. Con l’aumento delle dimensioni, tuttavia aumenta anche il prezzo e diminuisce la qualità. Così le madri devono valersi dei pannolini già utilizzati, togliere l’imbottitura, lavando dopo il rimanente per poi stenderlo ad asciugare.

“Una volta asciutto, da dove è stato preso quella che è comunemente chiamata “trippa” (l’imbottitura), introduciamo due pannolini di stoffa piegati in quattro e, se per caso, il pezzo che aveva prima dell’adesivo perde il suo effetto, utilizziamo due spilli”, dice González Amade. 

Dover ricorrere a questa soluzione è tipico di una cultura della povertà, in cui la necessità richiede un adattamento della merce in base ad una situazione di miseria. Non c’è un “embargo imperialista” che giustifichi quest’uso. Qualsiasi pretesto ideologico è solo cinismo. Per decenni il regime cubano si aggrappò alla tesi del futuro per deviare qualsiasi sguardo critico al presente. Ora il tutto si riduce a un “si salvi chi può”. 

Se Fidel Castro proclamò che lo Stato si sarebbe preso carico di tutto, dalla formazione superiore fino alla produzione di gelato, quello che persiste ancora oggi è un completo disastro, nel quale convivono i campus universitari in province artificialmente costruite e anziani che vendono coni di arachidi, bambini che mendicano chiedendo qualcosa ai turisti – e più di un video caricato su Internet lo mostra –, e uomini e donne che sopravvivono con stipendi da fame. 

Quando è diventato troppo evidente che il governo cubano non era in grado di soddisfare le esigenze più elementari, non si optò per altra soluzione al riguardo se non di spostare il problema alla famiglia.  

Questa è, in ultima analisi, una delle “vittorie politiche” del regime negli ultimi anni: che i membri della famiglia, soprattutto quelli che vivono all’estero, si occupino della cura degli svantaggiati, in particolare i bambini e gli anziani. Non solo ha buttato giù per lo scarico l’uguaglianza e la vantata giustizia sociale sostenuta per anni, ma l’intero tessuto economico e sociale proprio di qualsiasi paese, dal sistema delle pensioni fino all’offerta di lavoro. 

La differenza per Cuba è che quelli hanno causato la distruzione si presentano ora come quelli in grado di rimediare il disastro, mediante concessioni date a contagocce e decreti legge veloci come tartarughe: il ruolo del governo nelle mani di persone che agiscono in qualità di riparatori di catini, aggiustatori di molleggi dei materassi e venditori di lattine. Con la particolarità che, a differenza di quelli che nel passato, vagando per le strade offrivano questi servizi da poveracci, oggi ci sono loro che si arricchiscono.  

È chiaro che per agire con l’impunità che tuttora dispiegano, l’inganno non basta: devono sopprimere i fatti e le denunce, favorire l’invidia e conservare l’abbandono. 

Il regime cambia le leggi e ordinamenti al fine di perpetuarsi. Tali cambiamenti sono fondamentali per aree della vita quotidiana. Ciò che un tempo era un delitto a Cuba, è ora consentito. Durante il governo di Fidel Castro si era imposta una politica di non essere guidati da una mentalità imprenditoriale, preoccupata per le prestazioni e i profitti, ma di trarre beneficio economico come conseguenza degli obiettivi politici. Raul Castro sembra essere il contrario: l’uomo che vuole “far funzionare le cose”. Solo che nessuno sa come ci riuscirà e l’efficienza continua a essere una frontiera e non una conquista. 

In sostanza però, la capacità o il diritto di esprimere un desiderio di cambiare alcune leggi, così come gli aspetti e le condizioni sociali, oppure la società e il governo nel suo insieme, continuano a essere soffocati a Cuba, come quando questa persecuzione portava le vesti della lotta di classe.

 

 

LIBERI ALL’AVANA, GANDALF ED ELTON JOHN

 

Yoani Sancez

7 giugno 2013

 

Londra è arrivata all’Avana. Nel corso della settimana della cultura britannica che si celebra nel nostro paese a partire dal primo giugno, persino il clima è entrato in sintonia con quello dell’altra Isola. Cielo grigio, pioggerellina persistente, nebbia all’alba. Manca soltanto la sagoma di Sherlock Holmes che si aggira per un crocevia o un mago intento a bussare con il bastone sul legno della nostra porta. Sono giorni di buona musica, ma è possibile anche apprezzare nelle sale cinematografiche un’insolita programmazione. Da martedì scorso è cominciata una mostra di cinema che comprende il documentario Cercando Sugar Man – vincitore del Premio Oscar 2013 – oltre al film biografico Marley sulla vita del famoso cantante e compositore di reggae. La selezione di disegni animati per bambini e adolescenti, probabilmente attirerà un buon pubblico visto il periodo di vacanze scolastiche.

Ho gustato parte della programmazione non solo per me stessa, ma anche per molti altri. Ho pensato soprattutto a quei giovani cubani che trenta o quarant’anni fa ascoltavano di nascosto un quartetto inglese, che adesso i media ufficiali diffondono ovunque. I colori sgargianti e il disegno del poster di questa “Settimana Britannica” mi hanno fatto venire a mente l’iconografia del cappellaio di Alice nel Paese delle Meraviglie e anche i simpatici avventurieri del Sottomarino Giallo. Alcuni di noi abbiamo inteso il festival come un omaggio ai fan dei Beatles che un tempo venivano così criticati. La cosa migliore di queste giornate è senza dubbio una piccola finestra aperta che porta a Cuba una ventata d’aria fresca. Il vero regalo è rendersi conto che la cultura può far sembrare l’Atlantico più stretto, gli anni passati più corti, il tempo perduto recuperabile.

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

 VENT’ANNI DOPO: DAL DOLLARO A INTERNET

Yoani Sancez

 

7 giugno 2013

Nel 1993 Fidel Castro fu messo alle corde dalla crisi economica e accettò la circolazione del dollaro nel territorio cubano. Fino a quel momento, possedere valuta straniera poteva costare diversi anni di carcere. “La moneta del nemico” entrò per restare, anche se anni dopo sarebbe stata rimpiazzata da un surrogato chiamato peso convertibile. Tra gli elementi più interessanti del decreto che metteva in vigore il doppio sistema monetario, si potevano leggere i motivi della sua ammissione. Nella Gazzetta Ufficiale si riconosceva: “questa misura contribuisce positivamente a diminuire il numero dei fatti sanzionabili, semplificando il compito della polizia e dei tribunali”. In pratica, per ridurre il lavoro a poliziotti e giudici si consentiva il possesso dei dollari. La data prescelta per l’entrata in vigore della nuova normativa era il 13 agosto, giorno del compleanno del Leader Maximo. 

Sono passati vent’anni da quel momento e ancora la società cubana continua a vivere in piena schizofrenia monetaria. Fidel Castro non occupa più la carica di presidente, ma sembra che anche al fratello piaccia far coincidere i cambiamenti legali con il calendario familiare. Il 3 giugno ha festeggiato i suoi 82 anni di vita e al tempo stesso ha posto fine a una strategia di controllo eccessivo sull’accesso a Internet. Poche ore dopo la fine di quella fatidica giornata hanno aperto i battenti le 118 sale di navigazione dotate di connessione pubblica al web. Un regalo di compleanno piuttosto amaro per il Generale che aveva cercato di ritardare con ogni mezzo l’accesso dei cubani a Internet. Molto probabilmente questo piccolo passo verso l’apertura informatica seguirà lo stesso destino della depenalizzazione del dollaro: non si farà marcia indietro. 

Dalla mattina di questo martedì hanno cominciato a funzionare i nuovi locali pubblici con servizio Internet e Intranet. Al costo di 4,50 pesos convertibili (CUC), circa 3,50 euro, l’utente può contare su un’ora di acceso al cyberspazio. È possibile optare per una navigazione su Intranet nazionale al prezzo di 0,60 CUC, oppure utilizzare solo la posta elettronica “.cu” (cubana, ndt) al costo orario di 1,50 CUC. Sono state fatte diverse prove e non è stata individuata – per il momento – nessuna pagina censurata per motivi politici. La velocità minima di connessione è di 512 Kbps, la schermata che dà il benvenuto all’utente – non appena si accende il computer – porta il nome di Nauta, anche se i programmi e l’intero funzionamento si basano su Microsoft Windows. 

Nella prima giornata di apertura erano accessibili dai nuovi locali di Internet portali come El Nuevo Herald (https://elnuevoherald.com/), siti contenenti notizie tipo Diario de Cuba (https://diariodecuba.com/) e diversi blog critici nei confronti del governo, scritti dall’interno dell’Isola. Il costo elevato del servizio, in un paese dove il salario medio mensile si aggira attorno ai 17 euro, sembra il limite fondamentale. Tutto ciò contraddice il viceministro delle comunicazioni che recentemente aveva dichiarato: “Nel nostro paese non sarà il mercato a regolare l’accesso alle conoscenze”. Ora come ora, chi possiede la moneta forte – autorizzata a circolare dal vecchio presidente – potrà frequentare reti sociali, siti con offerte di lavoro e borse di studio, sfruttando tutte le possibili occasioni per tentare di emigrare. 

Curiosamente entrambe le misure: la depenalizzazione del dollaro e questa timida apertura a Internet, sono state frutto più della pressione che del desiderio di apertura da parte del governo. Consentire che i cubani potessero possedere moneta convertibile, fu una decisione presa di fronte all’evidenza che nel mercato informale i cosiddetti “biglietti verdi” circolavano con sempre maggior forza alla fine degli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta. Identica situazione si verifica adesso con l’informazione che proviene dalla grande ragnatela mondiale. Le connessioni pirata al web da una parte e il progresso delle reti clandestine di distribuzione di audiovisivi dall’altro, confermano quanto sia inutile cercare di recintare il campo dei kilobytes.

I primi utenti che questa mattina hanno provato le sale di navigazione si sono sorpresi di fronte alla velocità di connessione ma hanno criticato i costi eccessivi del servizio. Diversi giornalisti ufficiali si aggiravano intorno ai tavoli di un locale centrale del quartiere Vedado cercando di catturare l’istantanea degli avaneri mentre si gettavano in massa sulle tastiere. Non è accaduto, certo. Si sono visti pochi e cauti clienti intenti a verificare i limiti del nuovo servizio. Ogni utente doveva esibire il documento d’identità e firmare un contratto prima di sedere davanti allo schermo del computer. L’atto privato precisa che il servizio non deve essere usato per “azioni che possano considerasi (…) dannose o pregiudizievoli per la sicurezza pubblica”. Una spada di Damocle che potrebbe essere interpretata anche secondo considerazioni politiche e ideologiche. 

Di compleanno in compleanno, così vanno i cambiamenti a Cuba. Vent’anni fa toccò al dollaro… oggi a Internet.

 

Traduzione di Gordiano Lupi  

 

Il ritorno

 

YOANI SANCHEZ

La valigia appoggiata in un angolo, i piccoli regali che hanno viaggiato al suo interno adesso sono nelle mani di amici e parenti. Gli aneddoti, invece, verranno fuori con il tempo, perché sono così tanti che potrei passare il resto della vita ricordando singoli eventi. Sono già di ritorno. Appena arrivata ho avvertito subito la peculiarità di una Cuba che in tre mesi di assenza non è cambiata molto. Il gran numero di uniformi è la prima cosa che mi è saltata agli occhi: militari, doganieri, poliziotti… perché si vedono tanti uomini in divisa non appena atterriamo all’Aeroporto José Martí? Perché abbiamo l’impressione che ci siano pochi civili e molti soldati? Superate le luci opache dei saloni, sono stata accolta dalla domanda poco amabile di una presunta dottoressa che voleva sapere se fossi stata in Africa. Da dove vieni, figlia mia? Mi ha guardato storto, vedendo il passaporto azzurro con lo scudo della repubblica in copertina. 

Fuori, ero attesa da colleghi e familiari. L’abbraccio di mio figlio, il più atteso. Ho cercato subito di recuperare il mio spazio, immergendomi nel tempo singolare della nostra vita. Dovevo mettermi al corrente di storie ed eventi accaduti nel quartiere, ma anche nella città e nel Paese. Sono già di ritorno. Con una carica di energia che i problemi quotidiani potranno ridurre ma non mi toglieranno mai la forza per intraprendere nuovi progetti. Una tappa della mia vita finisce e un’altra sta per cominciare. Ho visto la solidarietà, l’ho toccata con mano e adesso ho il dovere di raccontare ai compatrioti dell’Isola che non siamo soli. Ho portato con me tanti bei ricordi: il mare di Lima, il Tempio Maggiore in Messico, la Torre della Libertà a Miami, la bellezza di Rio De Janeiro, l’affetto di tanti amici in Italia, Madrid con il Museo del Prado e la Fontana di Cibele, Amsterdam in mezzo ai canali, Stoccolma e i cyber attivisti di tutto il mondo che ho conosciuto, Berlino e i graffiti che coprono quel che resta del Muro che divise la Germania, Oslo immersa nel verde, New York che non dorme mai, Ginevra con i diplomatici e la sede ONU, Danzica intrisa di storia recente e la bellezza unica di Praga. Tutti luoghi che ho portato con me all’Avana, tra luci e ombre, problemi insoluti, momenti di svago e sorrisi. Sono già di ritorno e non sono la stessa persona. Qualcosa dei luoghi dove sono stata mi è rimasto dentro, anche gli abbracci e le parole di incoraggiamento oggi sono qui, insieme a me. 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

A Cuba offerta pubblica di accesso a internet

             Sotto vigilanza

 

 

Nell’isola non si accede al web dalle case. Previsti 118 Internet point a pagamento, ma resta la censura

CLAUDIO LEONARDI

L’accesso al web dalle case, a Cuba, è ancora privilegio di alcune categorie professionali, tra cui medici e giornalisti. Il governo ha però promesso di rendere attivi sull’isola, il 4 giugno, 118 internet point pubblici, per ampliare le opportunità di connessione a chi non possa sfruttare reti aziendali, scolastiche o situate in grandi alberghi.

Le noti dolenti arrivano sui costi del servizio. Lo stipendio medio dei cittadini cubani è di 20 dollari al mese. Si può quindi immaginare quanto possa pesare l’esborso di 4,5 dollari per collegarsi per un’ora a siti internazionali, cifra che scende a 0,6 dollari per chi voglia navigare solamente su siti nazionali. Una discrepanza che, in tutta onestà, sembra giustificata esclusivamente da una volontà di deterrenza e di allontanamento da fonti di informazione libere dal controllo del governo comunista cubano.

La consultazione della posta elettronica costerà, senza varianti, 1,50 dollari. 

Un’ora di connessione, tra l’altro, potrebbe permettere molto poco se la velocità della tecnologia a disposizione restasse quella finora messa a disposizione a Cuba. A gennaio, Etecsa, la Società di telecomunicazioni locale, ha annunciato di volere agganciarsi a un cavo a fibre ottiche sotto-mare proveniente dal Venezuela, che avrebbe fornito connessioni a internet ad alta velocità.

Nulla però cambierà nella politica di controllo sul web finora esercitata dalle autorità isolane. Etecsa, provvederà “immediatamente” a fermare l’accesso degli utenti se commetteranno “qualsiasi violazione delle norme di comportamento etico promosse dallo stato cubano”, ha precisato il Ministero delle Comunicazioni nel decreto governativo.

Scetticismo e critiche piovono dai dissidenti n patria e all’estero. In prima fila, la coraggiosa Yoani Sanchez, recentemente intervenuta a Perugia, al Festival del giornalismo. Sul suo account Twitter, la blogger cubana ha scritto che “ci vorrà del tempo per avere internet a casa, ma sono sicuro che arriverà... e questo farà male (al governo).”.

 

 

Cuba, la zoppicante marcia di Internet

Il governo dell'isola apre centinaia di punti per l'accesso pubblico al Web. Ma a costi proibitivi. E con la minaccia di chiudere i rubinetti in caso di violazione delle regole etiche nazionali

Roma - Timida apertura del governo cubano agli accessi digitali da postazioni pubbliche, in collaborazione con la telco caraibica Etecsa per l'apertura di 118 punti Internet dal prossimo 4 giugno. Dal momento che solo alcune categorie professionali - medici, o giornalisti - sono abilitati alla navigazione da casa, si tratta di una decisa espansione nell'accesso al Web per i cittadini di Cuba.

O meglio, per quelli che potranno permettersi i costi di navigazione annunciati dall'operatore locale. Con un salario medio di 20 dollari (circa 15 euro) al mese, i cittadini cubani dovranno sborsarne 4,5 (quasi 3,5 euro) per ottenere l'accesso ai siti internazionali. Serviranno poi 1,5 dollari per controllare le caselle di posta elettronica, mentre la navigazione tra siti nazionali sarà disponibile al prezzo orario di 0,60 dollari.

Le nuove possibilità di navigazione pubblica non saranno tuttavia esentate dai rigidi controlli governativi sul traffico online. I vertici di Etecsa hanno fatto sapere che l'accesso sarà immediatamente bloccato in caso di violazione delle regole sul comportamento etico promosse dallo stato cubano. I vari Internet Point saranno riforniti di connessione ad alta velocità grazie ai cavi sottomarini tra Cuba e il Venezuela. (M.V.)

 

LA NUOVA CLASSE CUBANA.

28 maggio 2013

traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

 

Pedro Corzo. Giornalista di Radio Marti

Cuba in assenza del potere assoluto di Fidel Castro è governata come una società finanziaria. C’è stato un passaggio da una dittatura carismatica a una burocratica e quelli che la dirigono, oltre ad avere potere, sono anche molto interessati alle fortune che dal comando possono derivare.

Quest’ultimo aspetto è importante per cercare di capire che gli eventuali cambiamenti nell’isola, saranno limitati dai danni che si possano causare ai privilegi della classe dominante.

La gerontocrazia cubana, in particolare, quella che ha disceso la Sierra Maestra, assieme ai burocrati, vecchi e nuovi, si sono lasciati alle spalle i tempi in cui simulavano di vivere in austerità, mentre il popolo è stato sepolto nella miseria.

I leader castristi considerano i pericoli che hanno corso e gli sforzi fatti per controllare il paese per oltre cinque decenni, mentre si coinvolgevano nelle ambizioni imperiali del Comandante in capo, debbano essere ricompensati. Così hanno deciso, di godersi i vantaggi materiali che derivano dal potere.

La nuova classe cubana, così come l’ha descritta lo jugoslavo Milovan Djila in riferimento a quello che è successo nel suo paese, in ultima analisi, è servita a sostituire le classi dominanti, ma non possiede la capacità di creare ricchezza.

La nomenclatura che ha imposto o che si è incorporata al totalitarismo, gode attualmente una vita comoda, case, automobili e in modo particolare la possibilità di viaggiare all’estero. Inoltre è interessata  a che propri figli e nipoti possano proseguire gli studi superiori, o almeno godere di ciò che hanno costruito imprigionando, uccidendo, e violando i più elementari diritti dei cittadini che non hanno aderito al pensiero e all’autorità del nuovo ordine che è stato imposto nell’isola nel gennaio del 1959.

Molti dei figli e nipoti di questi generali e medici che vivono all’estero sfruttano i beni acquisiti dai loro parenti attraverso l’obbedienza alla dittatura. Altri studiano in università di paesi capitalisti o semplicemente viaggiano senza alcun tipo di restrizioni.

Ci sono quelli che lavorano in società estere con sede in tutta l’isola. Quelli che possiedo buoni stipendi, migliori relazioni e un futuro personale indipendente dalla politica.

Ci sono quelli che hanno creato un proprio business imprenditoriale, il che pone la questione di dove hanno preso le risorse in modo da avere indipendenza economica, non c’è dubbio che può essere stata costruita sul talento e la fatica, o magari perché una mano ha inviato loro i dollari necessari per far partire il progetto che promuovono.

Naturalmente ci sono figli e nipoti di dirigenti cubani che hanno affrontato le difficoltà come i figli di un comune cittadino, perché non possono contare della generosità dei loro genitori o parenti, poiché hanno avuto il coraggio di condannare un regime di oppressione.

La Corporation Governo di Cuba S.r.l. è guidata da Raul Castro, e i suoi azionisti sono generali, dirigenti di partito e medici, tutti molto gelosi delle loro prerogative. In tal modo sono pronti a prevenire eventuali rettifiche che possano togliere equilibrio alla rete che garantisce loro il potere, la ricchezza e l’impunità.

È ragionevole supporre che, mentre Raul Castro esteriorizza la più alta autorità, non potrà mai governare nello stile del fratello, e dovrà conciliare propri interessi e opinioni con il resto del suo direttivo, il quale per logica politica non favorirà un cambiamento radicale che potrà condizionare negativamente i privilegi di cui gode.

Nonostante l’importanza e l’influenza di ogni membro della trama principale, non si può ignorare che Raul ha di gran lunga la chiave del governo.

In assenza di suo fratello è l’unico in grado di tenere la casa in ordine e quindi presumibilmente i suoi associati, più di ogni altro settore della società, lavoreranno per un processo di sistemazione lento e senza traumi che permetta l’emergere di nuovi leader coinvolti abbastanza con il passato. Non per avviare un processo di cambiamento che di cui si può conoscere l’inizio ma non la fine.

Nella memoria collettiva della nomenclatura castrista è presente il processo che ha portato all’estinzione dell’Unione Sovietica. In tal modo essa non è disposta a consentire l’affiorare di contraddizioni interne e conflitti tra poteri che mettano a rischio le loro sicurezze.

Tutti sono consapevoli del fatto che il modello ideologico e politico sul quale dicevano di governare è fallito, ma ugualmente hanno la piena consapevolezza che per far sopravvivere il regime è ancora necessario che un individuo, un solo individuo, come nell’epoca di Fidel, detenga il vero potere.

 

UNIVERSALI

Yoany Sancez

da: https://nuovacuba.wordpress.com

27 maggio 2013

Alcuni siedono alle nostre spalle e parlano francese, mentre nei seggi accanto due brasiliani si scambiano idee. Un poco oltre alcuni attivisti bielorussi dialogano con i colleghi spagnoli, anche loro ospiti dello Stoccolma Internet Forum (https://www.stockholminternetforum.se/). Un evento che dallo scorso 21 maggio ha riunito nella capitale svedese persone interessate a strumenti digitali, reti sociali e cyberspazio. Una vera e propria Torre di Babele dove comunichiamo con la lingua sincera della tecnologia. In questi giorni il villaggio globale e virtuale è racchiuso in una vecchia fabbrica in riva al mare. E in mezzo a una ridda di analisi e aneddoti, ci sono anche sei cubani  disposti a raccontare il loro lavoro di cyber attivisti.

Stoccolma è stata la tappa che ho maggiormente apprezzato del mio lungo viaggio, non perché nelle altre siano mancate le note positive e le manifestazioni di affetto, ma perché qui ho incontrato diversi colleghi provenienti da Cuba. Nella capitale svedese si sono dati appuntamento alcuni attivisti che nel nostro paese utilizzano le nuove tecnologie per raccontare o per tentare di cambiare la realtà. La giovane avvocata Laritza Diversent (https://jurisconsultocuba.wordpress.com/), il direttore di Estado de SATS (https://www.estadodesats.com/) Antonio Rodiles, l’acuta blogger Miriam Celaya (https://desdecuba.com/sin_evasion) e l’informatico Eliécer Ávila (https://twitter.com/eliecer_cuba). Inoltre, per un solo giorno, è stato dei nostri anche il reporter indipendente Roberto Guerra  (https://twitter.com/HablemosPress). Stoccolma mi ha ricordato molto da vicino Cuba, e non certo per il clima.

L’Internet Forum è stato un modo per sentirci cittadini del mondo, scambiare esperienze con chi vive situazioni diverse ma – di fatto – sorprendentemente simili. Basta parlare un momento con un altro invitato o ascoltare una conferenza per rendersi conto che in ogni parola pronunciata si trova l’eterna ricerca umana del sapere, dell’informazione… della libertà. Espressa in questa occasione tramite circuiti, computer e kilobytes. Siamo usciti da questo appuntamento con la sensazione di essere universali. Le tecnologie ci hanno reso persone capaci di andare oltre la nostra geografia e il nostro tempo.

Traduzione di Gordiano Lupi

Nota del traduttore: Yoani Sánchez si trova adesso a Varsavia, dove è stata ricevuta dal Ministro degli Esteri polacco. Nel suo spazio Twitter si legge del suo ritorno a Itaca (Cuba), previsto entro 72 ore: “Comincio a sentire l’odore dell’Avana, della mia famiglia e persino di non connessione a Internet. Torno a Cuba con la mentre piena di progetti e con le batterie cariche al massimo. Tra i miei sogni c’è quello di potenziare l’uso di Twitter tra gli attivisti cubani. Comincerò una nuova tappa della mia vita, dedita sempre più al giornalismo e all’insegnamento delle nuove tecnologie. La cosa che più amo nella vita è fare la giornalista e la madre di Teo”.

 

 

DIFFIDENZA

 

18 maggio 2013

di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

"L’errore sta tutto nel non fatto,

sta nella diffidenza che tentenna."

Ezra Pound. Canti Pisani

 

Diffidenza

 

La nostra amica O era per noi la infiltrata. Non ricordo nemmeno come l’avevamo conosciuta. Il nostro primo incontro è coperto dalla nebbia della dimenticanza. So solo che, a un certo punto della nostra storia lei era lì, tra di noi come una piccola pietra nell’impasto di un dolce. Lei era troppo scomoda e non del tutto amalgamata. Eravamo un gruppetto di ragazzi universitari che si trovava a discutere e a studiare assieme. Due cose strane in quegli anni in cui ormai prevaleva il forte individualismo del “si salvi chi può”. Da un certo punto di vista, se ci penso, siamo stati graziati. Ci vedevamo molto spesso e andavamo assieme alla Biblioteca Nazionale, un viaggio fatto tutto rigorosamente a piedi. Fortunatamente da casa nostra non era molto lontano e il sabato mattina sul presto ci catapultavamo in biblioteca per sfuggire al caldo. Il tutto poteva funzionare in questo modo, prendevamo un tema d’interesse: “postmodernismo e realismo magico”, “i poeti maledetti francesi” e ci buttavamo di capofitto a studiare. Ognuno si occupava di un argomento e dopo la giornata di studio era messo in comune. Avevamo una sconfinata curiosità. Gli indirizzi di studio erano diversi ma ci accomunava quella fame di sapere. Eravamo famelici e tra quelle mura si dovevano nascondere mille tesori che la censura e la scarsità di risorse per lo studio non ci facevano trovare facilmente. Era proprio questa nostra eccentricità poco tropicale a renderci attraenti. Da una parte eravamo affettivamente e intellettualmente molto legati e dall’altra eravamo spalancati verso l’esterno. Sembrava quasi che l’intero universo potesse stare dentro la nostra amicizia. Ogni volta che scoprivamo qualcosa di nuovo, tornavamo bambini che dicevano al mondo: “Guarda questo, che bello!” ma con O non ci era successo così.

O era comparsa… materializzata dal niente. Lei era parecchio più grande, un po’ bipolare e schizzata. D’altronde eravamo nel bel mezzo del Periodo Speciale e tutti eravamo leggermente impazziti. Chiunque nel mondo occidentale, con meno di quattro ore di elettricità giornaliera e nell’ipotesi migliore un pasto costituito da un pugno di riso bollito e una banana, finirebbe nel manicomio. Noi no, eravamo già abituati alle ristrettezze da anni, eravamo soltanto magri e schizzati.  Per O, tuttavia, il suo peccato originale era la sua storia, il suo lavoro, la sua famiglia e non quell’aria da femme fatale e i suoi scatti isterici. Non la sigaretta perenne tra le dita e quella criniera da leonessa da strapazzo. O lavorava in una “Corporación” e abitava dai suoi in un appartamentino carino nel Vedado. Aveva vissuto da ragazza per un periodo nell’ex-URSS e parlava alla perfezione il russo. I suoi genitori già pensionati avevano avuto degli incarichi governativi non meglio specificati. La colpa più ovvia che la incriminava ci è pervenuta dalle sue labbra, quando ci ha detto in modo innocente: – vi ricordate la lettera famosa* in cui il Che saluta Fidel dicendo “mi ricordo in quest’ora di molte cose, di quando ti ho conosciuto in casa di Maria Antonia, di quando mi hai proposto di venire…”, beh quella Maria Antonia che ha favorito l’incontro in Messico era mia zia. Quella era stata per noi la sua confessione e allo stesso tempo la sua condanna.

O era mirabolante a tratti e dire certe cose era il suo modo di rendersi interessante. Magari vaneggiare era la via che aveva trovato per sfuggire alla solitudine, che le restava attaccata con la stessa perseveranza di una cozza alle rocce. Noi invece, con la medesima insistenza durevole eravamo stati allevati alla diffidenza. Eravamo cresciuti indossando sin da subito la maschera nell’ambiente pubblico. Sussisteva dunque questo fenomeno allargato nella popolazione, una frattura sempre più larga tra quello che si pensa realmente e quello che poi si faceva e dichiarava nell’ambiente sociale. Là dove per forza di cose dovevi essere allineato, omologato e di un irreprensibile grigiore. La delazione era una realtà tangibile e più di uno era stato espulso dall’università per aver dimostrato una diversità di vedute politiche. Noi invece in quel caos disumano avevamo trovato un rarissimo spazio di libertà. La curiosità di O e la sua simpatia inspiegabile ci destavano il più intenso sospetto. Per noi dunque non era mai stata respinta del tutto, ma mai accolta. L’ambiguità di quel rapporto era dovuta alla convinzione impiantata nell’ipotalamo: lei era l’infiltrata, era la spia, l’inviata. Noi non avevamo niente da nascondere, ma il sentimento di conservazione era più forte dell’essere ragionevole. Cosa ci faceva poi lì, tra di noi lei che era così diversa, che c’era in fondo così estranea?

Il regime ci aveva buttati nella solitudine. Con questo presupposto ora capisco il suo interesse. Scoprire un gruppo di amici che si trovavano regolarmente per fare assieme qualcosa di utile, in modo spontaneo, senza un evidente tornaconto e per la passione del bello era (immagino) per gli occhi di chiunque il più desiderabile spettacolo.  Noi, tuttavia con O eravamo doppiamente chiusi. Chiusi nel preconcetto che non ci lasciava conoscerla e chiusi per la paura che quello che amavamo ci fosse strappato.

Chi era O? Beh, non ho mai saputo rispondere.

* Nota come la lettera di addio di Ernesto Guevara a Fidel Castro scritta all’Habana il 1° aprile 1965.

 

 

Fare l’amore all’Avana

I diari di Mina

da: https://unitalianainecuador.wordpress.com/

Pubblicato da unitalianainecuador in Cuban diaries ≈ 3 commenti

 

Cuba – Giugno 2009

 

La nostra nuova casa si trova nel “Reparto 10 de Octubre“, molto più centrale di Boyeros, e molto più urbano!

La nuova zona mi piace, è piena di case che tengono tutto il giorno le porte aperte perchè dentro vendono manghi, avocados, limoni, qualche volta addirittura uova! Questa è una delle molte cose illegali di Cuba, ma che in molti fanno perché almeno guadagnano un po’ di soldi offrendo un effettivo servizio alle persone e non rubando! C’è anche un mercato vicino a casa nostra e una TRD (Tienda Recaudadora di Divisa) comunemente chiamata da tutti “shopping” o negozio in Moneta Nazionale!

La vecchia proprietaria di casa di Boyeros non vedeva l’ora che ce ne andassimo! Lei comincerà ad affittare le stanze agli amanti che le pagheranno per notte! Il problema dello spazio all’Avana è cresciuto di anno in anno perchè sono sempre di più le case decadenti o instabili che crollano o diventano meno sicure, mentre le persone che continuano ad arrivare nella capitale sperando di poter vivere meglio che nei paesini aumentano in modo esponenziale!

Kikito (il suo vero nome è Enrique, ma tutti lo chiamano Kikito) un amico di Pedro, vive in una casa di 3 stanze con sua madre, suo padre, sua moglie Giselle, suo fratello, la moglie di suo fratello, i loro 2 figli, un cugino e consorte e una zia che è arrivata da Guantanamo (posto di cui sono tutti originari) per fare delle analisi all’Avana e poi non se n’è più andata, anzi, ha fatto arrivare anche il marito e il figlio minore! Di notte, Kikito e Giselle dormono in una stanza con il fratello e la sua famiglia. La madre e il padre dormono con i nipoti, e gli zii con il cugino e moglie, arrivata la sera, spostano il divano e il tavolo da dalla cucina, buttano i materassi per terra e ci dormono sopra!

All’Avana i Cubani arrivati dalla parte Orientale dell’Isola li chiamano “Palestinos” perché quando arrivano alla capitale cominciano a vivere come se fossero in un campo profughi!

In realtà Kikito, non vive neppure all’Avana, ma in un sobborgo “en las afueras” come si dice in gergo! Per questo per arrivare a lavoro alle 9 parte alle 5 da casa sua. Questo gli è valso la conquista di diritto del nomignolo “Kikito far far away”! Lui ci racconta che avere una vita sessule normale con sua moglie è impossibile, perché la casa è costantemente piena di persone giorno e notte! E quindi, così come fanno la maggioranza delle coppie avanere, hanno cominciato ad avere rapporti in giro per la città, in posti più o meno nascosti e più o meno precari! Per esempio nei portoni dei solares, sotto il muro del Malecòn, in posti semi-bui e semi-isolati.

Caamminando per l’Avana di notte si scorgono decine di coppie che cercano di ricostruire una loro intimità nel mezzo della città e a cielo aperto! Molte si riuniscono nel Paseo del Prado, la camminata che dal Malecòn porta al Parque Central, con  poltrone in marmo e, per ragioni di risparmio energetico, i lampioni  spenti per tutta la notte. La prima volta che ci sono passata mi sembrava di essere sul set di un film porno! C’era di tutto, da gay a coppie etero, giovani e adulti, e ognuno aveva trovato il proprio modo di riuscire a fare sesso senza scoprirsi troppo, e soprattutto, senza scoprire la faccia!

Quelli che possono permetterselo, affittano una stanza per qualche ora in una casa particular per 5 Cuc, quelli che non possono, devono arrangiarsi per strada. Anche questo fa parte della sopravvivenza in una città dove manca tutto, soprattutto lo spazio.

Questo contribuisce a rendere più attraente l’opportunità di stare con uno straniero, anche solo per poche notti. Gli stranieri alloggiano di solito in pulite e comode camere di ricche case particulares, che ovviamente includono un letto, lenzuola, un bagno, e molte volte una buona colazione. Spesso, scorgendo coppiette nascoste qua e là, mi sono chiesta: se fossi una giovane ragazza cubana preferirei uscire con un cubano della mia età che mi piace ma che mi porta a fare l’amore in posti nascosti, sudici e buii, o con uno straniero magari più vecchio, ma che almeno per qualche notte mi faccia sentire protetta e mi faccia stare bene?

 

 

 

 TRE PARAMETRI, UNA CASA

Da.  https://nuovacuba.wordpress.com

YOANI SANCHEZ.

 

 

18 maggio 2013

Mettere zeri a destra sembra essere diventato lo sport preferito di chi decide i prezzi delle case che oggi si vendono a Cuba. Un mercato chiuso, in fin dei conti, dove il compratore potrà trovare molte sorprese nella vasta gamma di offerte. Dai proprietari che chiedono per le loro abitazioni somme astronomiche che non hanno niente a che vedere con la reale domanda, fino a vere occasioni che dimostrano tutta l’ingenuità del venditore. Molti hanno fretta di vendere, altri dispongono del fiuto necessario per rendersi conto che è il momento di compare un’abitazione a Cuba. È una scommessa con il futuro, se va male perdono tutto o quasi tutto, ma se va bene conquistano in anticipo una posizione per il domani. I lenti si affrettano e i rapidi corrono alla velocità della luce. Sono tempi in cui bisogna andare di fretta, la fine di un’epoca può essere vicina… assicurano i più scaltri.

Sorprende vedere come, pur dotati di poche cognizioni immobiliari, i cubani si gettino nel commercio dei metri quadrati. Nella maggior parte dei casi descrivono i loro spazi residenziali con una tale sovrabbondanza di aggettivi capace di affascinare o di intimorire. Per questo motivo quando si legge “appartamento di una stanza in quartiere centrale dell’Avana con camera al piano intermedio” dovrà intendersi “stanza in condominio popolare di Centro Avana, con camera ricavata in un soppalco di legno”. Se si parla di giardino, meglio pensare a un appezzamento composto di terra e piante all’entrata, mentre nel caso di residenze con cinque stanze, basterà una visita per rendersi conto che si tratta di due camere divise con pareti di cartongesso. Gli annunci immobiliari cubani vanno letti con la stessa sfiducia con cui nei social network si guardano le foto di persone giovani e di bella presenza alla ricerca di un compagno. Tuttavia, si trovano anche vere perle in mezzo a tanta esagerazione.

In questo momento i parametri che determinano il costo finale di un appartamento sono almeno tre: ubicazione, stato costruttivo e pedigree. Il quartiere influisce molto sul costo finale dell’immobile. All’Avana, le zone più appetibili sono il Vedado, Miramar, Centro Avana, Víbora e Cerro, perché molto centrali. Le meno richieste sono Alamar, Coronela, Reparto Eléctrico, San Miguel del Padrón e La Lisa. La pessima situazione del trasporto pubblico in parte influisce sul fatto che la gente preferisca case situate vicino ai luoghi con maggiore offerta commerciale e abbondanti spazi ricreativi. Se c’è un mercato agricolo nelle vicinanze, la somma richiesta cresce; se il Malecón è poco distante, pure. Si evita la periferia, anche se tra i “nuovi ricchi” che hanno messo da parte un po’ di capitale – con metodi legali e illegali – comincia ad affiorare la moda di cercare una proprietà in campagna. Tuttavia, è ancora troppo presto per parlare di una tendenza ad allontanarsi verso zone più verdi e meno inquinate. Per il momento, l’obiettivo più diffuso è quello di cercare un appartamento il più centrale possibile.

Lo stato costruttivo, è un altro degli elementi decisivi per stabilire il costo di un appartamento. Se il tetto è composto di travi e tegole, le cifre sono più basse; mentre le costruzioni degli anni 40 e 50 del secolo scorso godono di ottima reputazione e appeal. Quelle di minor valore sono chiamate “opere di microbrigata”, si tratta di vecchi edifici di cemento e piccoli appartamenti stile Europa dell’Est. Se la copertura del tetto è leggera – tegole, zinco, legno, alluminio – obbliga il venditore a una richiesta inferiore. Lo stato del bagno e della cucina è un altro punto che influisce in maniera diretta sulle possibilità di commercializzare l’immobile. La qualità dei piani, se le finestre sono munite di inferriate e se la porta è nuova – di vetro o metallo – diventano altri punti a suo vantaggio. Se non ci sono vicini al piano superiore, il proprietario può chiedere una cifra più alta. Sono anche molto apprezzate le case munite di due ingressi, pensate per una famiglia numerosa, i cui componenti vogliono separarsi e acquistare indipendenza. Tutto conta, tutto vale.

Fin qui sembrerebbe un mercato immobiliare come qualunque altro in qualsiasi luogo del mondo. Nonostante tutto, c’è un particolare che definisce in maniera molto peculiare il valore delle case in vendita. Si tratta del pedigree. Questo termine indica se l’abitazione è appartenuta da sempre a una famiglia o se è stata confiscata durante una delle ondate di espropriazioni che si sono succedute a Cuba. Se il vecchio proprietario scappò nel 1994, durante la Crisi dei Balseros, e lo Stato assegnò la proprietà a una nuova persona, il prezzo dell’appartamento si riduce. Può capitare che la stessa situazione si sia verificata durante le fughe dal Porto di Mariel, nel 1980, momento in cui la proprietà venne concessa ad altri dopo l’emigrazione del precedente proprietario. Ma dove i prezzi toccano il fondo è nel caso degli immobili confiscati tra il 1959 e il 1963 durante le fughe in massa degli esiliati. Pochi vogliono correre il rischio di acquistare una casa che potrebbe essere oggetto di una futura lite giudiziaria. Anche se alcuni approfittano di questa situazione per comprare a prezzo di liquidazione vere e proprie residenze signorili nei quartieri più centrali.

Per riuscire a verificare l’ubicazione e lo stato costruttivo, come il passato legale della casa, i potenziali acquirenti si avvalgono della loro stessa esperienza, di un buon architetto e persino di un avvocato chiamato a indagare i dettagli della proprietà. Ogni elemento sarà utile a mettere o togliere una cifra, uno zero, un centinaio, al prezzo totale che sono disposti a pagare. In un mercato chiuso tutto è possibile. Malgrado ciò, in questo momento sembra quasi che le cognizioni immobiliari si siano risvegliate con incredibile forza dopo un lungo letargo

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

Yoani Sanchez in Italia.

         Una scusa per parlare di Cuba

 

Questo post per rendere onore a  chi non la pensa esattamente come me, le fonti che si citano nell'articolo e la deriva che ve ne viene sono indubbiamente fonti filo governative cubane anche se l'analisi comparata con il nostro paese è reale : Gianni Minà con la sua Latinoamerica, Eudardo Galeano, ed il famoso e discusso giornalista Salim Lamrani autore di una intervista a dir poco surreale fatta all'avana Yoani Sancez.

Pubblicato il

 

 · in Osservatorio America Latina ·

di Simone Scaffidi Lallaro

Ce l’ha fatta. È riuscita a uscire dal suo paese. Raul Castro ha aperto le frontiere e finalmente se n’è volata via. In meno di tre mesi è già atterrata in ben sette paesi tra Europa e America Latina: sono caduti uno dopo l’altro il Brasile, la Repubblica Ceca, la Svizzera, gli Stati Uniti, il Perù e la Spagna, ora è toccata all’Italia. Agli occhi del mondo occidentale Yoani Sanchez rappresenta indiscutibilmente l’eroina democratica di Cuba. La ragazza dalla faccia pulita ma anche sbattuta e smagrita (forse proprio a causa delle condizioni di povertà che il suo paese le impone) che lotta quotidianamente contro un regime considerato da lei e dalla maggioranza dei paesi occidentali una dittatura. La blogger in pochi anni ha conquistato l’etere grazie alla potenza di internet e a uno dei trend topic più celebrati dal mondo capitalista dominato dai mercati: se lavori, se lotti con tutte le tue forze per una giusta causa – o nel suo caso per il bene del tuo popolo –, beh.. allora puoi farti da solo, emergere dall’oblio e occupare un posto di prestigio nel ranking dei media mondiali. Lei, Yoani, la cubana dalla faccia pulita e dal dito inverosimilmente svelto, ce l’ha fatta.

Sembra che in Italia crediamo ancora a queste storie o per lo meno è quello che traspare leggendo le maggiori testate nazionali. L’occasione per rinnovare la fiducia nel sogno americano del self-made man ma al passo coi tempi (non a caso Yoani è una self-made-woman) è data dalla sua prima visita italiana correlata di partecipazione al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. Leonardo Mala non tarda a sfornarequesto articolo per La Repubblica, Anna Masera intavola questo pezzo per La Stampa e la redazione online del Corriere della Sera ci offre la sua opinione per dessert. Ingrediente del giorno è la contestazione rivolta a Yoani Sanchez da alcuni manifestanti poco prima del suo intervento al Festival. Le prime battute degli articoli sono sommarie, la parola filo-castristi rieccheggia minacciosa e non lascia scampo al lettore.

La realtà viene immediatamente semplificata e i suoi attori cristallizzati in buoni e cattivi, santi e mostri: da una parte Yoani (dalla faccia pulita) e la democrazia, dall’altra Castro (Fidel o Raul è indifferente) e la violazione dei diritti umani (assorbiti in toto dalla demonizzazione del partito unico cubano). 

Il risultato è netto, senza resti, contraddizioni o ripensamenti: se contesti o critichi Yoani sei automaticamente un nemico della democrazia e per di più vieni tacciato di «filo-castrismo» che tu lo voglia o meno. Il bianco e nero delle prese di posizioni senza sfumature giunge al culmine: Yoani «per il governo di Cuba è una mercenaria al soldo degli imperialisti americani» ma «per il mondo libero è il simbolo della lotta per i diritti umani»{{1}}. La barriera tra bene e male è eretta.

Mi chiedo dubbioso a quale mondo ci si stia riferendo. Mi domando poi perché quando si parla di diritti umani a Cuba si porti sempre ad esempio il carattere non-democratico del regime castrista e le limitazioni politiche che impone la presenza di un solo partito. Non vorrei essere frainteso, le critiche sono necessarie, ma per quale motivo si parla solamente di diritti umani negati e non di diritti umani garantiti? Forse perché non possiamo nemmeno immaginare e soprattutto tollerare che un paese povero e sottosviluppato possa darci lezioni di diritti umani. La convinzione diffusa che nulla a Cuba possa essere migliore rispetto al nostro mondo è una realtà più forte che mai. Ma se ci fermiamo un attimo ci accorgiamo che molti dei diritti che pensiamo essere scontati nel nostro paese – diritto alla casa, alla sanità e all’istruzione gratuita – sono in realtà privilegi di alcuni.

Il regime non-democratico cubano garantisce istruzione totalmente gratuita (compresa l’università) e assistenza sanitaria gratuita per tutta la vita ai cittadini del proprio paese. Chi ha viaggiato in America Latina sa che di bambini le strade sono piene e non giocano a pallone, ma vengono sfruttati per lavori di ogni genere o abbandonati al loro destino di senza fissa dimora. A Cuba gli stessi bambini che altrove vagano per le strade sono tutti a scuola e posseggono una casa, come chiunque altro.

La percentuale di donne e uomini che vivono nelle strade a Cuba è vertiginosamente inferiore a quella di qualsiasi città europea ed il confronto con altre realtà latinoamericane risulta imbarazzante. A Cuba nessuno muore di fame e la carne di porco o pollo la mangiano tutti i giorni (checché ne dica Yoani: «non riuscivo a vivere altrove. Ogni volta che mangiavo un piatto di carne pensavo alle privazioni dei miei concittadini, alla loro difficoltà di vivere che è la mia di ogni giorno. Io voglio essere utile al mio Paese e alla mia gente»{{2}}, il che – se si analizzano le motivazioni profonde che innalzano il consumo di carne e uova a Cuba – non è una cosa positiva in sé perché porta a una dieta squilibrata imposta dalle scarse risorse produttive dell’isola e soprattutto dal criminale embargo economico che viola e ignora qualsiasi supposto diritto umano.

Mi chiedo poi se Yoani, durante il suo recente viaggio in Brasile, ha vissuto le strade di Salvador de Bahia al calar della notte. Se ha visto l’esercito di fantasmi che vagano e dormono sull’asfalto, se ha provato sulla sua pelle l’insicurezza del cammino, la necessità di prendere precauzioni se si decide di condividere quel pezzo di cielo nero con loro. Un altro diritto tanto caro alle posizioni destrorse italiane e che a Cuba è ampiamente garantito è il diritto alla sicurezza. Trovarsi in una situazione di paura a L’Avana o Santiago de Cuba è davvero difficile mentre in una città come Rio de Janeiro a qualsiasi ora del giorno non è consentito distrarsi, né imboccare una strada secondaria poco illuminata, né passeggiare liberamente nel quartiere Centro dopo le sette di sera.

L’esercito di fantasmi della storia è lì ad aspettarti più incazzato e disperato che mai, pronto a riprendersi quel briciolo di giustizia sociale che quel mondo gli ha sempre negato e gli continua a negare. Per queste ragioni molti pensano che la società meno ingiusta di tutta l’America Latina sia quella cubana e per la stessa ragione molti guardano con grande sospetto all’eccitazione collettiva che segue la crescita esponenziale del PIL brasiliano. Tra questi, la maggioranza di coloro che mettono radicalmente in discussione un modello di sviluppo economico infinito e insostenibile, che è quello dominante.

Ma torniamo un momento in Italia. Sanità: è di pochi giorni fa la notizia che gli italiani a causa della crisi hanno ridotto drasticamente visite specialistiche e controlli medici. Molti non riescono più neppure a pagare il ticket per garantirsi le cure. Letteralmente esclusi dal sistema sanitario italiano sono costretti a rivolgersi a organizzazioni no-profit del calibro di Emergency. Istruzione: «Quest’anno a Bologna più di 300 bambini sono rimasti esclusi dalla scuola pubblica, che è un diritto costituzionale, per mancanza di posti e risorse. Saranno costretti a frequentare una scuola dell’infanzia privata, a pagarne la retta e a sottoscrivere un progetto educativo che non condividono (nel 99% dei casi confessionale). E l’anno prossimo quanti saranno gli esclusi dalla scuola pubblica?»{{3}} Ogni anno il Comune di Bologna versa un milione di euro nelle casse delle scuole d’infanzia private, denaro pubblico per garantire l’istruzione ai figli dei ricchi. Dove sono i diritti?

Quando si alza il tiro e la soglia di complessità si eleva il concetto semplificato di diritti umani assume forme diverse e meno retoriche mettendo radicalmente in crisi i confini del mondo libero di cui abbiamo la convinzione e l’orgoglio di far parte. Inutile ripararsi dietro sterili giustificazioni e nascondersi dietro la Crisi: «noi siamo i ricchi, loro i poveri. Noi chiudiamo gli asili, loro li costruiscono, noi li facciamo pagare, loro no, come cazzo è possibile?!»{{4}}. Noi ci vantiamo della nostra democrazia, loro hanno il partito unico. Eppure ci riescono lo stesso. Da noi la Crisi è cominciata nel 2008, da loro nel 1959. Dovrebbe essere più facile per noi. Perché non è così?

Fa sorridere poi l’infelice scelta del giornalista de La Repubblica che riporta le parole di Yoani Sanchez in riferimento a Raul Castro: «il suo è un peccato originale. Raul non è stato eletto, ha ereditato il potere per questioni di sangue, qualcosa di inimmaginabile nel terzo millennio»{{5}}. Esattamente, qualcosa di inimmaginabile, tanto meno in un mondo libero e democratico. Eppure. Eppure succede anche qui. Un anno e mezzo fa Mario Monti è diventato capo del governo italiano senza che nessuno, o meglio soltanto uno, lo avesse eletto. La successione non è stata democratica e si può in buona misura parlare anche qui di successione di sangue: sangue moderato e con globuli compiacenti Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale s’intende. Pochi giorni fa Enrico Letta è stato nominato nuovo capo del governo italiano, ancora una volta da quello stesso uno che aveva eletto Mario Monti, ancora senza libere elezioni, ancora non democraticamente.

I loro problemi sono i nostri. Possiamo fare finta di niente e non ammetterlo ma le contraddizioni di Cuba – se analizzate, ripensate e criticate – non fanno che radicalizzare le contraddizioni del nostro mondo. Quel mondo che ci ostiniamo a definire giusto, libero e democratico. Lo stesso che sta crollando pezzo dopo pezzo sotto i colpi dei mercati e che continua a nutrirsi di ingiustizia sociale. Quel mondo che Yoani Sanchez loscamente ma con la faccia pulita difende.
Davvero pensiamo che questo sia il meno peggiore dei mondi possibili? Abbiamo ancora il coraggio di crederlo? Siamo davvero così stolti?

Breve guida alla conoscenza di Yoani Sanchez

Il tour per il mondo di Yoani Sanchez di Eduardo Galeano

Chi c’è dietro Yoani Sanchez? (in spagnolo) (in italiano) di Salim Lamrani

Conversazione con la blogger cubana Yoani Sanchez (I parte) (II parte) di Salim Lamrani

La finta intervista a Obama: una delle tante “bufale” di Yoani Sánchez di Redazione Latinoamerica

E a proposito di diritti umani:

Se il Festival del giornalismo dimentica le violazioni Usa dei diritti umanidi Gianni Minà

[[1]] La Stampa, Yoani Sánchez in Italia “Ai figli va insegnato il Web”, 27/04/2013

[[2]] La Repubblica, Yoani Sanchez contestata a Perugia la platea fischia i filocastristi, 28/04/2013

[[3]] Comitato Art. 33, Il referendum

[[4]] Wu Ming 4, L’anomalia Cuba, luglio 2004

[[5]] La Repubblica, Yoani Sanchez contestata a Perugia la platea fischia i filocastristi

 

 

 

 

MIO PADRE E BERLINO

Da. https://nuovacuba.wordpress.com

Yoani Sancez

 

Dalla finestra odo il rumore di un treno che passa. A Berlino si sente sempre fischiare un treno da qualche parte. Mi affaccio e scorgo una realtà ben diversa da quella vista da mio padre in quel 1984 quando giunse per la prima volta in questa città. Macchinista di treni, si era guadagnato -grazie a ore volontarie e molto lavoro – un viaggio verso il futuro. Sì, perché a quel tempo la RDT rappresentava l’orizzonte che molti cubani un giorno o l’altro speravano di raggiungere. Per questo motivo a quel conducente di locomotive con le mani sporche di grasso, dettero anche un buono perché potesse comprare qualche vestito prima di andare in Europa. Gli toccò un completo giacca e pantaloni, oltre a una valigia enorme dentro la quale io e mia sorella giocavamo a nasconderci. Arrivò in Germania Est che era pieno inverno e restò soltanto due settimane per una visita guidata, il cui obiettivo principale era quello di dimostrare ai fortunati viaggiatori i vantaggi del modello socialista. Mio padre tornò a Cuba convinto.

In aeroporto, di ritorno, mostrava un sorriso luminoso e teneva un sacchetto in mano. Dentro c’erano un paio di scarpe per ognuna delle sue figlie, forse la cosa migliore ottenuta in quel viaggio. Inoltre c’erano i ricordi. Per anni ci ha raccontato il suo soggiorno nella RDT. Ogni volta aggiungeva nuovi dettagli, fino a trasformare quel viaggio quasi in una leggenda familiare da ascoltare ogni volta che ci riunivamo per festeggiare qualche ricorrenza. Al giorno d’oggi lo stupore di quel macchinista si riassume nel fatto che a Berlino aveva potuto sedersi in una caffetteria e chiedere qualcosa da bere senza fare una lunga coda, aveva comprato alcuni regali alle sue piccole senza mostrare una tessera del razionamento ed era riuscito a farsi una doccia calda nell’hotel dove alloggiava. Si era sorpreso per ogni piccola cosa.

Adesso sono io che mi trovo a Berlino. E sto pensando che mio padre non riconoscerebbe questa città, non ci ritroverebbe quel luogo visitato in un anno così orwelliano come indicato da quella data. Di quel muro che la divida in due resta soltanto un pezzo da museo dipinto da alcuni artisti; l’hotel dove alloggiò probabilmente è stato demolito e il nome della donna che fungeva da traduttrice e che lo sorvegliava – perché non scappasse a occidente – non  compare più sulla guida telefonica. Non esiste più neppure la valigia, le scarpe durarono solo un anno scolastico e le foto di colore arancione scattate in AlexanderPlatz sono state maneggiate così tante volte da non essere quasi più visibili. Tuttavia, sono sicura che quando tornerò a Cuba, mio padre cercherà di spiegarmi Berlino, dicendomi come entrò in una panetteria e come riuscì a mangiarsi una pasticcino senza presentare la tessera del razionamento. Sorriderò e gli darò ragione. Non è giusto distruggere dei sogni così a lungo accarezzati.

Traduzione di Gordiano Lupi

 

GORDIANO LUPI. TRE GIORNI CON YOANI

( Piccola premessa personale.
   Sinceramente non pensavo che Gordiano Lupi non avesse mai conosciuto Yoani Sancez de visu, tenuto conto della sua vasta opera di traduzione e di varie pubblicazioni da lui gestite per conto di Yoani.
Per esempio a me è stato facilissimo e semplice incontrarla, una telefonata a casa sua ed un appuntamento a casa nostra, un saluto cordiale, un bicchiere di aranciata ed un arrivederci.
La polizia politica devo dire è arrivata prima di lei ed è rimasta nei due giorni successivi a presidiare lo straniero che aveva contatti con l’estremista. Ma oltre a quello non ho avuto ulteriori grane, anche perché  non frequento questi ragazzi pur conoscendo per esempio Orlando Luis Pardo, sempre in modo semplice  e parecchio amichevole.
So da tanto tempo il problema di Gordiano legato alla sua professione e alla divulgazione e publicizzazione di personaggi come Yoani, ed è certo una durissima punizione non poter rientrare per adesso a Cuba. Chissà se il tempo gli darà ragione e potrà andare lui ad incontrare Yoani nella sua dimora da buon amico. )
Niki

3 maggio 2013

Yoani Sánchez sbarca in Italia. Finalmente. Dopo tanta attesa, la nostra piccola Godot tropicale arriva all’aeroporto di Fiumicino per cominciare una tre giorni italiana che parte in salita con un ritardo del volo Milano – Roma. Yoani proviene da La Coruña, ha partecipato a un evento sui diritti umani alla Isla del Pensamiento, luogo simbolico dove Franco rinchiudeva i prigionieri politici.

Non mi sento un cronista, d’altra parte è giusto così, perché non lo sono, nessuno mi ha insegnato a dare notizie in maniera impersonale. L’emozione di vedere Yoani dal vero è forte, dopo anni di condivisione telematica e di traduzioni en la distancia. Pierantonio Micciarelli, ottimo regista e grande amico del popolo cubano, autore del film Soy la otra Cuba, sembra un bambino in attesa del grande evento. Proprio come me. Proprio come mia moglie. Soltanto mia figlia Laura non comprende che stiamo vivendo la storia, forse con la esse minuscola, ma pur sempre storia. Yoani è come l’avevamo immaginata: solare, sorridente, lunghi capelli sciolti, abito primaverile, nonostante il clima fresco, persino piovigginoso. Abbracci, baci, strette di mano, non servono troppe parole per esprimere condivisione. Sentimenti reciproci. Sentimenti importanti. Cuba e il suo destino ci uniscono, siamo lontani anni luce da chi esalta Chávez e Maduro, Abel Prieto e Raúl Castro.

Il programma italiano di Yoani è intenso. Si comincia da Perugia. Il Festival del giornalismo sposta alle nove di sera la sua conferenza – intervista con Mario Calabresi, ma non può evitare la contestazione di un gruppo di deficienti, perché tali sono, non trovo parole migliori per definire i protagonisti di una gazzarra indegna. Lei non si scompone: “Un paese dove si può gridare che non esiste libertà di espressione è un paese dove esiste libertà di espressione”, afferma. “Vorrei che certe contestazioni potessero avere luogo anche a Cuba, mentre da noi non è concesso neppure aprire un giornale indipendente o partecipare a un dibattito televisivo”, continua. E finisce alla grande, trionfatrice del Festival del giornalismo, vedette capace di riempire la Sala de’ Notari fino all’inverosimile e di conquistare il cuore dei giovani. Yoani parla di social network, twitter, sms lanciati come grido di libertà, utopie imposte, voglia di cambiamento. “Raúl Castro è sulla strada giusta, ma le riforme devono essere più rapide e incisive. Non possiamo attendere oltre”, conclude. 

I cubani partecipano all’evento, questa è una bella novità, attendono che la blogger esca dalla sala, si fanno firmare le copie del mio libro, cosa che accadrà sempre. Sì, perché “Yoani Sánchez. In attesa della primavera” (Anordest Edizioni) è un mio libro che raccoglie vita e pensieri della blogger, ma nessuno mi chiede di autografarlo. Tutti vogliono lei. Come è giusto che sia. Non sono per niente invidioso. Collaboro al progetto di Yoani da quando è nato e continuerò a farlo.

A cena Yoani ci sorprende. Beve vino rosso (in buona quantità), per riscaldarsi, dice, ma solo quando è in Europa. Termina il pranzo bevendo tè, insolito per un cubano. Mi ricorda Cabrera Infante: “Il caffè è la bevanda dei selvaggi. Il tè dei popoli civilizzati”. Grande Cabrera Infante, un avanero diventato londinese. Yoani, invece, è cittadina del mondo. Ma Cuba le manca, soprattutto la famiglia lontana, il marito Reinaldo, il figlio Teo che cita in continuazione. “Che cubana strana! Vero? Beve vino rosso e tè…”, sorride.

Il giorno dopo facciamo un viaggio interminabile sulla mia vecchia Ford Escort. Ho pure la frizione un po’ scassata. Speriamo bene. Yoani prova a riposarsi, dormicchia con la benda nera sugli occhi, racconta di Cuba. Perugia – Torino sono quasi sei ore di auto, ma passano in fretta. Nella città della Mole, il sindaco Fassino riceve la blogger con tutti gli onori, quasi come un capo di Stato, parlando uno spagnolo forbito ed elegante. Un tipo in gamba Fassino. Per me guadagna parecchi punti. Prendiamo il caffè con la giunta comunale, mentre il sindaco racconta che trent’anni prima è stato a Cuba da Fidel Castro. Yoani visita La Stampa, il suo giornale italiano. Anna Masera l’accompagna in redazione e realizza un’intervista per la giornata dei diritti umani, anche se il direttore è assente e per le stanze del periodico aleggia la triste notizia del rapimento di Domenico Quirico. Serata di gala al Circolo dei Lettori. Si presenta ancora una volta il libro, Yoani firma copie su copie, riceve compatrioti, ha una buona parola per tutti. Non si risparmia. Qualche ora prima i giornalisti l’hanno massacrata d’interviste, ma lei non dà segni di stanchezza. Va persino a Linea Notte del TG3, saltando la cena, fa un figurone rispondendo a domande su Cuba senza esitare un istante, con precisione. Che forza. Che tempra…

Terzo giorno. È la volta di Monza. Visita al Cittadino, dopo un pranzo tipico a base di polenta, ossobuco, brasato e vino rosso, poco cubano, ma ugualmente gradito. Yoani mi lascia il compito ingrato di litigare con la stampa, non è colpa sua, deve riposare e terminare Signor Campidoglio, il post che ha iniziato nella mia auto, con il portatile in braccio. “Non ce la farei mai a fare la sua vita”, mi dico. “M’incazzo con L’Eco di Bergamo. Tu pensa dover subire un atto di ripudio”, penso. Rammento che poco prima, davanti a un bicchiere di vino rosso, Yoani ha detto una cosa importante: “La Rivoluzione Cubana è morta. Resta solo da stabilire quando. Reinaldo dice dal giorno in cui Fidel approvò l’invasione sovietica in Ungheria. Mia madre cita la fucilazione del generale Ochoa. Altri dicono che il colpo finale l’ha avuto con le fughe del Mariel. Mio padre indica la Primavera Nera del 2003, con gli arresti dei 75 dissidenti e la fucilazione di tre ragazzi dopo il sequestro di un rimorchiatore. Infine c’è chi la fa morire con la caduta del muro di Berlino e con l’inizio del Periodo Speciale. Una cosa è certa: la Rivoluzione è morta. Ha esaurito i suoi effetti propulsivi. È rimasto soltanto un regime dittatoriale”.

Mentre ripenso a quelle parole spiego ai giornalisti come ho conosciuto Yoani, cerco di trasmettere il mio entusiasmo per le cose che scrive, per uno stile letterario che è una sfida rendere in un buon italiano. Faccio la stessa cosa con il pubblico del Teatro Manzoni,  dove  la contestazione resta fuori, espressa con civiltà e rispetto delle altrui opinioni. Pure a Monza ci sono cubani, venuti a sostenere Yoani, ma non manca la figura dell’infiltrato che qualcuno ha spedito a gridare slogan sorpassati dalla storia. Yoani non si scompone, contrappone la logica dei diritti umani e della libertà, a parole urlate ed espressioni sopra le righe.

Sono le sette di sera quando ci saluta e parte alla volta di Ginevra per continuare il suo giro del mondo in ottanta giorni, lasciandoci tutti un po’ più soli, a meditare su parole e futuro. Il regista  Micciarelli completa l’operazione nostalgia, per noi che non possiamo rivedere Cuba, macchiati del peccato originale, amici di yankees e vendipatria che osano criticare la Rivoluzione. Le immagini languide, i piani sequenza sul lungomare dell’Avana e le note di vecchi boleri ci portano indietro negli anni. Eravamo più giovani e persino idealisti. Ci credevamo. Ma abbiamo strappato una tessera conservando il volto d’una ragazza. Addio Paradiso perduto. Voglio rivederti libero, prima che sia notte.

Gordiano Lupi, 3 maggio 2013

 

 

 

Cuba, quando il governo vede la notizia come un tradimento

 

YOANI SANCHEZ

Il fatto di avere una data per celebrare e rivendicare la libertà di stampa va benissimo, però bisogna sempre ricordare che ogni giorno dell’anno dobbiamo lottare per ottenere questo obiettivo. La situazione è molto complicata: non solo in Paesi come Cuba dove la libertà di espressione è seriamente compromessa, ma anche per i cittadini di altri Paesi che devono difendere le piccole porzioni di libertà informativa che hanno raggiunto. Credo che avvicinarsi a quelle nazioni dove la situazione è più difficile sia un modo per prendere coscienza e per tenere in debito conto i passi avanti fatti dalla libertà di espressione da parte dei Paesi dove ciò è avvenuto. 

La libertà d’informazione è importante perché solo un popolo informato, consapevole di ciò che gli accade intorno può trovare le soluzioni. Quando si indottrina una popolazione, la si circonda di silenzio e di censura, accade che tale popolazione smetta innanzitutto di credere a ciò che le raccontano, smetta di interessarsi alle questioni pubbliche e si trasformi in una popolazione apatica. Là dove vige un monopolio ideologico o economico sui mezzi di informazione il popolo è più facile da tenere sotto controllo.

La mia esperienza come giornalista e cittadina che vive in un Paese dove non esiste giornalismo che non sia governativo e ufficiale è molto difficile. Quando un governo vede l’informazione, la notizia, l’atto di narrare la realtà come un tradimento - il giornalista corre molti rischi. Nel caso di Cuba i rischi vanno dalla possibile incarcerazione, la sorveglianza, la diffamazione, all’impedire la libertà di movimento al giornalista. Quella che stiamo vivendo a Cuba noi giornalisti indipendenti è un’esperienza dura, ma è al contempo una grande palestra, una specie di università giornalistica «on the road». Io racconto quello che vedo da blogger, da «citizen journalist». Sono affamata e appassionata di informatica: nella mia vita la tecnologia è stata un trampolino verso la libertà. Quando mi contestano, rispondo che non si dovrebbe parlare di me. Leggete il mio blog e criticatelo se è falso. Questa è libertà. Noi siamo quello che vediamo e io vedo una realtà in evoluzione: il racconto non è complicità, così come l’informazione non è tradimento.

A Cuba è illegale avere un’antenna parabolica per la tv via satellite, ma a quelle che ci sono si collegano tante famiglie: la condivisione di qualsiasi cosa possa servire per la nostra sopravvivenza non solo fisica, ma anche intellettuale, per noi è la prassi. A Cuba non si può avere una connessione Internet a casa, salvo stranieri. Usiamo i social network come un Sos: sono un martello per abbattere il muro informativo, più difficile di quello di Berlino. Sono stati un’enorme protezione per me. A me piace soprattutto Twitter per come agevola la comunicazione essenziale e diretta.

Perché i cubani non si svegliano? Me lo chiedono in tanti. Perché c’è tanta paura: non solo paura dello stigma, ma di diventare una non persona. Io quando ho paura non è per me, ma per i miei cari. Se però mi lasciano parlare, non ho più paura.

 

 

CUBA E IL GIRO DEL MONDO DI YOANI SÁNCHEZ

Da: https://nuovacuba.wordpress.com

 

MAURIZIO STEFANINI (LIMES) –

3 maggio 2013

“Il mio giro del mondo in 80 giorni”: così Yoani Sánchez ha definito il tour internazionale compiuto dopo che Cuba ha varato una nuova “legge migratoria” che le ha permesso di ottenere un passaporto e la garanzia di poter tornare in patria.

 

L’Italia, con le soste a Perugia, Torino, Milano e Monza, è stata una delle ultime tappe, prima della Svizzera, dove la blogger era emigrata prima di decidere di rimpatriare, e della Germania.

L’arrivo nella penisola è stato accompagnato dall’uscita di un libro scritto a quattro mani con il suo traduttore italiano Gordiano Lupi dal titolo “In attesa della primavera“, dove la Sanchez rifiuta perfino l’etichetta di dissidente.

“Questa parola non ha niente a che vedere con quello che sto facendo. Il problema è che a Cuba non ci sono alternative. Se non sei del tutto favorevole alle misure governative ed esprimi critiche al sistema vieni etichettato come controrivoluzionario. In realtà sono una ragazza come tante che un giorno ha deciso di intraprendere un esorcismo personale. Scrivo in un blog ciò che non posso dire nella vita di tutti i giorni e per questo ho definito il mio lavoro come un esercizio di codardia. Siamo sempre di più a usare la blogosfera per esprimere opinioni. Non ho nessuna intenzione di darmi alla politica e di fondare un partito. Non ne sarei capace”.

“Per evitare beatificazioni e future crocifissioni, chiarisco che Generación Y è un esercizio personale di codardia. In un paese dove tanti si sono presentati come eroi, che spariscono quando ci sarebbe davvero bisogno di loro, dichiararsi pauroso in anticipo è qualcosa di troppo sincero per essere accettato”.

Yoani si definisce “una formica che cerca di smuovere zollette di zucchero e grandi pezzi di terra per cercare di demolire dal basso un muro fatto di censura, controllo e vigilanza”.

Durante il suo viaggio la Sanchez è stata contestata ripetutamente da simpatizzanti del regime castrista. Dalla prima tappa in Brasile fino all’Italia. “Sì, tranne a Miami. Ma si è trattato di proteste da parte di piccolo gruppi, le quali alla fine hanno rafforzato la mia posizione proiettando su di me più interesse e consensi. In Brasile, addirittura, sono stata invitata davanti al Senato per ricevere le scuse a nome dell’intera nazione”.

Qual è il bilancio di questo viaggio? “Molto positivo. Temo che tornata a Cuba non mi facciano più uscire, ma per me è stato importante soprattutto aver incontrato tantissimi cubani. In tutti i paesi in cui sono stata ho trovato miei compatrioti che conservano le loro tradizioni, la loro cultura. È una vera e propria Cuba fuori da Cuba. Sia i cubani all’estero che quelli in patria stanno finalmente cambiando. Ed è questo loro cambiamento che potrebbe aiutare a cambiare il paese in futuro”.

Timori a parte, questa esperienza è stata possibile grazie alla nuova legge migratoria. Non sarebbe giusto riconoscere che con le riforme di Raúl Castro è in corso a Cuba un’evoluzione positiva? Oppure ritieni che questi provvedimenti siano fasulli? “Le riforme vanno nel senso giusto, ma sono lentissime. Perché producano effetti importanti dovrebbero essere velocizzate, altrimenti rischiano di essere solo delle briciole.

In realtà, Cuba sta cambiando a un ritmo più veloce delle riforme, ma non grazie al governo. Il paese sta cambiando perché i suoi cittadini stanno cambiando. Sono meno apatici, sempre più interessati e pronti a lottare. Cominciano a progettare e a chiedere diritti. Io spero nel cambiamento non tanto per quello che sta facendo il governo, ma per ciò che sta avvenendo alla base. E, come ho detto, anche i compatrioti all’estero si stanno svegliando, saranno la forza della Cuba del futuro.

Se si mettono assieme, i cubani all’estero e quelli sull’isola potranno fare qualcosa per cambiare”.

 

Maurizio Stefanini, giornalista professionista e saggista.

 

 

 

YOANI SÁNCHEZ. SIGNOR CAMPIDOGLIO

 

2 maggio 2013

Il nuovo post di Yoani. Ne sono un po’ orgoglioso. L’ha scritto nella mia auto con il portatile…

Buona notte

 

Gordiano Lupi

 

Il Campidoglio dell’Avana (https://es.wikipedia.org/wiki/Capitolio_de_La_Habana) comincia a uscire dal suo lungo castigo. Come un bambino in punizione, ha atteso 54 anni prima di tornare a essere la sede del parlamento cubano. Ne ha viste di tutti i colori, è stato museo di scienze naturali con animali imbalsamati – pieni di tarme – e in uno dei suoi corridoi è stato aperto il primo Internet Point della capitale cubana. Mentre i turisti fotografavano l’imponente simbolo della Repubblica, migliaia di pipistrelli pendevano dai tetti altissimi e ben decorati. Sonnecchiavano a testa in giù durante il giorno, ma di notte svolazzavano e lasciavano escrementi su pareti e cornici. Si sono accumulati in quel posto per decenni, tra l’indifferenza degli impiegati e le risatine degli adolescenti che indicando i residui dicevano: “Guarda quanta merda!”. Questo è l’edificio che conosco sin da bambina, caduto in disgrazia, ma ancora imponente.

I visitatori restano sempre affascinati dalla storia del diamante che indica il punto zero della rete stradale nazionale, un racconto permeato di maledizione e cupidigia. Gli stessi viaggiatori guardano il colosso neoclassico e confermano ciò che tutti sappiamo, ma nessuno osa dire a voce alta: “Assomiglia moltissimo al Campidoglio di Washington (https://es.wikipedia.org/wiki/Capitolio_de_los_Estados_Unidos)”. È colpa anche di questa similitudine se il nostro insigne edificio ha sofferto un lungo anonimato politico. Ricorda troppo l’altro, ingombrante primo fratello di una costruzione simbolo del nemico. Ma visto che i simboli architettonici di una città non vengono decisi per decreto, la sua cupola ha continuato a rappresentare il volto avanero, insieme al Malecón (https://es.wikipedia.org/wiki/Malec%C3%B3n_habanero) e al Morro (https://es.wikipedia.org/wiki/Castillo_de_los_Tres_Reyes_Magos_del_Morro), imponente costruzione all’ingresso della baia. Per chi proviene dalla provincia, la foto davanti all’ampia scalinata di questo grande palazzo, è un passaggio obbligato. La cupola del Campidoglio fa bella mostra di sé in pitture, foto, oggetti d’artigianato, e in tutti quei souvenir che di solito si acquistano per poter dire: sono stato all’Avana. Insistevano a togliergli importanza, ma lui diventava sempre più protagonista. Veniva stigmatizzato, ma la sua bellezza decadente diventava sempre più affascinante. Pure per questi motivi nei decenni successivi alla sua costruzione – fino al giorno d’oggi – non esiste altro edificio cubano che possa definirsi più sfarzoso.

Adesso, l’Assemblea nazionale del Potere Popolare comincerà a riunirsi proprio dove una volta si radunava quel Congresso della Repubblica di Cuba, che gode di pessima fama nella storiografia ufficiale. Mi immagino i nostri parlamentari, seduti in emicicli composti di sedie decorate, circondati da finestroni di aspetto regale e riparati da tetti finemente decorati. Me li figuro intenti ad alzare le mani per approvare leggi all’unanimità o a maggioranza schiacciante. Silenziosi, docili, con idee politiche uniformi, desiderosi soltanto di non contrastare il vero potere. Davvero non so che cosa pensare. Potrebbe trattarsi di una nuova umiliazione – il castigo più elaborato – tenuto in serbo per il Campidoglio dell’Avana. Ma potrebbe anche essere la sua vittoria, quel trionfo a lungo accarezzato, atteso da oltre mezzo secolo.

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

Yoani Sánchez,                               la generazione Y sta cambiando Cuba

Yoani_Sanchez_2

di Luca Mastrantonio

La primavera? Non è una stagione, ma il sapore dolce dell’aria, libera. Se la sta gustando Yoani Sánchez, la più celebre dissidente cubana, tornata a girare liberamente fuori dall’isola dopo le aperture del regime di Raul Castro sui viaggi all’estero. Domenica scorsa la blogger è stata a Perugia, al Festival internazionale del giornalismo, per presentare con Mario Calabresi direttore della Stampa il libro Yoani Sánchez in attesa della primavera (Anordest editore) scritto da Gordiano Lupi, uno dei tradutori che la aiutano a mettere online i testi oscurati dal governo cubano (usa dei server esteri, tanto che lei è una blogger cieca, non potendo vedere quello che scrive). Il blog è Generación Y, ossia la generazione di giovani nati negli anni 70 e 80 che ha nomi che cominciano o contengono una “y greca”: Yanisleidi, Yoandri, Yusimí, Yuniesky.

A solferino28anni, alla vigilia dell’incontro in cui è stata contestata da un gruppo di filo-castristi, Sánchez ha raccontato la felicità di muoversi liberamente, la nostalgia per una Cuba futura, la voglia di una primavera per la sua generazione che, nonostante le apatie e le disillusioni, sta cambiando se stessa e dunque Cuba. E’ partita dai profumi del Brasile, simile alla sua Cuba, per poi passare alla vecchia Europa, consegnarsi al clima rigido di Praga, la Svizzera che  già conosceva, e tornare al caldo tropicale di Miami, dove ha incontrato  una Cuba “protetta e conservata fuori da Cuba da milioni di esiliati”. E poi il Perù, la Spagna, adesso l’Italia, ancora la Svizzera, ma, confessa, “ho sempre avuto  Cuba, la mia Cuba lontana, nel cuore” (foto da iljournal.it).

 

Qual è stata la sensazione più bella che hai provato?

Assaporare la libertà, rendermi conto che in ogni luogo dove sono stata non avevo la polizia alle calcagna, che nessuno mi avrebbe chiesto di mostrare i documenti, che non mi avrebbero mai domandato il motivo per cui mi trovavo  in quel posto. Ecco, questa è stata una scoperta straordinaria: sentirmi libera. A Cuba provo a comportarmi da libera cittadina, ma devo sopportare tutte le conseguenze negative. Quel che mi manca è tornare a Cuba, ma lo farò presto, perchè la mia vita non è altrove (al contrario di quel che afferma Kundera) ma in un altra Cuba.

Sta cambiando qualcosa per la generazione Y?

La generazione Y sta cambiando Cuba, non il contrario. Le riforme di Raul Castro sono briciole. Quel che sta cambiando è l’atteggiamento dei cubani, che si stanno togliendo la maschera dell’apatia e dell’indifferenza per chiedere a gran voce un cambiamento sociale ed economico.

Come sono i giovani cubani di oggi?

I giovani cubani è un concetto astratto, una generalizzazione che non mi appartiene. I giovani sono giovani a ogni latitudine, non solo a Cuba. I giovani cubani non sono un’entità monocolore e uniforme come pretenderebbe  il governo. Ci sono giovani comunisti che sostengono il regime, ci sono giovani contestatari, ci sono giovani apatici che pensano solo alla fuga, ci  sono giovani rapper e rockettari… La speranza è che un numero sempre maggiore di giovani prenda coscienza che il cambiamento di Cuba è nelle loro mani, quindi che abbandonino il sogno della fuga per restare in una terra che senza il loro apporto non ha futuro.

C’è un conflitto generazionale a Cuba? In che settori?

La mia generazione è apatica, non crede all’utopia del passato, che ha fallito il suo scopo. I giovanissimi sono ancora più indifferenti alla politica, sono cresciuti con l’idea che “occuparsi di politica” procura guai. A parte questo, vale il discorso che ho fatto prima. Non tutti sono uguali. Ci sono giovani brillanti che formano gruppi rapper (Eskuadron Patriota), punk (Porno para Ricardo), poetici (Omni Zona Franca)…

Nei paesi arabi ci sono stati cambiamenti radicali della società. Come li giudichi?

Non giudico esperienze lontane dalla mia realtà che ho potuto seguire solo  marginalmente. Apprezzo il fatto che grazie a Internet – fattore di libertà e democrazia senza pari – qualcosa di nuovo è accaduto nel mondo, dei giovani si sono potuti dare appuntamento in una piazza per manifestare dissenso. A Cuba, invece, stiamo ancora attendendo la nostra primavera.

Ci sarà mai una primavera cubana? O sudamericana?

Cuba è una cosa, il sudamerica è altro. In Venezuela e in Cile siamo in una  situazione democratica, dove chi governa viene deciso da libere elezioni e non con un plebiscito. Le proteste di piazza – in forma civile e non violenta – e la libertà di sciopero sono garantite. A Cuba non esiste nessun tipo di libertà, nè di stampa, nè di associazione. Una primavera cubana è auspicabile, ma già le Damas de Blanco stanno facendo molto…

Pensi mai alla morte di Fidel? Cambierà qualcosa oppure no?

C’è stato un periodo in cui pensavo che la morte di Fidel avrebbe contribuito a cambiare le cose. Adesso non ci penso più di tanto. Fidel fa parte del passato. Io penso al futuro. Certo, una volta scomparsa la sua pesante ombra verdeoliva su di noi, ci sentiremo tutti più liberi.

Il Venezuela chavista voleva diventare un nuova Cuba; ora che Chavez non c’è più credi che il processo di

cubanizzazione si fermerà?

No, se resterà Maduro, che ha studiato da Chavez e dai fratelli Castro il modello cubano. Per il momento è stato confermato al potere da libere elezioni, anche se Capriles ha impugnato il verdetto chiedendo un riconteggio dei voti. La situazione è in pieno sviluppo, ma resta il fatto che quella nazione è divisa in due e non è più il Venezuela monocolore dei  tempi di Chavez. Tutto questo potrebbe agevolare un cambiamento politico da parte di Raul Castro, magari la fine dell’embargo statunitense e una ripresa  dei rapporti con il vicino nordamericano.

Come immagini il futuro di Cuba?

Immagino una Cuba libera, democratica e pluralista. Non dobbiamo copiare altri modelli, ma costruire il nostro sistema. Il mio ruolo in questa società del futuro sarà quello di giornalista, la cosa che so fare meglio, per stimolare il cambiamento e raccontare le cose che non vanno. Ci sarà sempre bisogno di uno spirito critico.

 

 

ALEJANDRO ARMENGOL.                    L’ETÀ E IL LEADER

 

27 aprile 2013

traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

 Alejandro Armengol. CUBAENCUENTRO

 

Nel raccontare il suo tour dell’Unione Sovietica e dei paesi socialisti nel 1957, García Márquez ha scritto: “Non aveva età. Quando morì, aveva più di settanta anni, aveva la testa bianca e cominciavano a rivelarsi i sintomi del suo esaurimento fisico. Nella fantasia del popolo Stalin, tuttavia aveva l’età dei suoi ritratti. Loro avevano imposto una presenza senza tempo, anche nei villaggi remoti della tundra “*. Fidel Castro ha perso questo privilegio.

Negli ultimi anni i cubani hanno assistito a una situazione anomala: manifesti e murales continuano a mostrare un’immagine potente di un leader che per decenni li aveva guidati, mentre occasionalmente compaiono foto e video di un vecchio debole e vacillante, che per restare in piedi ha sempre bisogno del supporto di un giovane assistente – più un sostegno che una guardia del corpo.

Nel tentativo di ottenere il cibo quotidiano, rimane poco tempo per fermarsi a pensare per un momento al contrasto tra quella figura deteriorata e il fratello minore – una differenza di pochi anni ha fatto una differenza enorme – il quale è riuscito a invecchiare in modo lento e sembrare di essere in condizioni fisiche e mentali ottime. La malattia ha fatto a Fidel Castro una delle peggiori manovre che avrebbe potuto immaginare: non l’ha ucciso, semplicemente si è intrattenuta nel distruggerlo abbastanza da farlo diventare un residuo di un’altra epoca.

Se il leader è riuscito a superarsi abbastanza per non nascondersi completamente dalla vista del pubblico, è per la sua dipendenza dalla vita e per un residuo di vanità che lo costringe a ricordarci ogni tanto che è ancora vivo. In parte a causa di un interesse a preservare l’illusione rimane la guida di un sistema che ogni giorno trascorso assomiglia di meno a quello che era. In parte, per un aggrapparsi non solo al passato, ma al presente: esiste, non tutto è perduto. Il resto è l’attesa inevitabile della morte.

È vero che quest’attesa è anche una sua piccola vittoria. Ogni volta che qualcuno muore intorno a lui (l’ultimo è stato Alfredo Guevara**), si pone la domanda o il lamento per la sua permanenza.

Questa permanenza, tuttavia, si definisce di più da quei manifesti – danneggiati in molte occasioni e a volte restaurati – dove prevale il ricordo. Se la sua definizione maggiore rimane intatta, quell’aggrapparsi al potere che l’ha caratterizzato per decenni, è viva grazie al fratello. Senza di lui, il quale molte volte relegò da un lato e altre disprezzò, ma mai abbastanza per rimuoverlo dal suo fianco, non sarebbe più che un oggetto di studio, di repulsione o ammirazione.

Raul Castro è diventato il potere che preserva il regime introdotto il primo di gennaio, e quindi  è custode del suo vecchio fratello.

Questa dicotomia schizofrenica, comunque, tra l’onnipotente capo che era Fidel Castro, e il vecchio il cui più grande successo di quest’anno è stato l’aperta una scuola, non nasconde una realtà: l’unico vero atto resta da scontare, da osservare in tutto la mondo è la famosa notizia mille volte annunciata. Un funerale in pompa magna: una rivoluzione già morta, che alla fine sarà definita in una cerimonia funebre. Il cerchio si chiude, dall’ideologia allo spettacolo.

Decostruire Castro

Da qualche tempo Fidel Castro si sta decostruendo. Negli ultimi anni abbiamo visto – con rassegnazione o entusiasmo – a questo processo in cui una figura leggendaria si fu gradualmente spogliando dal mito, un eterno guerrigliero diventato un nonno familiare, quasi indifeso, un uomo politico abile perso in frasi quasi incoerenti. Ma attenzione, nulla di ciò che fa questa figura che per tanti anni ha causato paure, speranze e odi è spontaneo o libero. Nemmeno adesso, quando siamo testimoni del suo declino.

 

Castro non si è ritirato, ma è stato lasciato fuori. Egli sa che il suo parere conta ancora e che non si può negare la sua influenza, ma gli anni hanno dimostrato che la sua partenza in un primo momento non significherà una catastrofe per il mantenimento della classe dirigente, bensì la fine di un’era. Un finale più per nostalgia che per la conservazione, per ora, del governo che ha istituito e che sopravviverà. Sarà così se non muore prima il vero sostegno del sistema, suo fratello.

Siamo stati spettatori o complici di quest’uscita di scena, che può durare ancora per un certo tempo o improvvisamente essere interrotta.

Da anni egli lo sa, e ha preso una decisione al riguardo. Tra il potere e la vita ha deciso per la seconda. Ha scelto di resistere e si è aggrappato a essa, al prezzo di sacrificare tutto o quasi tutto.

Per un po’ è tornato alle sue origini, non mediante il ricordo, ma attraverso la narrazione del ricordo. Quell’Alessandro, che ha inseguito con un nome ripetuto in documenti e nei figli, finché ha assunto il non essere niente di più di questo: un nome, appena un ideale, ma mai un modello, mai uno stile di vita. Morire giovane non è mai entrato nei suoi piani. Nemmeno abbandonare completamente il potere, anche se ha solo le forze per l’inaugurazione mediocre di una scuola insignificante in un comune.

Così la storia va bene per il ricordo giornaliero, in un giornale in cui la cronaca quotidiana è un travisamento o una menzogna, mentre non si abbandona lo spazio dedicato a quello che era.

Fidel Castro è stato in grado di adattarsi a qualsiasi circostanza. Se il prezzo è troppo alto, non occorre pagarlo. Alessandro Magno va bene per i libri di storia. Che ci crediate o no, la sua capacità in questo senso è molto limitata. La vita vale ancora la pena, nonostante l’umiliazione della malattia, l’oltraggio dell’età e le delusioni del corpo. C’è solo bisogno di adattarsi alle circostanze, adattarsi ai tempi, per salvare ciò che può ancora essere salvato.

Quello che vale la pena di essere salvato si riassume in aspetti molto specifici. Prima, la continuità del processo. Salvarla non per una fede assurda nel futuro ma per un’utilità pratica. Contribuire a questa continuità è stato il suo compito principale da quando si è ammalato: dimostrare che lui è vivo e che è ancora lì.

Per un certo periodo si è rifuggiato nella scrittura, nell’idea che la sua presenza era necessaria per far sì che tutto rimanesse uguale o per quello che cambiasse non influisse sulla permanenza del suo mandato delegato al fratello. Un mandato che poteva prescindere dall’interferire in tutti gli aspetti della vita quotidiana dei cubani, ma che ancora non riusciva a rinunciare alla sua presenza. Il suo ultimo atto pubblico di reale importanza è stato la sua partecipazione a quest’ultimo periodo dell’Assemblea Nazionale del Potere Popolare. Dove all’apparenza è stata decisa la successione al di là della sua famiglia e dei suoi più stretti seguaci. Gli “storici” che sono stati anche gradualmente messi da parte, tranne che i principali comandanti militari che rimangono il pilastro dell’attuale stabilità.

Il secondo è stato un processo di simboli, d’immagini che sono state sfruttate appieno per decine di anni. La popolazione è stata preparata per accettare questo nuovo ruolo: da guerrigliero a vecchio saggio, da statista a consigliere, da invulnerabile a fragile. C’è voluto un po’, e questo è ciò che è stato sapientemente costruito dal regime dell’Avana: senza soprassalti, ma senza svegliare chi sogna a occhi aperti. I continui riferimenti all’età, circa i troppi sforzi fisici di una volta, che in modo inesorabile ora ha dovuto scontare chi sembrava invincibile. Rimanendo, tuttavia, un sopravvissuto come ai vecchi tempi della guerriglia. Ma soprattutto, si è imposto il non dare luogo alla possibilità della sconfitta. Non è un destino stoico, un’uscita eroica o una immolazione. Come simbolo di devozione per l’ideale rivoluzionario basta il Che. Non importa se sono i suoi resti o meno quelli sepolti in Santa Clara. Basta che nell’isola ci sia il tesoro della sua immagine. Tutto il resto è secondario.

(…)

Mai un nemico teoricamente debole ha vinto così tanto con così poco. È stato in grado di intrattenere annoiando. Quando venne a sapere che quel lavoro non era più necessario, si è fermato. Non ha mai avuto una vera vocazione di scrittore.

Dopo la sua malattia e guarigione, la battaglia ha cambiato direzione: non era d’idee, ma d’immagini.

Giocare l’asso del passato ha definito per molti anni l’unica strategia visibile dell’esilio. Da questo punto di vista, s’intende l’incapacità di capire cosa sta succedendo a Cuba. Il famoso slogan “No Castro, no problem”, ha dimostrato di essere molto più di un adesivo appariscente di mettere sulla propria auto.

La vera questione, allora, alla quale quotidianamente si sfuggiva a Miami, era semplice: com’è possibile che ancora quella figura fragile garantisca la permanenza di un regime? La risposta difficile inizia con il riconoscere, che qualcosa di più di un leader in declino ha avuto un ruolo nella sopravvivenza di un sistema. La cosa importante non è solamente risolvere questa questione ma ancora di più importante è un’altra: E adesso? Nell’esilio, dove era davvero poco quello che si poteva fare, ma peggio ancora ci si nascondeva dietro questa scusa per non fare nulla, tutto si limitava a commentari d’occasione, senza provare almeno la possibilità di una risposta diversa, una nuova strategia.

Ora la realtà è che Miami e Cuba, sono entrate in una fase in cui la geografia, più che la politica comincia a definire lo scenario, un terreno diffuso in cui i nuovi immigrati che arrivano ogni giorno lavorano per poter il più rapidamente possibile tornare all’isola e mantenere chi  vi è rimasto. Non si tratta di essere contro i viaggi e le rimesse, ma di riconoscere una situazione imposta dall’Avana.

Nel frattempo, i cubani si sono abituati anche a questa dualità d’immagini che sono il riflesso di una transizione pianificata dalla Piazza della Rivoluzione: guerrigliero eroico nei manifesti e un vecchio da applaudire e venerare due o tre volte l’anno. Non importano molto apparizioni o manifesti: entrambi hanno servito al loro scopo.

 

* García Márquez, G., “90 días en la Cortina de Hierro. IX. En el Mausoleo de la plaza Roja Stalin duerme sin remordimientos”, Cromos, 2, 206, 21 Septiembre 1959

** Alfredo Guevara intellettuale cubano filo governativo morto di recente ultra ottantenne.

 

Attendendo Yoani

 

 

Conosco virtualmente Yoani Sánchez circa cinque anni fa, grazie a una mia amica cubana, Andria Medina, che vive in Italia e quando scrive come blogger si fa chiamare Gaviota. Un giorno mi passa un link di un sito sconosciuto: Generación Y e mi invita a leggere un post intitolato Le due Avana, scritto da una certa Yoani Sánchez. Scocca subito la scintilla, perché mi rendo conto di trovarmi di fronte una cubana coraggiosa, per niente apatica e conformista, che dice le stesse cose che ho sempre pensato durante i miei viaggi e le lunghe permanenze a Cuba. In un primo momento mi sembra impossibile che a scrivere su quel blog sia davvero una cubana. Nutro il ragionevole dubbio che ci sia qualcosa sotto, un nickname, un’agente governativo, un trucco del castrismo. Potenza della propaganda! Non riesco ad accettare che a Cuba qualcuno abbia il coraggio di raccontare la vita quotidiana del presunto paradiso tropicale (dal quale tutti vogliono scappare!), rifuggendo da vieti luoghi comuni. Nonostante tutto comincio tradurla, con passione, per un sito Internet italiano: www.tellusfolio.it, una rivista telematica della Valtellina, trascurando i miei piccoli libri, dedicandomi anima e corpo a quei racconti che mi ricordano da vicino la mia Cuba, soprattutto L’Avana povera che conosco troppo bene, una città che non profuma di Chanel numero 5 e di formaggio parmigiano, ma di fogna e disperazione. Proprio per questo mi è cara. E lotto per lei, perché le cose un giorno possano cambiare. Mi dico che tradurre Yoani Sánchez e altri autori della comunità blogger, come Orlando Luis Pardo Lazo, ma anche Heberto Padilla, Virgilio Piñera, Felix Luis Viera, Guillermo Cabrera Infante, è il solo modo possibile per fare la mia parte nella costruzione di una Cuba libera. Yoani Sánchez un giorno mi scrive una lettera, con semplicità, per chiedermi di collaborare traducendo il blog, curando la versione italiana. Per me è un sogno che si avvera e che Mario Calabresi rende ancora più concreto, chiamandomi a gestire il blog sul sito Internet de La Stampa. Contribuire a diffondere il vero volto di Cuba è il compito che mi sono prefissato e che continuo a fare con la collaborazione del mio amico Massimo Campaniello, ideatore della rivista digitale Nuova Cuba (https://nuovacuba.wordpress.com/).

E adesso sono qui, in attesa di conoscere Yoani, dopo quasi sei anni che collaboro con lei en la distancia, condividendo le sue idee parola dopo parola, traducendola ogni giorno, al punto da essere in grado di sapere come risponderebbe a una domanda insidiosa. Non avrei la sua diplomazia, questo è certo. Neppure il suo carisma. A ognuno il suo ruolo, come dicevano i latini. Yoani viene letta regolarmente in tutto il mondo, mentre a Cuba il suo sito risulta oscurato. E poi anche se non lo fosse sarebbe impossibile per i cubani seguire i suoi post, perché la connessione domestica non è consentita, a meno che non si faccia parte dell’apparato - vedi Silvio Rodriguez - e un’ora di connessione da un Internet Point costa 10 dollari. Una somma ingente per un cubano. In ogni caso il gruppo dei blogger diffonde il suo pensiero tramite CD, chiavette USB, pagine stampate. Yoani è sempre più conosciuta, anche per merito della stampa e della televisione cubana che la cita in senso negativo per definirla mercenaria.

 

In Italia mi onoro di aver contribuito non poco a farla conoscere anche grazie a La Stampa di Mario Calabresi, sensibile sin da subito nei confronti di una voce libera. È impossibile tornare da Cuba e non conservare un senso di profonda tristezza e di delusione di fronte alla scoperta di quel che poteva essere e non è stato. A Cuba c’è un capitalismo di Stato che mantiene l’economia saldamente nelle sue mani e al popolo toccano le briciole. Il doppio sistema monetario mette in ginocchio la popolazione che vive in abitazioni cadenti, fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, deve scegliere tra il mangiare e il vestire decentemente. Il solo modo di sopravvivere è il furto nei confronti dello Stato, il mercato nero e il sottobosco illecito legato al turismo (prostituzione, vendita prodotti contraffatti, affitti di case illegali, taxi in nero…).

Yoani lo sa e lo scrive ogni giorno, per ricordare al mondo che le cose non stanno come dice la propaganda. Non è sola nella sua lotta. Ho conosciuto José Conrado, parroco di Santiago, uno dei firmatari della lettera al Congresso statunitense dove si chiede una limitazione dell’embargo e la sua progressiva scomparsa, ma anche riduzione delle limitazioni di viaggio verso Cuba per i cittadini nordamericani. Pure Yoani Sánchez e Reinaldo Escobar sono tra i firmatari, perché sono consapevoli che la fine dell’embargo voglia dire fine delle scuse per il governo cubano e dimostrazione di una totale inefficienza. L’embargo non toglie ossigeno al potere ma lo toglie al popolo, quindi è giusto che finisca, perché sarebbe la prima mossa per favorire il cambiamento. L’intervento della Chiesa Cattolica è importante perché può favorire il cambiamento di Cuba in senso democratico e verso il rispetto dei diritti umani. Ci sono altri giovani in gamba che lottano, come Eliecer Avila, Rosa Maria Payá, Guillermo Fariñas, Berta Soler, accanto a dissidenti storici come Elizardo Sanchez. Ma su tutti c’è lei: Yoani Sánchez, la nostra Godot, che attendiamo con ansia nella sua prima visita italiana.

Tra tutte le cose che faccio per promuovere in Italia la conoscenza del processo di cambiamento cubano, credo che “Yoani Sánchez - In attesa della primavera” rappresenti uno strumento importante per conoscere gli ultimi sei anni della storia cubana, attraverso la vita di un blog come Generación Y, che ha contribuito a cambiarla. Non si possono rinchiudere le idee in una galera, come ha già detto qualcuno. E Yoani ne è la dimostrazione vivente.

 

Gordiano Lupi, 22 aprile 2013

ALEJANDRO ARMENGOL. L’ETERNITÀ DEL CAMBIAMENTO

23 aprile 2013

traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

 

 Alejandro Armengol. CUBAENCUENTRO

 

Il problema fondamentale che affronta il governo cubano, con la necessità di attuare riforme per alleviare la difficile situazione del paese, è la risposta a questa domanda: può permettersi l’attività privata, anche solo su scala ridotta, senza compromettere il socialismo?

La risposta marxista-leninista a questa domanda è negativa: la piccola proprietà commerciale genera il capitalismo, costantemente e senza fermarsi.

Una risposta troppo semplice, soprattutto a proposito della situazione attuale del paese, dal momento che non possono essere evitate altre due domande. La prima è se c’è davvero il socialismo nell’isola e la seconda ha un’urgenza crescente: cosa possiamo fare per fermare questa crisi perenne, con la minaccia latente di uno sconvolgimento sociale?

Da diversi anni persistono a Cuba due modelli economici: un basato sui mezzi di produzione dello stato e il secondo che si fonda sulla proprietà privata. Parlare di socialismo ha i suoi limiti, soprattutto in senso economico. Non si può risolvere il problema con un’affermazione drastica: dire che sull’isola non c’è socialismo, se mai è esistito, e che quello che c’è è semplicemente un capitalismo di Stato, o più semplicemente un regime totalitario mercantilista o addirittura una sorta di sultanato caraibico.

Se un’argomentazione di questo tipo può essere appropriata per alcuni aspetti del dibattito politico, se si tiene conto dei modelli di produzione, delle forme di distribuzione di beni e servizi, del lavoro e dei processi di vendita all’ingrosso e al dettaglio, per citarne solo alcuni aspetti – occorre riconoscere che esiste nel paese una enorme struttura economica socialista stagnante e inutile. Che sopravvive perché esercita una sorta di fagocitosi su altro nucleo di affari, che obbedisce alle leggi del capitalismo selvaggio, e perché attua dei meccanismi di rendite e anche parassitari, sostenuti da ricavi provenienti da alleati e da presunti contrari o ex nemici: i sussidi “chavisti” e le rimesse degli esuli.

Con una fortuna relativa, il regime dell’Avana è riuscito a tenere separate le due sfere produttive, grazie ad una strategia volta a ridurre sia la sfera della produzione privata nazionale, sia a concentrare gli investimenti stranieri – e le joint venture con capitali privati ​​(esteri ) – in un numero limitato di aziende.

Questa soluzione, tuttavia, ha portato all’indebolimento sociale ed economico di controllo del governo.

Quando si parla della situazione attuale dell’isola, dobbiamo riconoscere che nel paese i cambiamenti hanno avuto luogo. Tutti questi però non sono stati guidati dal governo. Alcuni sono stati spontanei ma consentiti, molti si sono sviluppati come risposta a diverse pressioni.

Un altro è quello di consentire, dentro certi modelli, la formulazione di critiche e pareri a favore, per l’appunto, delle “riforme”.

Il terzo e non meno importante, è il tentativo limitato di restringere ancora la sfera burocratica nazionale.

In quest’ultimo si trova una contraddizione fondamentale. Cuba la sta affrontando e per la medesima è passata l’ex Unione Sovietica e i paesi dell’Europa orientale, prima che sparisse in loro socialismo.

Mentre il settore privato cresce in modo “spontaneo” e al di là del previsto quando si permette la minor riforma, la burocrazia che è anche risultato spontaneo e naturale dell’economia socialista aumenta nonostante gli sforzi per ridurla.

In pratica sono due modelli di sopravvivenza che concorrono. Le economie socialiste classiche, pre-riformiste combinano la proprietà statale con un coordinamento burocratico, mentre le economie capitaliste classiche combinano la proprietà privata con il coordinamento del mercato.

Uno degli aspetti negativi della miscela di entrambi i sistemi nella stessa nazione, è l’aumento dello spreco delle risorse.

Mentre il settore privato vive costantemente minacciato in un sistema socialista, trae beneficio da un relativo aumento dei redditi. Questo perché può facilmente soddisfare le esigenze che non sono coperte dal settore statale.

Tuttavia, questi artigiani e ristoratori non hanno alcun interesse nel dedicarsi ai loro clienti e nemmeno nell’accumulare ricchezze e nel dare loro un uso produttivo.

Poiché l’esistenza prolungata delle aziende è piuttosto incerta, la maggioranza usa il loro reddito per un miglioramento del loro tenore di vita attraverso il consumo eccessivo.

Quest’atteggiamento non differisce da quello del burocrate, che sa che i privilegi e l’accesso a beni e servizi scarsi dipendono dal suo incarico.

Questo problema affronta l’attuale governo cubano, nel tentativo di ricercare una maggiore efficienza nell’economia nazionale: come incoraggiare e allo stesso tempo limitare il settore formato dai lavoratori autonomi, proprietari terrieri e i possessori d’imprese familiari come i “paladares*”?

Sia il limitato settore privato, sia il settore statale di grandi dimensioni, sono nelle mani di persone che cospirano contro l’efficienza per ragioni di sopravvivenza.

La fragilità del “socialismo di mercato” è che il settore privato, anche se è in parte regolato dal mercato, in uguale o maggior misura ubbidisce al controllo burocratico.

Questo controllo burocratico esegue molte delle sue decisioni in conformità a fattori extraeconomici: in primo luogo politici e ideologici. La contraddizione diventa stagnante.

Una parziale soluzione a questo dilemma potrebbe essere quella di aumentare il ruolo del mercato, e dare più spazio alla sfera economica privata, legalmente e lasciando la strada aperta alla concorrenza e l’iniziativa individuale. Solo che di conseguenza, il successo nel mercato varrebbe di più che la burocrazia, e moltiplicherebbe la perdita del potere statale.

Questo è quello che alcuni sull’isola temono e altri bramano.

Al ritmo in cui il presidente Raul Castro sta guidando i cambiamenti, necessiterebbe vivere cento anni per realizzare una trasformazione a Cuba, e in quel caso limitata soltanto al miglioramento del tenore di vita dei cittadini. Eppure, questa riforma sarebbe racchiusa entro i parametri indicati dalla necessità intrinseca al regime di mantenere la ristrettezza e la corruzione, come forme di controllo. Sono proprio la repressione, la scarsità e la corruzione, i tre pilastri che sostengono il governo cubano.

Mentre il regime dell’Avana continua a richiedere un atteggiamento di accettazione assoluta e incondizionata, il che non è altro che aprire la porta a opportunisti di ogni genere, si aggrappa a un concetto medievale di tempo: confondere il presente con l’eternità.

Ci sono due atteggiamenti che sembrano determinare il comportamento dei responsabili del governo nell’isola. Il primo è un desiderio sfrenato di guadagnare tempo per rimanere al potere per quel che gli rimane da vivere. È in quest’atteggiamento anche il suo inverso: sopravvivere alla morte naturale di Fidel Castro e di suo fratello. E da quel momento stabilire partenariati di ogni genere – che non escludono la parte della comunità nell’esilio – e di partecipare all’interno della nuova élite al potere.

L’altro atteggiamento sembra essere il riflesso di una grande paura di muovere la minima cosa, per paura che traballi tutto intorno. Una specie di effetto farfalla insulare.

Il generale Raul Castro sembra di essere interessato a conseguire una maggiore efficienza per l’economia. Sia il settore privato limitato come quello grande dell’economia dello stato, tuttavia sono in mano a persone che cospirano contro questa efficienza, per ragioni di sopravvivenza.

Più e più volte hanno chiesto ai cubani “lavoro” e “pazienza”. Lavorare di più è stato sempre uno scherzo condiviso, una specie di beffa tra i fratelli Castro e il popolo dell’isola. La pazienza, però, è qualcosa di più serio. Fa parte dell’eternità imposta in una data: primo gennaio 1959. Essi, i Castro, quelli di allora, sono sempre gli stessi.

 

VARGAS LLOSA ELOGIA LA BLOGGER YOANI SÁNCHEZ

23 aprile 2013

MADRID, 23 aprile 2013 - Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, lunedì scorso, presso la Casa delle Americhe di Madrid, ha definito la blogger cubana Yoani Sánchez come “la persona che più di ogni altra in America Latina incarna l’amore per la libertà”. L’evento organizzato dall’Associazione Iberoamericana per la Libertà, chiamato “Una conversazione in libertà”, è servito a a Yoani per raccontare il suo quotidiano, cercando di spiegare come riesce a collegarsi al mondo grazie alle reti sociali.

“Sono diventata specialista Internet, senza avere Internet”, ha detto la Sánchez, che ha ideato nel 2007 il blog “Generación Y”, e che riesce a trasmettere informazioni su Twitter tramite messaggi di testo del suo telefono mobile.

“Cuba è stata un paese capace di inventare il macinato di carne senza carne. Non potevamo non trovare il modo di inviare messaggi di testo su Twitter senza Internet”,  ha aggiunto l’attivista. “Sono una persona che parla e dialoga per conquistare libertà interiore e collettiva”, ha detto.

Yoani Sánchez, emozionata per la presenza di Vargas Llosa, ha avuto parole di apprezzamento per lo scrittore peruviano.

“Vent’anni fa volevo leggere La guerra del fin del mundo. Alcuni amici mi dissero che Reinaldo Escobar, il mio attuale marito, lo possedeva. Grazie a quel libro ho conosciuto l’amore della mia vita”, ha raccontato.

Yoani ha avuto parole di elogio per i compatrioti residenti in Spagna: “Grazie per aver conservato Cuba anche all’estero”. Ha aggiunto che non si sente una persona speciale, ma soltanto una donna che si nutre di piccole cose, di ricordi e di progetti per il futuro. ”Mi vedo tra quarant’anni in un parco insieme a un nipotino che fa molte domande. Voglio avere risposte soddisfacenti da dare”, ha precisato. ”Le mie speranze per il futuro non sono riposte nei riformisti del governo cubano, ma credo che il destino dell’Isola deriverà da una serie di elementi”.

Gordiano Lupi

 

 Venezuela divisa a metà

Yoani Sancez

22 Aprile 2013

Quando si occultano le notizie o si trasmettono sistematicamente in maniera distorta, può capitare che un semplice evento metta allo scoperto una così prolungata manipolazione informativa. È proprio quel che è accaduto con le elezioni venezuelane e il modo in cui sono state riportate a Cuba dalla stampa ufficiale. Scomparso Hugo Chávez e cominciata la campagna presidenziale, tanto la televisione quanto la carta stampata dell’Isola si sono arrogati il compito di dimostrare quanto fosse poco popolare il candidato dell’opposizione Henrique Capriles. Ogni giorno, per cominciare bene la mattina, la televisione nazionale assicurava che Nicolás Maduro avrebbe trionfato nelle elezioni. Tutti predicevano una vittoria schiacciante.

Per questo nella notte di domenica scorsa, quando finalmente sono stati resi noti i risultati elettorali, la maggior parte dei cubani non è riuscita a capire cosa fosse accaduto. La poca differenza di voti tra Maduro e Capriles ha sorpreso chi aveva creduto al periodico Granma quando parlava dell’immenso sostegno popolare su cui poteva contare il “presidente sostituto”. Certamente, la modesta differenza tra i due candidati, meno di duecentocinquantamila voti, non aveva niente a che vedere con i pronostici fatti dalla propaganda ufficiale cubana. La realtà è che le urne hanno messo in evidenza un Venezuela praticamente diviso in due, una situazione polarizzata nella quale governo e opposizione possono contare sul sostegno di milioni di cittadini. Una nazione divisa a metà, che vive uno scontro ideologico forte e che sembra imboccare la strada di una crisi di grandi proporzioni.

Adesso per la stampa cubana sarà più difficile parlare del Venezuela come di un paese monocolore, votato a un solo partito. Abbiamo ascoltato il responso delle urne che è molto distante da quella unanimità – che ci hanno voluto far credere – e dal sostegno totale a Nicolás Maduro.

 

Yoani Sánchez

(dal Blog Cuba Libre, El País, 17 aprile 2013)

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

 Intervista degli internauti a 

Yoani Sánchez

el pais

20 Aprile 2013

– Puoi dirci la tua opinione sulla sinistra europea, dai partiti socialisti alla sinistra antisistema. Dove ti posizioni ideologicamente?

In realtà mi considero una persona trasversale, postmoderna, non amo definirmi con le classiche schematizzazioni politiche. Nonostante tutto, credo che in generale la sinistra europea sia stata troppo complice del totalitarismo cubano. In alcuni casi per miopia, per il desiderio di credere che l’utopia aveva trionfato nella nostra isola caraibica, in altri per semplice antimperialismo, del tipo più manicheo.

– Come vedi una risoluzione del possibile conflitto tra le due Cuba, quella di Miami e quella vera e propria dell’Isola?

Dopo aver trascorso alcuni giorni a Miami, sono ancora più convinta che la soluzione dei grandi problemi nazionali dovrà passare necessariamente dal lavoro congiunto di queste “due Cuba”, come tu le chiami. Non dobbiamo più chiamarci cubani dell’Isola e cubani di fuori, siamo cubani e basta. Gli esiliati cubani giocheranno un ruolo importante nella transizione: abbiamo bisogno delle loro conoscenze imprenditoriali e democratiche. Abbiamo bisogno di quella parte di Cuba che loro hanno conservato vivendo lontani.

– Hai fatto molti viaggi in diversi paesi. Come paragoni i diversi sistemi politici?

Continuo a pensare che a Cuba viviamo in un capitalismo di Stato, guidati da un clan familiare che non ci lascia neppure il diritto di protestare. Il governo è padrone di quasi tutti i mezzi di produzione e da questa proprietà guadagna un elevato plusvalore. In atri paesi ho visto molte ingiustizie, ma nonostante tutto - a differenza della nostra nazione - in molti di quei posti si ha la sensazione che in futuro le cose potranno migliorare, speranza che noi cubani abbiamo perduto da tempo.

– Se davvero il cittadino cubano è pronto per il cambiamento, è consapevole di quel che comporta? Perché una cosa è quel che pensiamo, un’altra è la dura realtà.

In realtà non siamo preparati al cambiamento. Ma nessuno è preparato al nuovo. Forse le madri sono preparate a partorire un bambino, curarlo e allevarlo ogni giorno, svegliandosi di buon mattino? Si apprende a essere madre soltanto dopo aver messo al mondo un figlio. A essere liberi, s’impara con la libertà.

– Che importanza hanno le reti sociali sullo scenario politico e sociale di molti paesi? Come credi che si svilupperà la situazione in Venezuela? Che consiglio daresti ai milioni di venezuelani che chiedono un cambiamento?

Non credo che soltanto la tecnologia ci renderà liberi, ma penso che le reti sociali e i nuovi strumenti tecnologici aiuteranno a costruire società più democratiche, pluraliste e partecipative. Nel mio caso, i blog, Twitter, Facebook e i telefoni mobili sono stati un percorso di allenamento civico. Raccomando ai venezuelani di non farsi rinchiudere in una prigione. Io che vivo in una gabbia insulare, posso assicurare che è molto più importante il rischio di volare liberi che la modesta dose di miglio che ci concedono dopo aver chiuso le sbarre.

– Puoi dirci chi finanzia il tuo viaggio in così tanti paesi?

Certamente. Ho risposto a questa domanda un’infinità di volte durante questo viaggio. Sono andata in Brasile con un biglietto comprato grazie a una colletta fatta via Internet, in maniera pubblica e trasparente. Chiunque avrebbe potuto contribuire in forma civica e spontanea. Nella Repubblica Ceca sono stata invitata dal Festival di Cinema “One World”, che ha coperto ogni spesa, come è normale in questo tipo di eventi. In Messico sono stata invitata dall’Università Iberoamericana, a New York dal Baruch College, in Olanda da Amnesty International… a Miami da mia sorella esiliata che ha messo da parte il denaro per invitarmi, in Perù da alcuni amici che ho conosciuto all’Avana quando facevo la guida della città. Infine sono arrivata in Spagna su invito dell’Editorial Anaya, per la quale ho pubblicato un libro, de El País, periodico dove scrivo con frequenza, e di molti amici che mi leggono e che mi sostengono. Non mi è mai mancato né un tetto né qualcosa da mangiare. La mia vera ricchezza sono gli amici! Ma non si deve sapere…

– Se a Cuba c’è tanta repressione, manca la libertà di espressione e si imprigionano i dissidenti, perché tu sei libera e puoi criticare così duramente il regime?

Sono contenta di rispondere a questa domanda. A Cuba c’è una forte repressione, io stessa sono stata vittima di molte forme di repressione: botte, arresti arbitrari, diffamazione senza diritto di replica, divieto di uscire dal mio paese in venti occasioni, minacce alla mia famiglia e vigilanza costante. Il fatto che sia uscita dal mio paese non è una concessione magnanima di Raúl Castro, ma una mia piccola vittoria dopo aver lottato a lungo contro le imposizioni governative.

– A Cuba buttano fuori di casa i cittadini con la forza e li lasciano per strada come accade da noi?

Sì, accade anche a Cuba. Basta leggere le denunce di sfratto che ci sono in rete e che non hanno mai avuto risposta. Non solo, molti cubani vengono dichiarati residenti illegali all’Avana e subito deportati a Oriente. “Mal comune mezzo gaudio” (in cubano è più esplicito: “male di molti consolazione per gli sciocchi”, ndt), si potrebbe dire, ma il fatto che voi abbiate gravi problemi non può farci tacere i nostri.

– Pensa ancora che Gabriel García Márquez non meritasse il Nobel?

Quando avrei mai detto una cosa simile? Prima di fare una domanda come questa, per favore, citi la fonte delle mie presunte asserzioni. Non si lasci confondere dalle campagne di diffamazione… Ammiro la letteratura di Gabo e sono una gran lettrice della sua opera, nessuno come lui ha meritato il Nobel. Conservo gelosamente la mia copia, letta un’infinità di volte, di Cent’anni di solitudine.

– Non crede che se a Cuba si vivesse così male il popolo si sarebbe ribellato? Non mi risponda dicendo che c’è la repressione, c’era anche sotto Franco, ma la gente scendeva per strada a protestare.

La paura è la sola spiegazione della mancata ribellione. I cubani esprimono il loro disaccordo emigrando… verifichi le cifre di quanti se ne sono andati.

– Tornerai al tuo paese dopo aver visto come si vive fuori?

Tornerò, perché per me “la vita non è in un altro luogo ma in un’altra Cuba” e voglio aiutare a costruire dall’interno la Cuba che desidero.

– Considera il sistema neoliberale che si è imposto in gran parte del mondo un’alternativa adeguata per sostituire il sistema vigente a Cuba?

Il sistema attuale cubano è già profondamente neoliberale… ci pagano in una moneta che non basta neppure per sopravvivere, il solo sindacato legale è nelle mani dell’unico governo consentito, non esiste diritto di sciopero, i licenziamenti abbondano… conosce un sistema più liberale?

– Crede davvero che la maggioranza della popolazione cubana desideri un cambiamento verso un sistema capitalista? Quale crede che sia il modello migliore per l’isola?

Ho detto spesso che Cuba vive da molto tempo in un sistema capitalistico. Dobbiamo smettere di credere alla propaganda del “socialismo” cubano, un sistema che maschera il peggiore dei capitalismi. Credo che la gran maggioranza dei cubani voglia vivere in un sistema che garantisca più partecipazione e meno proibizioni.

– Alcuni anni fa sono stata a Cuba e sentivo molte persone dire che avrebbero voluto un modello di transizione democratica alla spagnola. In realtà la nostra non è stata così perfetta… Come crede che sarà la transizione cubana?

Abbiamo il vantaggio di poter imparare dagli errori altrui, visto che abbiamo impiegato così tanto tempo per arrivare al cambiamento. Inoltre abbiamo l’opportunità di cominciare da zero. Dobbiamo definire per tempo una buona legge sui partiti e un finanziamento trasparente per garantire la politica della Cuba futura. Nessuna transizione è uguale a un’altra. Troveremo il nostro cammino… senza copiare nessuno, spero.

– Lei condanna l’imposizione di sanzioni economiche degli Stati Uniti nei confronti di Cuba?

Ho espresso la mia posizione persino davanti al senato degli Stati Uniti, quindi con la sua domanda piove sul bagnato. Ritengo che l’embargo nordamericano sia il pretesto più grande che in questo momento possiede il governo cubano per giustificare il degrado economico e la mancanza di libertà. Credo che debba finire quando prima.

– Cosa ne pensa della base navale di Guantánamo occupata dagli Stati Uniti? Non dovrebbe tornare di proprietà cubana?

La Base Navale di Guantánamo un giorno tornerà a essere proprietà dei cubani, ma OCCHIO… dei cubani… non dell’attuale governo di Cuba. Sono due cose diverse. Quando saremo un paese democratico, rispettoso del pluralismo, molto probabilmente questo argomento diventerà prioritario.

– Yoani, lotti con coraggio per la libertà. Prima del 1959, a Cuba le disuguaglianze erano notevoli. Adesso non tutto è perfetto. Ci sono i privilegiati del sistema, è vero. Ma anche gli altri cubani godono di un sistema sanitario e di un sistema educativo, possiedono una casa – anche se cadente – e mangiano ogni giorno. In tutta l’America Latina ci sono condizioni di miseria, molti non hanno neppure la millesima parte di quel che possiedono i cubani. Come dovrà essere lo sviluppo economico di Cuba per evitare di fare quella fine?

In realtà da molto tempo non è vero che a Cuba non esistono differenze sociali. La Cuba attuale si divide tra coloro che hanno accesso alla moneta convertibile (dollari mascherati) e gli altri che devono vivere solo con il salario (pagato in pesos cubani). Si tratta di una Cuba dura, brutale, con grandi sacche di povertà. Il problema principale è che “Robin Hood” sa togliere le ricchezze ai ricchi per distribuirle ai poveri, ma non sa creare ricchezze… quando queste finiscono… alla fine tutti restiamo poveri.

– Yoani, lei è diventata una dissidente perché l’ha voluto o perché la dittatura castrista con la sua persecuzione l’ha resa famosa? Si sarebbe mai immaginata di arrivare a questo punto?

Ogni uomo dipende dalle circostanze. Fidel Castro sarebbe stato lo stesso uomo se non fosse esistito Batista? Non credo… Inoltre non mi considero una dissidente, qualifica importante che meritano più di me altri attivisti cubani, ma una cronista della realtà. Il problema è che a Cuba la realtà è profondamente dissidente. La realtà nella nostra Isola è la negazione costante della retorica ufficiale.

– Ha mai pensato di realizzare un reportage sulle condizioni di vita delle piccole realtà dell’interno di Cuba – luoghi dove l’oscurantismo politico ed economico sono più aggressivi – per stigmatizzare le differenze sociali che esistono rispetto all’Avana?

Lo faccio costantemente. Mi reco spesso nelle piccole cittadine dell’interno di Cuba per impartire corsi, per insegnare ad attivisti politici come si usa Twitter grazie a un telefono mobile non collegato a Internet. La mia piccola soddisfazione è che adesso in molte di quelle realtà periferiche c’è gente che racconta quel che accade usando 140 caratteri, grazie ai miei corsi. Il mio motto è: “raccontati a te stesso”.

– Cosa pensi della reazione di Henrique Capriles e dei suoi dubbi sulla regolarità delle elezioni in Venezuela? Credi che Maduro accetterà un risultato diverso dopo aver contato di nuovo i voti?

La richiesta di contare di nuovo i voti è stata molto giusta. Non credo che Nicolás Maduro accetterà un risultato sfavorevole, ma non c’è peggior battaglia di quella che non si combatte.

– Come pensi che sia possibile evitare le disuguaglianze sociali ed economiche in un sistema parlamentare? Nei sistemi democratici, infatti, il divario tra ricchi e poveri cresce sempre di più…

A Cuba le differenze sociali sono abissali. Per esempio tra un gerarca in verde oliva e un cittadino comune c’è un abisso grande quanto tra un re e un semplice operaio, forse anche di più. La casta che governa Cuba ha potere di vita e di morte, decide sull’educazione dei nostri figli, sul medico che deve visitarci, sulla nostra libertà di movimento… Il sistema parlamentare, nel nostro caso, servirà a ridurre certe differenze, farà in modo tale che una “casta di eletti” non possieda un potere così grande su ogni dettaglio della nostra vita quotidiana.

– Come le sembra il giornalismo che si produce fuori da Cuba? È proprio come se lo attendeva?

Mi è sembrato un giornalismo con luci e ombre, moderno, in crisi, ma ogni crisi produce un parto. Ogni crisi implica una rinascita. Purtroppo, all’interno di Cuba, quel che si produce in ambito ufficiale non si può neppure chiamare giornalismo. Inoltre, i miei colleghi giornalisti indipendenti, blogger e giornalisti civici corrono molti rischi per ogni parola che scrivono, per ogni denuncia che fanno. Spero che un giorno non lontano i cubani potranno fare giornalismo senza rischiare di perdere la libertà e di essere linciati dai media ufficiali.

 

Redazione de El País

(da El País, 19 aprile 2013)

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

Le minacce a Yoani.

 

 

Intervista di Jorge Ramos Avalos

 

   Le minacce della dittatura dei fratelli Castro contro la blogger cubana Yoani Sánchez sono state dirette. Me l'ha raccontato lei stessa durante un'intervista a Miami: «Sono stata arrestata, malmenata ma non mi sono mai preoccupata. Ma l'ultima volta che mi hanno arrestata un ufficiale della sicurezza mi ha detto: Tuo figlio va in bicicletta? Che faccia attenzione. Queste parole mi hanno fatto molto male».

   Yoani sa di essere vulnerabile a causa del figlio Teo, 18 anni, in età per fare il servizio militare obbligatorio. «Sì, lui è il mio punto debole», riconosce. Sa bene che può subire gravi rappresaglie per le cose che dice. Ma continua a parlare.

   Perché? «Chiaro che temo le rappresaglie, ma che devo fare? Penso che il modo migliore per proteggermi sia proprio continuare a parlare». Nonostante queste minacce così dirette, appena finito il suo giro del mondo in 80 giorni, rientrerà a Cuba. «Andare in esilio? Non ne ho nessuna intenzione», mi ha detto. La sua vita è Cuba.

   Il suo tour è straordinario, tipico di una persona che non ha mai viaggiato e che, alla prima opportunità, vorrebbe mangiarsi il mondo. Il permesso di uscita le è stato negato per anni, ma finalmente Yoani ce l'ha fatta. Da perseguitata politica all'interno dell'Isola, fuori da Cuba – nonostante il regime dell'Avana – è diventata una specie di celebrità. Sono stato testimone di un fatto incredibile. Quando Yoani ha visitato Miami, l'attore-regista cubanoamericano, stella di Hollywood, Andy García voleva conoscerla. «È una donna molto coraggiosa», mi ha detto Andy. Lui è andato a prenderla prima di una presentazione e l'ha invitata a pranzo. Ma i ruoli si sono invertiti: la stella era Yoani. Andy, con molta semplicità, si limitava ad ascoltarla.

   Questo accade con Yoani. No puoi fare a meno di ascoltarla. Lei ti racconta com'è la Cuba di oggi, non quello che si sono inventati all'estero. Ovunque si presenta, non importa quale paese, riempie gli auditori. Quasi mezzo milione di persone la seguono su Twitter (@YoaniSanchez) e la dittatura cubana non ha armi adeguate per combattere una persona così coraggiosa, forte e trasparente.

   «Cuba è l'isola dei non connessi», mi ha detto durante una breve pausa. «Cuba mi sembra così assurda da lontano; vivo in un castello medioevale, perché non c'è libertà, perché il governo stesso si comporta come un signore feudale; è tutto molto triste e quando siamo all'estero si sente ancora di più».

   «Ogni giorno che passa sempre più persone si rendono conto che viviamo in una dittatura». Ma puoi dire che Cuba è una dittatura senza avere problemi?, le chiedo.

   «Dico la prima sillaba e già mi metto nei guai. Ma mi alzo ogni giorno pensando che devo comportarmi come una cittadina libera».

   Yoani si descrive come una “cronista della realtà”. Nient'altro. Ma è molto di più. Lei si è trasformata nel simbolo del cambiamento a Cuba. Altri hanno tentato ma non ci sono riusciti. Molti sono morti cercando di farcela. Yoani, invece, continua a colpire con una logica infallibile una dittatura in pieno secolo XXI che non ha elezioni libere e pluraliste, che limita ferocemente la libertà di espressione, che incarcera e assassina dissidenti, e che si muove in senso contrario alla maggior parte dei paesi del mondo.

   Yoani dice sempre: «I miei capelli sono liberi e io pure». Si tocca la nera chioma che le scende lungo i fianchi. E aggiunge una cosa che può sembrare strana per una persona che non ha smesso di parlare da quando è uscita da Cuba: «Sono una persona molto timida». Insiste che la sua missione è «spiegare Cuba a chi non c'è mai stato». La blogger ci introduce nella sua vita quotidiana: «Sono iperattiva. Da quando mi alzo faccio un sacco di cose. Amo la mia vita familiare». Il regime la controlla, spesso la fa arrestare. Il suo cellulare, un iPhone che le ha regalato la sorella («un telefono monco perché privo di connessione internet») è regolarmente bloccato e messo sotto controllo. Ormai è abituata al fatto che la dittatura castrista racconti la balla che è un'agente della CIA, al punto che risponde con un sorriso: «Questa operazione si chiama uccidere il messaggero. Non controbattere le sue opinioni, ma annullarlo moralmente. No, non lavoro per la CIA. Non potrei mai lavorare per una realtà straniera, inoltre non ho mai militato in un partito politico». Yoani si guadagna la vita con le cose che sa fare, come la maggior parte dei cubani. «Sono esperta di computer, lavoro con loro e li riparo. Inoltre scrivo su diversi periodici fuori dal mio paese». Il suo primo viaggio all'estero è stato finanziato da diverse organizzazioni non governative e da sua sorella che vive negli Stati Uniti.

   A Cuba sta cambiando qualcosa?, chiedo. «Stanno accadendo cose importanti, ma soprattutto mi rendo conto che i cubani sono stufi». Può esserci castrismo senza i fratelli Castro? «Il carisma di questi leader non si trasferisce. A Cuba il seggio presidenziale è stato ereditato per diritto di sangue (Da Fidel a Raúl)... È triste che una nazione per riprendere vita debba riporre le sue speranze nella morte di una persona, ma ci hanno portato a questo».

   Yoani ama citare una frase di Gandhi: «I tuoi nemici prima ti ignorano, dopo ridono di te, infine ti attaccano». Yoani sta vivendo la terza fase. Le minacce personali e nei confronti della famiglia, fanno parte della sua professione di giornalista. Ma sa di essere diventata il simbolo della speranza di libertà e di un cambiamento democratico a Cuba.

   Cuba può cambiare? «Io da sola posso fare poco, ma siamo in molti».

 

Jorge Ramos Avalos

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

 

La delusione

ANGEL SANTIESTEBAN-PRATS.

- la vicenda Santiesteban-Prats -

traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

 

Quando è incominciato tutto? Quando sono sceso dal treno dalla Rivoluzione per salire su quello della generazione dei figli che nessuno ha voluto? Non posso individuare il momento esatto.  So che sono cambiato e ho smesso di essere me, per diventare un estraneo.

Non so definire se sia stata una transizione veloce o lenta. Mi sento come di averlo fatto in tempo, senza grandi sacrifici, non come altri che hanno scommesso tanto, hanno perso tanto, che sentono ingiusto calpestare la loro giovinezza, trascorsa nelle marce della milizia, dopo aver rischiato la vita in Girón, Algeria, Etiopia, Granada, Nicaragua, Angola. Il mio caso è diverso, forse erano altre circostanze: sono un ragazzo normale che ha sacrificato poco, almeno devo ringraziare questo. Fatta eccezione aver partecipato nelle scuole al campo, impossibili da eludere, scuole militari, incontri, domeniche volontarie*, raccolta di materiali prime, insomma quasi nulla rispetto alle generazioni precedenti. A quel tempo ero pieno d’ingenuità, confidavo nel cammino che la rivoluzione ci aveva promesso. Qualcosa che ci veniva  ripetuto nelle aule, alla televisione e al cinema, nelle attività ricreative, nelle canzoni e poesie, e che gli adulti accettavano senza alcuna opinione al margine, soltanto scuotevano il capo in modo uniforme, senza avvertirci di una possibile delusione. Persino i più audaci assunsero il silenzio. Tacevano per paura. Allora non avevo motivi per dubitare, la mia formazione non ha avuto tra le materie la “diffidenza”. Fino a quando ho cominciato a scoprire l’ambiguità nelle risposte, quando non capivo concetti o decisioni, dopo aver insistito su una spiegazione coerente tale da convincermi, ed è venuta l’esitazione, il dubbio. Poi è arrivata inaspettata: la delusione. E in una riunione ho detto che non mi piaceva l’unanimità di voto, alla quale sarei dovuto essere abituato, mi ha reso sospettoso che tante persone pensassero allo stesso modo, che queste grandi percentuali, lungi dall’essere una vittoria, sono state il ​​peggior nemico di rivoluzione, che era esattamente quello che rendeva improbabile qualsiasi sondaggio, che avrei preferito accordi per “maggioranza”. E allora non ho saputo se mi sono allontanato o se mi hanno allontanato.

E mi sono ricordato delle parole del Maestro, quando ha assicurato a Máximo Gómez che “un popolo non si fonda, Generale, come si comanda un accampamento”.**

 

Ángel Santiesteban-Prats

 

* Le domeniche volontarie erano giornate di lavoro non remunerato.

 

  • Frammento di una lettera personale che scrisse José Martí a Máximo Gómez a New York, il 20 ottobre 1884. L’inizio della citazione versa: “(…) è mia determinazione non contribuire di una virgola, per l’amore cieco a una idea per la quale sto spendendo la vita, a portare alla mia terra un regime di dispotismo personale, sarebbe più vergognoso e funesto che il dispotismo politico che ora subisce, e più grave e difficile da sradicare…”. Máximo Gómez fu un militare nato nella Repubblica Dominicana, giocò un ruolo fondamentale durante la guerra d’indipendenza cubana.

 

 LA RIVOLTA INIZIA DALL’IO.

A PROPOSITO DEL CAMBIAMENTO

 

Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

 

Qualche anno fa ero a pranzo da amici che volevano introdurmi nel loro giro di amicizie. Dopo le consuete presentazioni ci siamo seduti a tavola e sono cominciate ad arrivare le portate. In questi pranzi mi ritrovavo di solito al centro dell’attenzione. Parlavo e rispondevo a domande e solitamente mangiavo pochissimo. In quell’occasione c’era un distinto signore amico di famiglia che di mestiere faceva il medico. Fino  a quel momento il dottore aveva parlato pochissimo, finito il secondo e in un istante di silenzio generale mi rivolge la parola chiedendo: come mai hai un nome così strano? Sono stati in tanti a farmi questa domanda, sapendo che il mio non è un nome di tradizione spagnola. Per queste occasioni ho la mia replica preconfezionata e rispondo: è stata una questione generazionale – dico col tono di chi ha una conoscenza assodata – dalla fine degli anni 70’ fino ai 90’ inoltrati quasi tutti i genitori, imponevano ai loro figli nomi come il mio. Lui e il resto dei seduti a tavola, seguivano con attenzione le mie parole. E poi aggiungo alla mia spiegazione sociologica: credo che per loro fosse come rompere con una tradizione, con qualcosa di vecchio. C’era una novità nel chiamare i propri figli Yerlandi, Yilenia o Yusimi… era musicale ed esotico. Poi mi pare ci fosse una forte influenza sovietica: non è strano trovare nomi come Katiuska, Katia o strani Iulianof come un mio collega ai tempi dell’università. Il signore distinto m’interrompe e mi disse serissimo: -Secondo me, a creare questa forte deriva culturale sono stati i massoni nordamericani. Tutti tacciono ed io resto impietrito. Lo guardo provando a scrutare il suo volto per capire se è una piccola presa in giro. Mentre lui, convintissimo e dimostrando una conoscenza della massoneria in America, controbatte con una serie di ragioni. La strampalata argomentazione mi faceva balzare sulla sedia, tuttavia le buone maniere mi facevano contrarre la faccia in qualcosa che doveva sembrare interesse. Mi stupiva che nessuno avesse niente da obiettare, forse dovuto al rispetto per il rango e l’età del conoscitore del tema massonico. La mancanza complessiva di obiezioni magari era dovuta al fatto che sembrava convincente la spiegazione o banalmente, perché gli intrighi catturano l’attenzione. Alla fine della trafila di ragioni che si dovevano nascondere dietro la bizzarra scelta del mio nome, nemmeno io replicai. Allora avevo messo da parte la loquacità che mi caratterizza quando dopo un calice di vino mi sento tra amici, perché contro le teorie complottistiche non valgono la pena spendere le proprie ragioni.

Da quel pranzo, però, ho imparato qualcosa che mi è venuta in mente a un recente convivio tra amici italiani ai quali, senza volerlo, mi sono trovato a spiegare chi è Yoani Sánchez. Uno di loro per motivi di lavoro è in Brasile e aveva seguito marginalmente le orchestrate “contestazioni” accadute durante la sua visita al colosso latinoamericano. Nel dialogo più di uno non conosceva Yoani e ho iniziato a raccontare i suoi inizi, il voler scrivere “facendo finta di vivere in un paese libero”, il suo fare domande da comune cittadina, le peripezie per accedere a internet, il fatto che è stata nominata tra le cento persone più influenti del pianeta nel 2008 e in fine il suo recente viaggio. Anche qui c’era una colta signora disposta a trascinarsi nel complotto e che ha fatto qualche domanda diffidente. Solo che questa volta, non ho voluto fare la scena muta e con un bel sorriso le ho contestato: – Guardi io sono cambiato perché ho subito il fascino di Yoani. E lei, incredula e ironica replica: -Che vuol dire? Tu nemmeno la conosci di persona! Mentre organizzavo la mia confutazione, con il pensiero che volava a mille, mi sono accorto che l’analisi di alcune vicende non rende ragione esauriente del fenomeno che si vuole capire. La frammentazione, il dividere in mille piccoli pezzi per trovare quello che tiene insieme il tutto, rischia di far perdere il senso. Ecco qui l’emergere dell’idea: nella vicenda cubana, come negli eventi personali siamo bravissimi a fare dell’analisi per capire le ragioni di un certo comportamento, di una situazione sociale, del fallimento della vicenda economica, ecc. Il più delle volte nella frammentazione, non solo si perde il senso ma si fanno, inoltre, delle illazioni. Quello che è tragico, tuttavia, è che non si è in grado di essere propositivi. In poche parole l’analisi non provoca un cambiamento.  Così in millisecondi mi sono accorto che io ero cambiato perché conoscevo del cambiamento di Yoani. Sono cambiato non sotto la potenza di un’idea o di un’ideologia. Mi ha trasformato di più il subire un fascino umano che le ore di formazione marxista.

È qui, dove hanno fallito gli ideologi del regime, hanno pensato che per la creazione dell’uomo nuovo bastasse un cambiamento esterno. Quelli che sembravano omniscienti, che hanno creduto di trovare la soluzione per raggiungere una terrena felicità. Occupati come erano nei problemi della massa, hanno smarrito il singolo. Per anni abbiamo dovuto subire ore di dottrina politica, abbiamo fatto del lavoro volontario, dell’attività agricola, abbiamo marciato, ripetuto il discorso ufficiale e abbiamo urlato degli slogan. È come se non fosse successo niente: questo non ci ha cambiato, non ci ha resi migliori, più responsabili o più vivi. Hanno fallito perché hanno dimenticato l’uomo. Così mi sono reso conto del mio cambiamento e del motivo che mi ha fatto uscire dal mio mutismo. Ci è più consono l’essere trascinati da un fascino che dalla potenza di una argomentazione. Quello che mi ha convinto è una donna che non ha avuto paura di essere se stessa. Credo sia questa motivazione ragionevole che mi ha fatto sorridere e rispondere alla colta signora: sono cambiato perché ho subito un’attrattiva. È bene non dimenticarlo quando ci chiedano le ragioni del perché la rivolta inizia dall’io

 

 

 

 VENEZUELA: RESTA ANCORA LA SPERANZA

 

di Yoani Sánchez

 

L’aereo era appena atterrato a Panama, fuori dal finestrino un sole inclemente percuoteva il selciato. Mi aggiravo per le sale dell’aeroporto, cercando un bagno e un posto dove attendere la partenza del prossimo volo. Alcuni giovani in sala d’attesa mi indicarono con gesti e cominciarono a gridare il mio nome. Erano venezuelani. Si trovavano lì, proprio come me, in attesa della loro destinazione. Cominciammo a conversare in mezzo alla folla, tra valige che andavano e venivano, mentre gli altoparlanti annunciavano partenze e arrivi. Mi dissero che leggevano il mio blog e che comprendevano bene la situazione che stavamo vivendo sull’Isola. Chiesi ai miei interlocutori se volevano farsi una foto con me. I loro volti assunsero un’espressione allarmata e mi supplicarono: “Per favore, non la pubblichi su Facebook né su Twitter, perché ci causerebbe problemi nel nostro paese”. Rimasi allibita. I venezuelani mi ricordavano molto da vicino i cubani: erano timorosi, parlavano sottovoce, nascondevano tutto ciò che poteva comprometterli davanti al potere.

Quell’incontro mi fece riflettere su temi scottanti come il controllo ideologico, la vigilanza e l’eccessiva intromissione dello Stato in ogni dettaglio della vita quotidiana. Tuttavia, malgrado le similitudini tra quei giovani e i miei compatrioti, mi resi conto che a loro restavano alcuni spazi di libertà per noi irrimediabilmente compromessi. Tra gli spiragli ancora aperti, prima di tutto ci sono le elezioni. Oggi, domenica 14 aprile, i venezuelani si recano alle urne per decidere con il voto – nonostante tutti i giochetti di potere – il futuro immediato della loro nazione. A noi cubani questo diritto è stato tolto da tempo. Il Partito Comunista del nostro paese, in maniera abile, ha eliminato ogni possibilità di scelta tra le varie opzioni politiche. Consapevole che non avrebbe potuto gareggiare senza inganni, Fidel Castro ha preferito correre in pista da solo e ha nominato come unico sostituto una persona che, oltretutto, porta il suo stesso cognome. Se paragoniamo le due situazioni, possiamo dire che ai venezuelani resta ancora la speranza, mentre per i cubani rimane solo il rimpianto delle occasioni perdute.

Per questo motivo, visto che conosco la prigione dove vivo, raccomando ai venezuelani di non chiudere la sola via d’uscita sulla quale possono contare. Spero che quei giovani che ho incontrato nell’aeroporto di Panama adesso stiano esercitando il loro diritto al voto. Il mio augurio è che dopo questa giornata non debbano più temere rappresaglie per essersi scattati una foto con qualcuno, aver espresso un’idea o firmato una critica. Desidero che ottengano tutto quello che a noi è stato negato.

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

Corso per perdere la paura

05.04.2013 11:09

 

NGEL SANTIESTEBAN-PRATS. 

da: https://nuovacuba.wordpress.com/

 

- la vicenda Santiesteban-Prats -

traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

 

La generazione dei figli che nessuno ha voluto è sempre stata associata con la morte. Dall’istante in cui ti affacci per la prima volta alla scuola primaria, ti annunciano una possibile aggressione dell’imperialismo yankee, ti mostrano foto e filmati di attacchi aerei, d’infiltrazioni nemiche, di sbarchi navali, esplosioni e spionaggio. Frequenti le lezioni di addestramento militare, ti è insegnato a marciare, a sopravvivere in situazioni difficili. Ti fanno eseguire delle pratiche di evacuazione e, quando suonano le sirene, corri come se le bombe o l’attacco chimico fosse un fatto. Entri nei rifugi scavati sotto tutta la città e l’umidità di questi buchi, ti provoca mancanza di respiro. Ti adatti a pensare che in qualsiasi momento ti cadrà una bomba sulla testa o un balcone dei vecchi palazzi della città. E, com’è così difficile vivere in uno stato d’allerta e restare preoccupati per qualcosa che non sembra mai avvenire, ti abitui e non pensi nemmeno al pericolo. Impari a convivere con esso ogni giorno e, alla fine, lo si ignora, anche se il rischio non sempre ignora te.

Per un cubano, la visita della morte arriva per la prima volta a diciassette anni, con il servizio militare. Anni fa potevi scegliere una missione internazionalista* e così poter diminuire il tempo di permanenza nell’esercito, e la tua famiglia s’inorgogliva di avere un parente in qualche guerra lontana a difendere l’ideale che la Rivoluzione aveva tracciato, e quindi, di ricevere per questo alcuni benefici e considerazioni. Poi tornavi da ingannare la morte nelle tue battaglie in Africa, e trovavi una generazione assorta nel nulla, una quotidianità ripetuta in mille pezzi. Un futuro indefinito. E come un’ossessione, la morte era seduta davanti alle porte delle case. Dopo sopravvivere diversi mesi in questa litania, sei giunto alla conclusione che non vi era alcuna scelta che emigrare. E se a tutto questo i sommi che andarsene potrebbe significare salvarsi la pelle. Che la possibile guerra – civile o contro gli Yankees, vinca chi vinca –, non ti sorprenderà in questa isola, dove non si ha dove correre ai ripari.

Così, come non raggiunge la determinazione che l’unica via possibile è il mare.

 

Ángel Santiesteban-Prats

*Si fa riferimento all’ideale socialista d’impedire la ricolonizzazione e aiutare, attraverso la lotta armata, alla liberazione dei popoli.  Uno degli esempi più indicativi fu l’operazione Carlota che portava cubani a combattere in suolo angolano, durò circa quindici anni e mezzo, da novembre 1975 al 25 maggio 1991.

 

 

Sesso tutto quel che venga

10.04.2013 08:53

 

Da. https://nuovacuba.wordpress.com/

traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

IVÁN GARCÍA da Diario de Cuba

 

C’è ancora la tessera di razionamento.  Le patate sono scarse, il prezzo della frutta è alle stelle e bere un succo d’arancia al naturale è un lusso. Gli assorbenti sanitari sono distribuiti ogni due mesi – un pacchetto da dieci unità – per le donne che hanno ancora il periodo. E la connessione a Internet è ancora una storia di fantascienza per la gran parte della popolazione.

Tuttavia, il sesso è libero. Uno sport nazionale. Secondo alcuni, l’infedeltà tra le coppie è un gene che gli esseri umani portano. Se quelli che se ne intendono, fanno un tour per Cuba, può darsi che siano in grado di confermare le loro teorie.

E scopriranno che negli adolescenti dai dodici ai tredici anni sono già “esperti” del settore. Ignari del fatto che l’Australia è un continente o che Henry Lee era un indipendentista della rivoluzione americana e non il produttore dei jeans Lee. Ma quando si tratta di sesso, hanno innumerevoli storie da raccontare. Molti ragazzi, sin da piccoli, i genitori li educano sul fatto che più donne avranno, migliori maschi saranno.

Se nei secoli precedenti i genitori pagavano delle prostitute per sverginare i loro figli, oggi, non è necessario. La maggior parte dei figli sono più aggiornati e sono più promiscui rispetto ai loro genitori. Avere un “altra” o amante è sinonimo di mascolinità. Devi essere un atleta del sesso, un “bastardo della strada”.

A parità di amanti, più aperitivi saranno pagati dagli amici. Nei bar si offrono consigli su come conquistare una femmina impossibile. Per ore, si raccontano aneddoti sessuali mentre si beve senza freni birra scadente o rum a buon mercato.

Il sesso a Cuba è disordinato, ma ha le sue gerarchie. Come non sono uguali un magnaccia di quartiere e un manager di un hotel a cinque stelle, un capitano e un generale, un deputato del noioso e monotono parlamento e un cinese mandarino.

Le concubine dei superiori vanno rispettate. Segretamente saranno ammirati il loro seno o il posteriore, ma saranno tacitati i complimenti osceni o le proposte indecenti. Un capo può licenziarti o renderti la vita miserabile, se viene a sapere che giri attorno all’amante.

Più stelle si hanno sulle spalline dell’uniforme o se la tua foto è tra i membri del Comitato Centrale, maggiori saranno le probabilità per dare i migliori lussi alle proprie amanti. Così si può persino scegliere tra: bionde, brune, mulatte o nere. O avere una collezione di ciascuna.

Con orgoglio e discrezione sono mostrate nei weekend nei club esclusivi per alti ufficiali o nelle feste che non sono presenti le mogli.

Essere l’amante di un personaggio importante a Cuba, d’altra parte, è sinonimo di status sociale. Come su razzo a propulsione, le fortunate ascendono nel loro lavoro. In tutta Havana si parla dell’ascesa fulminea di una famosa reporter della TV, che possiede oltre alla bellezza il talento. Secondo alcune indiscrezioni, il ragazzo fortunato che va a letto con lei è un “capo dei capi”.

Ancora si ricorda che negli anni ’90, quando Carlos Aldana è stato il terzo uomo più potente sull’isola incaricato del settore ideologico nel partito comunista, e aveva tre “concubine” giornaliste, tutte tre conosciute.

Persino Fidel Castro, tra sorsi di Jack Daniel’s, le piaceva parlare in privato delle sue imprese sessuali, come la vicenda che ha avuto con la tedesca Marita Lorenz e che lei ha raccontato in un libro.

In una rivoluzione macho-fidelista come la cubana, l’avere avventure amorose ti fanno distinguere dal coro. È una vicenda da sgamati. Di tipi con aggancio. Un marchio di garanzia di virilità che fa la differenza.

Qualche settimana fa, è uscita una nota di Juan Juan Almeida sulle abbuffate dei funzionari cubani in Angola. Offriva un dato di fatto. Prendendo come fonte il MINFAR*, il 40% delle donne che erano state in missione in Angola, hanno subito molestie o stupro.

Questa cifra non è mai apparsa nel Granma. E Almeida figlio è una fonte molto credibile. Ha vissuto tra la crema della gerarchia cubana. Suo padre, secondo l’opinione dei suoi parenti, ha portato a letto ogni donna che le svegliò il piacere.

La grande differenza tra l’essere la concubina di un leader e quella di un morto di fame, sono i lussi e le comodità. Quello con poche risorse v’invita al cinema e ti compra dei popcorn o un sacchetto di noccioline.

Il “capo” ti dà un appartamento. E se lo soddisfi in pienezza, ti acquista un’auto. Inoltre, arrivi fino al tetto della tua professione. Ci sono donne che vivono dai loro amanti, come i protettori delle prostitute.

E come a volte questi hanno più di una “fidanzata”, queste litigano tra loro, per vedere a chi dà di più e chi rimane come la preferita. Recentemente, in una discussione tra due jineteras**, una disse all’altra: “Sì, io sono la migliore, al mio uomo ho comprato una moto e tre catene d’oro. Le altre danno solo magliette e scarpe da tennis”.

Si può vivere in una casa in Carraguao*** o in un residence a Miramar. Ma se sei stato educato bene, devi avere un “querida”****.

In una conversazione tra duri, se non si parli di fidanzate, “queridas” o amanti, possono apostrofarti di “cattolico” o “mongolo”.  Un fatto resta, occorre stare attenti a non parlare o guardare l’amante del capo.

 

*MINFAR: Ministero delle Forza Armate.

** Modo di chiamare le prostitute a Cuba.

*** All’Avana, quartiere periferico popolare e noto per l’alto livello di criminalità.

**** termine di difficile traduzione, indica l’idea della concubina, dell’altra donna nella relazione coniugale.