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Cubareale - Niki

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Ottantasette e non li dimostra

16.02.2012 17:39

 

Alejandro Torreguitart Ruiz. 

18 Agosto 2013

Il vecchio compie ottantasette anni. Sì, lo so, sono fuori tempo massimo, ne hanno già parlato tutti. Il Granma c’ha fatto un’edizione speciale, bontà sua, i giornali di mezzo mondo si sono affannati a fare riassunti, facendo finta di credere che il vecchio avesse detto qualcosa di nuovo. Un mio amico mezzo scemo, uno che non ci sta con la testa e scrive un blog, è ripartito con la vecchia storia Fidel è morto, non ha festeggiato il compleanno in pubblico, non s’è fatto vedere, e via col mambo delle puttanate in rete, che poi la gente ci crede e il governo smentisce. Da dieci anni a questa parte credo che il vecchio l’abbiano fatto morire almeno una dozzina di volte, ma è sempre resuscitato, più arzillo di prima.

Ottantasette e non li dimostra, ha detto mio padre. Sarà merito di tutta la moringa che mangia, credo. Cazzo, non li dimostra, papà, sai quante volte vorrei essere morto per davvero prima di ridurmi in quelle condizioni? Il vecchio resta vivo, non si sa grazie a cosa, un po’ come questa rivoluzione che perde pezzi, come una macchina scassata che vaga per le strade polverose, un almendron. Il vecchio non avrebbe mai immaginato che la sua vita si sarebbe prolungata per altri sette anni. Nemmeno noi, a dire il vero, ma consolati, tanto fanno come se tu non ci fossi: lavoro privato, licenziamenti, dissidenti che espatriano, qui è tutto un casino, dammi retta, non credo che ti farebbe piacere capire come un tempo. Mentre tu ricordi l’Unione Sovietica, la crisi dei missili e i compagni coreani, un bel po’ di dirigenti del partito hanno messo da parte capitali immensi e vivono da nababbi. Non solo, si prendono in casa le servette orientali per fare i lavori domestici, proprio come una volta, proprio come quando c’era Batista e anche prima, al tempo dei proprietari terrieri. Barba mio, se ci fossi ancora tu nei tuoi cenci, mi sa che t’incazzeresti parecchio. Altro che moringa!

Barba mio, ci mancano i tuoi discorsi fiume, ci facevi due palle come cocomeri, ma alla fine uscivi dalla piazza con la voglia di andare a zappare campi di patate per la rivoluzione. Ora l’entusiasmo è poco, da una parte un’invasata che pensa ai diritti dei gay, dall’altra uno Speedy Gonzales che teme persino la sua ombra, lui si regge sul Venezuela del camionista presidente, e noi, se non riusciamo a scappare, ci arrangiamo come possiamo. La politica? No, la politica non ci sta nella zuccheriera, come dice Varela. E non è roba per noi. Chi fa politica ha i suoi motivi, dove c’è un cubano c’è un partito, ormai lo sappiamo, l’unità resta un sogno, l’ultima volta che abbiamo fatto qualcosa di buono è stato nel 1959, ma guarda un po’ com’è finita. Il problema delle rivoluzioni è sempre lo stesso. A un certo punto si alza uno, recinta il campo, e dice: È mia. Un po’ come la proprietà privata. Pure la Rivoluzione – a volte – è un furto. Ai danni del popolo. Tu guarda l’Egitto.

E allora basta parlare di politica, tanto a me non mi paga nessuno, posso dire quel che voglio, resta soltanto uno sfogo, un racconto, uno sberleffo al potere. Non scrivo su El Mundo, non scrivo su El País, non ho contratti milionari, ogni tanto un camajan d’editore mi manda cento euro, a volte pure di più, e vado avanti. Bastano, per non affogare la disperazione nel rum di strada, quello fatto con alcol di legno che fa più vittime del comunismo. Bastano per andare a caccia di mulatte nella notte, quando il Malecón illuminato dalla luna e percosso dal vento del Messico ti fa venire voglia di tenerezza e parole d’amore. Bastano per non pensare…

Alejandro Torreguitart Ruiz

L’Avana, 14 agosto 2013

Traduzione di Gordiano Lupi

 

Mamma voglio fare il dissidente

 

Alejandro Torreguitart Ruiz.

 

01 Agosto 2013

  

Mamma è preoccupata. Dice che non scrivo più. Questa è bella, proprio lei che stava sempre a dire Alejandro non fai un cazzo dalla mattina alla sera, perché non ti trovi un lavoro serio invece di scrivere, ora mi rimprovera perché non scrivo.

– Mamma, ti senti bene?, – le chiedo.

– Mai stata meglio, – risponde. E intanto separa i fagioli buoni dai cattivi. Solito gesto che scandisce il ritmo del quotidiano in questo paese dove non succede mai niente e si va avanti così, tanto siamo cubani, s’inventa.

– Non scrivo a richiesta, mamma. Scrivo quel che vedo. Ho parlato di froci, puttane, gente che scappa, mogli che uccidono mariti. Ho messo in burletta Lovecraft e Dickens. Non ho più idee, mamma.

– Fattela venire, allora. Chiama il tuo amico camajan. Digli che ti pubblichi un libro, una raccolta di racconti, qualcosa. I soldi fanno comodo, Alejandro. Abbiamo la casa da restaurare…

Ora mi spiego la foga letteraria di mia madre. Non ha mai letto un libro in vita sua, al massimo Juventud Rebelde, le pagine dei fumetti, riviste tipo Palante e Bohemia, cose che non si trovano più. Figurati se legge quel che scrivo, e poi meglio così, ché con tutti i cazzi e i culi che ci metto dentro le prenderebbe male. Ma i soldi dei diritti le interessano, certo. Mai chiedersi da dove provengono. Basta che arrivino. E allora cara mamma, tu non lo sai, ma un modo ci sarebbe per fare un po’ di soldi senza fatica. Mi sa che non ti piace ma oggi come oggi rende bene fare il dissidente. Ricardo Alarcón deve essersi preso uno sturbo, ché da un anno a questa parte volano tutti in Europa e nordamerica, i cieli del mondo sono pieni zeppi di dissidenti cubani, le strade del nord brulicano di cubani coperti da enormi cappotti che parlano di politica, mangiano caldarroste e bevono vodka. E io che ho sempre avuto paura. Mi sa che sono proprio fesso. Pubblico libri in Italia, non mi faccio vedere, mia madre dice ti mettono in galera e buttano la chiave, mio padre aggiunge ragazzo fai attenzione. E io sto attento, tranquilli, ma qui non sta più attento nessuno, vanno in America i Porno Para Ricardo, persino Gorki, che a tempo perso manda affanculo Raúl Castro e dà del vecchio rimbambito a Fidel. Ma mica viaggiano e basta, mica affollano gli aeroporti per far dispetto al vecchio Alarcón, no, riscuotono pure un sacco di soldi, tra concerti, conferenze, lezioni universitarie e articoli sulla stampa di mezzo mondo. Scorreggia un dissidente? El País concede la prima pagina e una collaborazione da opinionista. Alejandro, fatti furbo, segui la tua strada. Altro che quattro spiccioli da un editore italiano per scrivere storie di froci e puttane, ché gli italiani quello leggono, pare. Dicono che la Sezione d’Interessi paghi bene, basta farsi coraggio, osare un pochino, aprire un blog, poi ci si mette in lista d’attesa. Magari trovo un agente letterario europeo, firmo qualche contratto, apro un conto in Svizzera o in Spagna, un posto vale l’altro, deposito i soldi e ogni tanto attingo per le piccole spese.

Non farò mai niente di tutto questo, lo so, ma è bello sognare…

– Mamma, ora come ora mi vengono solo poesie, – dico.

– Figlio mio, con la poesia non ha mai mangiato nessuno.

Ecco, mia madre non capisce un cazzo di letteratura, tra l’Indio Naborí e Lezama Lima preferisce il primo, pensa che Proust sia una malattia infettiva, una cosa tipo la proustite, nonostante tutto ha capito che con la poesia non si mangia. Mamma, si mangerebbe girando per il mondo a fare il santone, rischi zero, mica siamo il Kazakistan, non ci tocca nessuno. Mamma, voglio fare il dissidente, è il mestiere del futuro. Avrei tanta voglia di dirglielo, ma meglio di no, non reggerebbe il colpo. E poi mica ce la farei. Meglio inventarsi un’altra storia di puttane, guarda, come ha detto l’editore l’altro giorno, magari una trilogia, ché ora vanno di moda le trilogie. Quasi quasi scrivo La puttana dissidente, mi sa che diventa un best-seller, anche senza sfumature di grigio, ché qui le sfumature ci sono, e neanche poche, ma è meglio non dire di cosa...

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

Traduzione di Gordiano Lupi

 

Yoani Sancez e il teatrino

Bayamo. Ángel Carromero, all'uscita dal tribunale (foto AFP)

06 Ottobre 2012

 

Il teatrino è finito, pare. García Ginarte può stare tranquillo, anche Fernando Rojas e Bloguero Cubano possono tornare a cullare sogni rivoluzionari, possono continuare a scrivere che la rivoluzione è sempre più solida e forte, che gli imperialisti non passeranno e che questa strada è di Raúl. Insomma, le cazzate di sempre. Il teatrino è finito. Non quello che voleva montare Yoani, lo show mediatico temuto dal regime, la rappresentazione della follia, per un paese come il nostro, il giornalismo indipendente che vuole raccontare un processo con sguardo obiettivo. Il loro teatrino è finito. Non si sono neppure resi conto di aver scatenato un putiferio incredibile, una cosa epocale di cui ha parlato il mondo intero. Mancava che si scandalizzasse la Birmania, guarda. Intelligenza e valutazioni di opportunità sono fattori trascurabili per un regime sempre più stordito dalla piega che prendono gli eventi. Gli inquieti ragazzi della Sicurezza non fanno in tempo a inventare una balla che subito ne devono imbastire una nuova. Sembrano marinai a bordo d’una nave che cola a picco, tirano fuori acqua a più non posso, ma la falla è grande, irreparabile.

Yohandry Fontana è un altro giornalista del governo, uno che gli passano le veline e lui scrive, una sorta di Randy Alonso del web. Redige con cura la cronaca dell’arresto di due pericolosi criminali, Yoani e Reinaldo, catturati davanti all’ingresso di un tribunale dove - secondo il Granma - avrebbe dovuto svolgersi un pubblico processo. Cosa vuol dire pubblico in questo paese? Interpretazione autentica desunta dal blog della Sicurezza di Stato: si può seguire il processo da una stanza attigua, tramite schermo, non è possibile registrare, né fare riprese con telefonini o telecamere, sono ammessi solo giornalisti di provata fede rivoluzionaria. Mica lo sapevo. Mi sa che anche Yoani e Reinaldo non se l’aspettavano, altrimenti si sarebbero organizzati. Insomma, adesso li hanno rimandati a casa, senza la loro auto, sequestrata perché dicono non fosse in regola, dopo un lungo viaggio in compagnia di poliziotti, tra buche nel selciato e preoccupazione, in attesa di rivedere gli amici.

Ángel Carromero sarà condannato, il pubblico ministero ha chiesto sette anni, ma lo rimanderanno in Spagna, la morte di Payá sarà dichiarata un omicidio colposo da incidente stradale. Magari è pure vero, magari Carromero viaggiava troppo veloce, non si è accorto delle deformazioni della carreggiata e ha perso il controllo dell’auto. Magari è stata soltanto una maledetta disgrazia quella che ha privato Cuba di uno dei suoi uomini migliori. Magari. Ma allora perché tutto questo segreto? Perché la famiglia di Payá non può assistere al processo? Perché arrestano Yoani e Reinaldo e li rispediscono all’Avana? Domande senza risposta, cadute sulle lacrime della figlia Rosa, che - caso strano - non si è costituita parte civile contro Ángel Carromero, ma da tempo chiede con forza un’inchiesta internazionale per far luce sulla morte del padre.

Il teatrino è finito, compagni Ginarte, Rojas e Fontana. Resta il dramma, purtroppo. Niente a che vedere con Piñera ed Electra Garrigó. Questo è il dramma della nostra vita, dal 1959 a oggi, passando per Fuori dal gioco, Prima che sia notte e il Confesso di avere paura, molta paura d’un povero poeta solitario. Siete voi gli sceneggiatori del dramma, ma il soggetto è ripetitivo, pieno di luoghi comuni, scritto dagli stessi autori di sempre, interpretato da attori alla frutta. Come dice Varela, tutti vogliono vivere nel telegiornale, perché lì non manca niente, perché lì non serve denaro. E allora capita che questa maledetta circostanza delle acque che ci circondano da ogni parte mi faccia sedere a tavola, bere un caffè, tentare di scrivere un articolo per raccontare una vita di cui non comprendo più il senso. Ma devo viverla. Perché è la mia vita. E il mio posto non è fuori da Cuba ma in un’altra Cuba. Compagni poliziotti, dovete ancora vederne delle belle. Credetemi.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

L’Avana, 6 ottobre 2012

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

In italia parlano di me

 26 Agosto 2012

 

Oggi mi chiama il camaján, quello che ha sposato mia cugina e se l’è portata in Italia un po’ d’anni fa. “Alejandro, in Italia parlano di te. Sei sul Corriere della Sera. Mica male”. Il camaján prosegue, dice che un certo Nicastro, Nicascio, Nicazzo, che ne so come si chiama, hanno certi nomi questi italiani, pieni di doppie, incomprensibili, mi paragona a Pedro Juan Guertiérrez, dicono che sono il suo erede, che scrivo dal sottobosco, che accompagno i turisti con il sidecar, che descrivo il mio mondo fatto di jineteras e di gigolò, che non m’importa un cazzo della controrivoluzione, ma non finisco in cella perché non svelo l’apparato repressivo della polizia segreta. Bravo Nicazzo, tu sì che lo sai come sono fatto, meno male che me l’hai spiegato, ché mica lo sapevo, adesso sto meglio. Tutto sommato sono contento, ché il paragone con il vecchio Pedro Juan m’è garbato parecchio, forse a lui meno, ma a me tanto, davvero. Quando il camaján mi manderà l’articolo, ci farò un quadretto, se la Sicurezza di Stato entra in casa lo nascondo sotto il letto, tanto mica lo sanno dove vivo, non dovrebbero trovarlo, e poi Nicazzo dice che non parlo della polizia segreta, quindi in galera non mi ci mettono, dovrei essere sicuro, perché a me non me ne fotte niente della controrivoluzione. Bello questo articolo, non avrei mai immaginato di trovarmi un giorno nella terza pagina d’un quotidiano insieme a Lezama Lima, Guillermo Cabrera Infante, Reinaldo Arenas, Pedro Juan Gutiérrez, Eliseo Diego, Alejo Carpentier, Leonardo Padura Fuentes, Abel Prieto, Miguel Barnet, Karla Suarez, Wendy Guerra, Antonio Ponte… Oddio, mica conosco tutti, Antonio Ponte e Wendy Guerra non so neppure chi siano, capita, visto che Granma parla solo di Barnet, Prieto (ora va meno di moda), tanto tanto Padura Fuentes e più che altro Indio Naborí, che Dio ce ne scampi e liberi.

L’ideologia è morta, scrive Nicazzo, siamo stanchi del marxismo, del socialismo caraibico, scriviamo del niente che ci circonda, di chi scappa e del degrado morale. Avrà letto un libro di narrativa cubana contemporanea questo giornalista? Non lo so, i miei non li ha letti di sicuro, perché se li avesse letti avrebbe capito di che cosa scrivo. Questo è il nostro destino. Questa è la disgrazia di nascere cubani. Tutti sanno chi siamo e quel che vogliamo, ma nessuno sa un cazzo di noi, purtroppo. A cominciare dal camaján, che manda articoli, ma soldi pochi. “In Italia i libri non si vendono”, dice. E allora cosa me lo mandi a fare l’articolo del Corriere della Sera? Se non serve a vendere libri anche se non lo facevano era la stessa cosa. “Tu non capisci, Alejandro, sei giovane, sei cubano”. Eh, no, invece capisci tutto tu che sei italiano, dici che dobbiamo essere contenti, ma i soldi non arrivano, dici che sono uscito su un quotidiano importante, un sacco di gente ha letto il mio nome, ma le cose non cambieranno, i miei libri continueranno a vendere poco. Io mica lo capisco il tuo mondo. Non lo capisco proprio. Come voi non capite il nostro.

Bene, vuol dire che tornerò a parlare di jineteras, gigolò e froci, scrivendo dal sottobosco d’una città perduta, stando bene attento a non citare Andy Garcia e Cabrera Infante. Non scriverò una riga sulla polizia segreta, non citerò mai la controrivoluzione. Mi limiterò a narrare il degrado che mi circonda e racconterò la voglia di scappare che prende tutti i cubani come una malattia infettiva. Se poi mi chiederanno il motivo risponderò perché fa caldo. Non ve ne siete accorti che a Cuba fa un cazzo di caldo? E io ho un sogno. Un po’ come Martin Luther King. Andare a vivere in Svezia.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

L’Avana, 26 agosto 2012

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

Tempo di elezioni

 

 

21 Luglio 2012

 

Tempo di elezioni a Cuba. Che bello! Ho letto sul Granma che il Consiglio di Stato ha invitato la popolazione a partecipare alla nomina dei delegati municipali e provinciali, ma pure dei deputati nazionali. Troppo lusso. Cuba è democratica, dicono i comunisti di tutto il mondo. Lo dice anche mio padre, che da quando Raúl ha rispolverato la guayabera come divisa d’ordinanza se ne va in giro tutti i giorni con quel camicione bianco. Inutile dirgli che c’ha la pancia e non gli sta bene. Ordine di Raúl. E lui esegue. Lo dice anche mia madre, che quando soffre di stomaco, manda giù infusi di moringa che non ti dico. Grande Fidel, come racconti tu le cazzate non le racconta nessuno. Ci mancherai. Davvero.

Allora, dicevamo che secondo il Granma, ma anche secondo la televisione nazionale (Tele Rebelde o Cubavision fa lo stesso) e pure secondo i miei vecchi, a Cuba ci sono le elezioni. Il popolo nomina i suoi rappresentanti. E lo fa ogni cinque anni, come un paese normale, anche se qui siamo a Cuba, l’ultima riserva comunista, il serraglio caraibico d’una specie in estinzione. Rinnoviamo il Poder Popular (Parlamento, ndt) e il Consiglio di Stato. Basta avere 16 anni per votare e per essere eletti. Certo, non possono partecipare gli incapaci d’intendere e di volere, i carcerati, neppure le persone agli arresti domiciliari. Siamo tanti noi elettori cubani, partecipiamo in massa, felici e gioiosi di svolgere un esercizio democratico, iscritti nel registro del Ministro degli Interni come elettorato, volenti o nolenti. Ci iscrivono loro, così risparmiamo la fatica. E nelle ultime elezioni, secondo le statistiche del Granma, di solito attendibile come Pinocchio quando racconta le storie alla Fata Turchina, ma in questo caso bisogna crederci, avrebbero partecipato il 95,9% degli aventi diritto al voto, calcolati in 8 milioni e 562 mila elettori. Roba che la Bulgaria anni Settanta ci fa un baffo e la Romania del bel tempo andato ce la mangiamo a colazione.

Sono belle le nostre elezioni, tutto è già deciso, non c’è da pensare, basta dire sì e promuovere un elenco preconfezionato di candidati. Tutti del solito partito, è chiaro, a cosa servono gli altri? I dissidenti sono pagati dalla Cia, mica li vorrete mandare in Parlamento? E allora via con la farsa, ascoltiamo il velinaro di turno, il Randy Alonso dei miei stivali, quando dice che prima si eleggeranno i delegati municipali, proposti direttamente dai cittadini, ed è pure vero, solo che le proposte si fanno durante le riunioni dei CDR, tu provati a nominare uno che non sia della loro razza e vedrai cosa accade. Una volta eletti i delegati municipali si eleggeranno i Deputati Nazionali e i Delegati Provinciali, un migliaio di persone che se la passeranno bene, tutta gente pagata per fare la spia e per controllare i poveri cristi come noi che fatichiamo a mettere insieme il pranzo con la cena. Mio padre, che crede a queste elezioni e partecipa davvero, convinto che servano a qualcosa, lo sa bene che i candidati sono proposti dal sindacato, dai Comitati di Difesa della Rivoluzione, dalla Federazione delle Donne Cubane, dall’Associazione Nazionale Piccoli Agricoltori, dalla Federazione Studentesca Universitaria e dalla Federazione Studenti della Scuola Media. Manco a dirlo, tutte organizzazioni del Partito Comunista Cubano, anche se - per somma presa di culo - il Partito Comunista non partecipa alle elezioni. Come dire che gli Industriales non partecipano al campionato nazionale di baseball, ma ci iscrivono tutti i loro giocatori. Ma ci avete preso per scemi? Pensate che ci siamo bevuti il cervello? Io bevo rum della peggiore qualità, amico che leggi il telegiornale senza vergognarti, ma so distinguere il grano dalla crusca. E allora le cazzate raccontale a mio padre che ci crede e a mia madre che forse finge, non vuole grane, ma non a me che da tempo ho aperto gli occhi sulla merda che ci circonda.

Queste elezioni meriterebbero una rivolta stile Primavera Araba, ma qui non gliene importa una mazza a nessuno, basta che arrivino i soldi dai vermi di Miami o da qualche altro verme sparso per il mondo. Viviamo di elemosina, di quel che arriva dall’altro capo del canale, facciamo quel che ci dicono, da sempre, zitti come topi, lontani mille miglia dall’esempio di José Martí. Siamo cubani. Non diteci di lavorare troppo. È fatica. Non diteci di ribellarci. Siamo di indole mite. Piuttosto scappiamo e sogniamo di ritornare. Nonostante un governo di merda. Nonostante la dittatura. Basta trovare il modo per riempire la pancia e non occuparsi di politica, in fondo. Ci chiede così poco, il nostro amato regime. In fondo basta non pensare e va tutto bene. Teniamoci queste elezioni, allora, che tutti sanno già come andranno a finire, tra percentuali esorbitanti di elettori, candidati eletti secondo il volere del partito, Raúl Castro ancora Presidente del Consiglio di Stato, per diritto divino e per discendenza di sangue. Con buona pace delle elezioni. E allora questa volta lasciatemi in pace, signori del CDR che venite la mattina presto a scassarmi i coglioni perché vada a votare. Lasciatemi in pace e accontentatevi di mio padre e mia madre. Voglio far parte - una volta tanto - di quel 4,1% che non andrà a votare preferendo farsi un’allegra frittura di cazzi suoi. Alla faccia del Granma, di Randy Alonso e pure delle statistiche, guarda.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

L’Avana, 20 luglio 2012

Traduzione di Gordiano Lup

 

Un colera mercenario

 

13 Luglio 2012

Solita vita al palazzo di Toyio, solite pisciate di cani e cristiani nel portone, solite buche sull’asfalto, soliti bambini che gridano e amanti che scopano quando nessuno li vede. Un vecchietto si aggira con le copie del Granma sotto braccio, diffonde la buona novella di una Rivoluzione sempre più solida e forte. Fa caldo e piove all’Avana, ogni giorno di più, le fogne scoppiano, il puzzo ammorba i quartieri popolari, la sporcizia dilaga tra bidoni che riversano a terra il contenuto e spazzini che non fanno il loro dovere. E in mezzo a tutto questo, le notizie si rincorrono, la gente parla, dicono che il colera si stia diffondendo anche all’Avana, che ci siano già stati diversi casi. Ma il governo smentisce. Ci sono troppi turisti di questi tempi a Cuba.

– Amico, mi dai una copia? –, dico al vecchietto.

– A cosa ti serve? Non guardi la televisione? – risponde.

– Poco. Mia madre spenge dopo la novela anche se mio padre litiga per vedere il notiziario. Dice che è stanca di sentire le solite balle…

– E tu no?

– Sì, certo. Sono stanco pure io, ma è meno tempo che le sento.

– Se vuoi il Granma dammi un peso, amico.

Pago e prendo la mia copia. Il vecchietto prosegue allibito. Sputa per terra e mi saluta, pensa che devo essere matto. Non ha fatto un affare. Compra a pochi centavos le copie del Granma per rivenderle ai turisti che sono più generosi, pagano quei quattro fogli sgualciti persino un peso convertibile. Si portano via le copie del Granma come se fossero un cimelio rivoluzionario, l’ultimo bollettino di guerra emanato dalla riserva comunista. Il Granma è un periodico senza incertezze, non coltiva il germe del dubbio, non vacilla di fronte al dovere, per i giornalisti di regime tutto è bianco o nero, non esistono mezze misure. Il colera? Una menzogna capitalista, un attacco dell’impero, una macchinazione coltivata da pericolosi mercenari.

Leggo l’articolo che m’interessa, un dispaccio governativo firmato Percy F. Alvarado Godoy, intitolato Guerra mediatica contro Cuba. Gli scrittori Lina de Feria, Reina María Rodríguez, Desiderio Navarro, Víctor Fowler e Daniel Díaz Mantilla, sarebbero agenti del nemico, aggressori della sicurezza rivoluzionaria, colpevoli di aver sostenuto che un’epidemia di colera potrebbe recare danni al paese, se non controllata in tempo dal Ministero della Sanità. Gli scrittori imperialisti hanno osato affermare che il vibrione proviene da Haiti, dove i nostri eroici medici rivoluzionari si sono recati a combattere l’epidemia, cosa impossibile perché è risaputo quanto il fervore internazionalista sia un’arma possente contro ogni tipo di infezione. Un vero rivoluzionario in lotta contro il nemico non si ammala, non si ammala mai, è immune da ogni tipo di contagio. Tu pensa che chi ha scritto l’articolo è Alvarado Godoy, una spia della Sicurezza di Stato infiltrata per oltre vent’anni a Miami nella Fondazione Cubano-Americana. Un tipo di cui fidarsi, non c’è che dire. Un uomo che trasmette sicurezza. Un giornalista sopraffino. Il Granma ribadisce il concetto dei dissidenti pagati dall’Impero, di Obama che impiega fondi per costruire la democrazia a Cuba, che paga gli intellettuali cubani e i blogger indipendenti tramite la Sezione di Interessi degli Stati Uniti all’Avana, organo costituito al solo scopo di screditare il governo. Mi chiedo perché non la facciano chiudere, allora. Mi domando perché - nonostante sia il rifugio di pericolosi controrivoluzionari - continui a svolgere le sue funzioni. Misteri del castrismo. Un nemico serve, forse. Meglio un nemico da incolpare che raccontare la verità. E allora vai con il tango dei controrivoluzionari pagati dalla Cia, sia Omni Zona Franca che il Festival di Poesia Senza Fine, ma soprattutto Yoani Sánchez, Guillermo Fariñas, le Dame in Bianco, tutti nel libro paga statunitense, stipendiati per dire il falso, per sobillare il popolo contro un governo giusto e rivoluzionario.

Non occorre leggere altro. Aveva ragione il vecchietto. Le menzogne come sistema di governo. Certo che ci considerano proprio scemi. Nel 1959, per molto meno abbiamo fatto una Rivoluzione. Richiamo il venditore di giornali, si è allontanato di pochi isolati, sta facendo colazione con un panino imbottito e un caffè nero nel bar più economico di Toyo, uno dei pochi che vende prodotti in moneta nazionale.

– Se rivuoi il tuo peso è tardi. Me lo sono mangiato –, dice.

– No, lascia stare. Ma riprenditi questa merda. Magari la vendi a un turista italiano. Pare che loro siano comunisti.

– Fanno i froci con il culo degli altri.

– Lascia stare i froci. Qui il culo ce lo fanno a noi…

– Ti avevo avvisato.

– Da qui in avanti leggerò solo Palante.

– I fumetti non sono migliori. Spie, traditori, imperialismo…

– Resta la parabola. Ho un amico che ha messo Internet di frodo.

– Attento, guarda che mi finisci sul Granma come servo dell’Impero.

Il vecchietto mi saluta. Ha finito il panino e ha bevuto il caffè. Prosegue verso il centro storico, le copie del Granma sotto braccio, alla ricerca di un turista ciccione in vacanza tra mulatte e cazzate rivoluzionarie. Cuba è in grado di appagare i suoi sogni. “La Sezione d’Interessi degli Stati Uniti è a caccia di giovani come Eliecer Ávila, desiderosi di soldi e protagonismo, ambiziosi che vogliono distruggere la Rivoluzione Cubana. Radio Martí e Diario de Cuba vogliono comprare le persone tramite concorsi. Yoani Sánchez organizza il Festival Clic con il denaro sporco dell’Impero ed è la più pericolosa controrivoluzionaria che vive all’Avana. Stipendiata dalla Cia e dalla Sezione d’Interessi, finanziata sotto forma di premi e collaborazioni giornalistiche”.

Questo è il Granma. Questa è la nostra informazione. Tutto andrebbe bene se non ci fossero gli imperialisti che vogliono distruggere il sogno rivoluzionario. E usano i mezzi peggiori. Persino il dengue e il colera.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

L’Avana, 12 luglio 2012

Traduzione di Gordiano Lupi


Quasi quasi faccio il "chulo"

Eduardo Hermida, 'pedro navaja', 2005

 

Manuel è quello che suona la tromba nel nostro gruppo ed è anche molto bravo. Lavorare non lavora, però. Si arrangia, come tanti. Qualche truffa qua e là, sigari di contrabbando, rum da poco prezzo, turisti coglioni che si fanno abbindolare...

“Lavorare per il governo non serve” dice sempre “che me ne faccio di venti pesos al mese?”.

Preferisce darsi da fare. Una sera che ci troviamo per un concerto mi prende da parte. Ha l’aria di chi deve confidarmi un segreto.

“Mi sono sistemato” fa.

“Hai conosciuto una straniera?” domando.

C’è poca scelta. Da noi sistemarsi vuol dire sposare un turista.

“Meglio” continua misterioso.

“In che senso?”. Meglio è impossibile, penso.

“Sto con Alina” conclude.

“Alina, quella che fa la jinetera?” domando io.

“Proprio lei”.

“Contento tu. Ma lo sai che Alina si ripassa di tutto? Stranieri, cubani con soldi... proprio di tutto”.

“Per questo ti dico che mi sono sistemato”.

“Vorresti dire che sei contento di fare il cornuto?”.

“No, che sono contento di fare il chulo”.

Il chulo. Ecco un'altra professione che ci siamo inventati, o meglio che abbiamo riportato in auge dai tempi di Batista. La Cuba di Fidel fa miracoli. Il periodo speciale aguzza l’ingegno. Chi l’ha detto che non c’è più lavoro? Qui abbiamo i mestieri più fantasiosi del mondo. Fare il chulo, per esempio. Adesso resta poco di quella vecchia figura di protettore in abito bianco e mocassini, sempre elegante e con il sigaro in bocca. Il chulo è un personaggio un po’ romantico che viene dal passato, da un’Avana fatta di case da gioco e posadas. È un cubano che fa innamorare una jinetera e poi vive da parassita alle sue spalle. Un bel lavoro, non c’è che dire.

“Lei è innamorata cotta” mi fa.

“E tu no?”.

Questo è importante. Se il chulo si innamora è finita. Un vero chulo non si innamora mai. Altrimenti vengono fuori un sacco di complicazioni. Gelosie. Tormenti. La vita diventa un inferno. Non è facile vivere con una jinetera, sapere che sta scopando con uno straniero in uno dei grandi alberghi della capitale o in una casa particular, oppure che sta ballando al Copacabana mentre tu mangi riso e fagioli in solitudine. Non è facile per niente. Per questo fare il chulo è un’arma a doppio taglio e non è cosa da tutti.

“Per piacere mi piace. Ma come si fa a innamorarsi di una jinetera? Ci vado a letto quando lei non ha altri impegni. Mi mantiene”.

“Bella vita davvero. Finché dura sei a posto”. Dico poco convinto.

A me l’idea di fare il chulo non è mai passata per la testa e l’opportunità ce l’avrei anche avuta. È che non sono adatto. Mi conosco come sono fatto. Però se lui ci riesce va bene. Tutti i modi per campare sono buoni, non è tempo di fare i moralisti.

“Perché non dovrebbe durare?” chiede Manuel.

“Dicevo così per dire” concludo.

Abbiamo un concerto stasera alla Casa della Cultura di Marianao e siamo già in ritardo. Non è il caso di stare a discutere di certe cose. Dobbiamo ancora passare a prendere Paco e Pablo. Armando ci aspetta là invece, lui abita poco lontano. Ci offrono persino la cena. Pollo fritto, patatine e birra chiara. Non me la voglio certo rovinare per dar consigli a un chulo.

 

Qualche giorno dopo rivedo Manuel. Abbiamo un altro impegno in una discoteca frequentata anche da stranieri e ci danno pure venti dollari a testa per suonare un po’ di roba tradizionale. Sempre le stesse cose, è naturale. Guantanamera, Me voy pa’ el pueblo, persino Hasta siempre… Si sa che quando ci sono i turisti il repertorio è obbligato. Però pagano e tanto basta.

“Come va?” gli chiedo.

Sono il solo che conosce la storia del chulo, anche se tutti lo sanno che sta con Alina. Lei non è certo una che passa inosservata.

“Bene” fa lui poco convinto.

“Allora la storia dura?” insisto.

“Certo che dura. Lei è sempre più cotta. E io faccio la bella vita”.

È una risposta secca e decisa. C’è anche una punta di risentimento nelle sue parole. Pare che non gli vada di affrontare quell’argomento.

Cominciamo il concerto. Il gerente del locale ha ingaggiato anche un gruppo di ballerine che si danno da fare dimenando il sedere davanti agli stranieri. C’è tanta gente ma pare che gli stranieri pensino soltanto alle ragazze. Guardano, scelgono, pregustano un fuori programma interessante dopo lo spettacolo. Il gerente ha organizzato qualcosa con le ballerine, questo è certo. Noi dobbiamo solo far passare il tempo suonando musica d’altri tempi.

“Non c’è gran soddisfazione a fare spettacoli così” dico a Paco.

“Pagano abbastanza, tanto basta” risponde lui.

“Anche a saltare i pasti c’è poca soddisfazione” sorride Armando.

“Sì, in fondo venti dollari fanno comodo” conclude Pablo.

L’unico che non dice niente è Manuel. Lui non ha bisogno di venti dollari. Ha risolto ogni problema da quando sta con Alina. Fa la bella vita. Buon per lui. Intanto suona la tromba e accompagna la voce di Paco intonando le note di Hasta siempre.

Quasi quasi faccio il chulo anch’io, penso. Pesto forte sulla batteria come se la colpa fosse sua. Lo so che fare il chulo non è cosa per tutti. È un po’ come scrivere e suonare. Bisogna esserci portati. Allora è meglio che continui con le cose che so fare, tanto tra poco mi pubblicano il romanzo e allora altro che chulo...

 

Rivedo Manuel quasi un mese dopo. È un po’ che non ci chiamano a suonare e io ne approfitto per studiare. Gli esami della sessione estiva sono vicini e tra spettacoli e romanzi da scrivere non è che mi sia proprio ammazzato di lavoro durante l’anno…

Stasera siamo a una festa privata in casa di gente che conosce Pablo, quello che suona la chitarra. Si celebra un fidanzamento, una cosa tra cubani, ci tiriamo fuori un invito a cena e niente di più. Però meglio che niente. E poi ci piace suonare. Qui siamo liberi di fare le cose che vogliamo. Anche un po’ di rock, dopo salsa e merengue, magari non troppo duro perché la gente vuole ballare.

“Sto male” mi dice Manuel a un certo punto della serata.

“Cosa c’è che non va?” domando.

“Devo prendere un po’ d’aria” continua.

“Alla prima pausa ti accompagno”.

Quando la musica si ferma usciamo sul balcone. La casa dove suoniamo è in un condominio di Centro Avana. Ci affacciamo su di una strada stretta e polverosa circondata da palazzi cadenti, poco lontano un cumulo di macerie ricorda che da queste parti qualche anno fa è passato el niòo. Manuel sta proprio male. Ha il volto tirato, lo sguardo perso nel vuoto, pare che tutto quel che sta facendo non abbia senso. Persino suonare che da sempre è la sua unica passione.

“Cosa ti succede, Manuel?” chiedo.

Lui non risponde. Continua a guardare fisso nel vuoto.

“Quella puttana…” mormora.

Sta parlando di Alina. Ci vuol poco a capire.

“Mai una sera che stiamo insieme, che mi venga a sentire quando suono, che usciamo a ballare. Ha sempre da fare. Impegni. Stranieri. Io non conto niente per lei” continua.

Continuo ad ascoltare Manuel in silenzio. Lui tira fuori ancora tutta la sua amarezza nei confronti di Alina che lo trascura. Non so che rispondere, in questi casi è meglio ascoltare in silenzio. Non vorrei complicare le cose. Manuel è innamorato, purtroppo. E quando ci si innamora di una jinetera è la fine.

“E poi ha detto che mi vuol lasciare perché sono troppo geloso e lei vuole la sua libertà” conclude.

Manuel ha il volto rigato dalle lacrime. Piange. Lo vedo distrutto da un dolore che ho provato spesso e so quanto si stia male. Magari non per una jinetera, però sono stato innamorato anch’io di persone che mi hanno fatto soffrire. Brutta bestia l’amore. Pare che non se ne possa fare a meno, però.

“Tu non puoi capire” mi fa.

Certo che capisco, invece. Se non parlo è perché c’è poco da dire e soprattutto quel che direi non servirebbe molto a Manuel.

A fare il chulo bisogna esserci portati, caro mio. E di Pedro Navaja ne nasce uno ogni cent’anni, che Pedro Navaja era un chulo vero dei tempi di Batista, uno di quelli che lo vedevi da lontano che era un chulo. Scarpe nere sempre brillanti di ceretta, vestito immacolato, baffi arricciati e sigaro in bocca. Un po’ come scrivere. C’è in giro tanta gente che scrive, compreso me, anche se di Lezama Lima in giro se ne vedono pochi. Tanta gente che riempie fogli di cose inutili, che non sa cosa dire. A parte Gutierrez, via.

Però queste cose mica gliele dico. C’è il caso che si butti dal terrazzo di quell’appartamento in Centro Avana, tanto è disperato. Sfodero una sfilza di luoghi comuni, quelle cose che si dicono in questi casi, tipo che Alina non lo merita e che di donne all’Avana è pieno, basta guardarsi intorno e che fare il chulo non è cosa per lui, bisogna esserci tagliati. Manuel pare capire e un po’ si tranquillizza.

“Grazie, sei un amico” mi fa.

Rientriamo in casa e continuiamo a suonare. La serata va avanti senza sorprese. Concludiamo con un po’ di rock americano, ci sono parecchi ragazzi che ce lo chiedono. Bene, almeno mi sfogo a picchiare duro sulla batteria. Manuel dà fiato alla sua tromba e sembra sereno. Gli altri hanno capito poco di quel che è successo. Si va avanti così sino alla fine. Lasciamo la festa che è quasi mattino. Anche domani non si studia e non si scrive. Tanto per cambiare.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

 

Risaparmio o Morte


 

Cambiano i tempi, si modificano gli slogan. Risparmio o morte! mi piace, certo si adatta meglio alla nostra situazione di Patria o morte!, ché ora come ora chi cazzo ci pensa più alla patria?

Babbo no, però. Lui è della vecchia guardia. A lui piaceva di più il patriottismo, quel maledetto nemico yankee da combattere, l’embargo sempre più duro e la sindrome dell’assedio, i vermi che se ne vanno, le scorie da eliminare… Cosa ci volete fare? Lui è un romantico della Rivoluzione, ha partecipato a tutti gli atti di ripudio, fa le marce, segue le riunioni del CDR, va a votare ogni volta che lo chiamano e sulla scheda scrive sempre il nome che gli dicono. Adesso è un po’ di tempo che gli girano le palle, dice che noi giovani siamo disfattisti, vogliamo distruggere il lavoro fatto in cinquant’anni di Rivoluzione. Ha saputo che ci sono persone che pubblicano critiche controrivoluzionarie su internet ed è uscito di melone. Io mica gli ho detto che sono amico di Yoani Sánchez - pure se su internet non ci scrivo, preferisco la carta - mica lo voglio far morire d’infarto povero babbo che ci crede ancora a questa comica Rivoluzione, forse perché pure lui l’ha fatta e gli costerebbe ammetterne il fallimento. In ogni caso oggi siamo tutti davanti alla televisione, ché Holguin è lontano, mica ci si può andare, dall’Avana ci vogliono almeno cinque ore, se si trova un mezzo pubblico che non si rompe e se c’è abbastanza benzina. E poi, detto tra noi, chi avrebbe voglia di andare a sentir parlare Speedy Gonzales. Passi Fidel quand’era nei suoi cenci, ma il topastro non lo reggo proprio.

– Accendi la televisione – fa mio padre.

La mamma molla sul tavolo fagioli e riso da pulire per cena, sospira rassegnata e ubbidisce come sempre.

– Comincia la messa? – ironizzo.

–Un po’ di rispetto per chi pensa al nostro futuro – dice lui.

– Se vedessi un futuro potrei credere che qualcuno ci sta pensando.

Mamma sorride dietro la grande pentola dove prepara il congrís.

Babbo non risponde. Adesso è tutto preso dallo sventolio di bandiere bianche e rosse in una piazza gremita di magliette e persone bruciate dal sole. Il vecchio spera nel miracolo della politica che affronta i problemi della gente. Niente di più improbabile.

– È un discorso importante… – mormora.

– Si festeggia una sconfitta. Cosa può venir fuori d’importante?

Fidel era un grande. Una follia come l’assalto alla Caserma Moncada che costò la vita a tanti giovani cubani trasformata in festa nazionale, la celebrazione di un evento, il primo atto armato della Rivoluzione. Altri avrebbero voluto soltanto dimenticare un giorno così infausto. Lui no. Lui trasformava in oro tutto quello che toccava. Speedy Gonzales al massimo gli riesce con il formaggio. Adesso ha buttato fuori un sacco di gente dal governo, dice che facevano i festini col nemico e s’erano dati ai lussi borghesi. Perez Roque non mi piaceva nemmeno quando rideva, ma Carlos Lage pareva un tipo a posto. Vai a sapere dov’è la verità e le cose che combinano in certi posti. Ma ora zitti che è arrivato lui, questa volta non parla Francisco Soberon e neppure un ministro qualsiasi, no, questa volta ascoltiamo il generale in persona.

– Sono sicuro che nessuno di voi mi può vedere, caso mai vedrete un’ombra. Ecco, quell’ombra sono io –, dice.

Cazzo se è un grande il vecchio Speedy. Lui è sempre stato un’ombra. Non ha mai brillato di luce propria. Ora la mette in battuta, parla di un effetto controluce che mostra una sagoma scura, ma centra il bersaglio.

– Niente latte per tutti. Niente olivo per il nemico. Niente di niente, babbo. Sono cazzi da cacare. Solo risparmio o morte!

– Disfattista. Sei un maledetto disfattista. Tu e i tuoi amici che scrivono su internet.

– Io scrivo in Italia, babbo. E mangiamo anche con quello…

Mamma sorride. Si vede che approva, ma non può contraddire il vecchio. Ha messo riso e fagioli sul fuoco.

– Ne abbiamo ancora per molto? – chiede.

– No, mamma. Lui è di poche parole. Mica è come il fratello…

– Non contano le parole. Servono i fatti – dice mio padre.

– Sono sempre mancati. E adesso non ci sono nemmeno le parole.

Mio padre mi fulmina con lo sguardo. Spenge la televisione. Cerca di non darlo a vedere, ma si capisce che è deluso. Il discorso dell’ombra mica gli è piaciuto. Si aspettava grandi cose e ha dovuto accontentarsi della solita retorica. E intanto il tempo passa, il crepuscolo si avvicina, questa gente al potere resta nell’ombra, ma non si eclissa. Tutto il resto è la solita vita di sempre.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

 

Largo ai giovani

Jardim (da 'El Nuevo Herald')

 

25 Aprile 2011

 

Si è concluso il Sesto Congresso del Partito Comunista, per fortuna, ché adesso mio padre almeno si smuove dalla televisione e guardiamo altro, meglio la telenovela della sera guarda, persino i programmi culturali che ripetono per l’ennesima volta la storia della Rivoluzione Cubana e l’assalto al treno di Che Guevara a Santa Clara.

– Papà, hai visto che non è cambiato niente? Cosa ti dicevo?

– Sta cambiando il mondo, ragazzo. Come fai a non rendertene conto? I cuentapropistas, le case in vendita, le automobili che si possono comprare, la tessera del razionamento che scompare… ti pare poco?

Mio padre si lascia convincere facilmente. Non è cattivo. È medico, ma per campare porta a giro i turisti in sidecar, nonostante tutto crede ancora che le cose cambieranno, che presto i problemi saranno risolti, che la strada intrapresa è quella giusta. Ha fiducia in questa gente, buon per lui, che a me solo vedere le solite facce in televisione mi mette ansia, ma forse è un problema mio, forse sono io quello fatto male, forse pretendo troppo.

– Ma la doppia moneta, gli stipendi ridicoli, la libertà di parlare, di muoverci, di riunirci in associazioni, magari per scrivere, criticare, comporre canzoni di protesta…

– Non fare discorsi sovversivi. Che libertà e libertà! Noi siamo un paese in guerra, accerchiato dall’Impero. Dobbiamo resistere.

– E questi vecchietti dovrebbero guidare la resistenza?

Un mio amico che naviga su Internet di frodo quando lavora in ufficio ha scaricato una vignetta dove si vedono Raúl e Fidel vestiti da uomini delle caverne, stile Fred e Barney degli Antenati, dietro di loro c’è Machado Ventura con le sembianze di un dinosauro. Fidel è seduto su una panchina e dà il cibo ai piccioni, mentre alza la mano di un arzillo Raúl in segno di vittoria, simboleggiando un passaggio di consegne. Largo ai giovani! Mi ha detto. Ecco questa battuta è la migliore che ho sentito dopo la fine del Sesto Congresso del Partito Comunista, che poi perché lo chiamano comunista non l’ho ancora capito, mica serve distinguerlo da altri, tanto c’è solo quello. Quasi quasi faccio vedere la vignetta a mio padre, chissà come la prende, forse gli smuovo le certezze, pure se il Granma ha detto che va tutto bene, presto saremo fuori dalla crisi, ché noi siamo un paese capace di modificare il sistema senza produrre sconvolgimenti sociali. Per fortuna. Tu pensa se non era vero, sai la fine che facevamo… ma no, non ci comportiamo da disfattisti come certi giovani che aprono i blog e scrivono su Internet, ché loro sono pagati dall’Impero. No, facciamo i rivoluzionari, ché il mondo si divide in vermi e rivoluzionari, rivoluzionari e scorie. Tutto il resto sono chiacchiere, come dice sempre Fidel Castro - ché lui di chiacchiere se ne intende - quando un prigioniero politico si mette a fare lo sciopero della fame.

– Papà, ma la danno la partita di baseball stasera?

– Certo, su Tele Rebelde, dopo il telegiornale.

– Bene. Questa è una buona notizia.

Il Congresso è finito. Si torna alla solita vita di sempre, ché siamo in buone mani, esperte, direi quasi incartapecorite, gente che conosce bene questa Rivoluzione, magari c’hanno l’Alzheimer, ma governano ancora, sono gli eredi di loro stessi, il segno che i tempi non cambiano, ma si consolidano. Pensiamo ad altro che è meglio. Abbiamo le prove con il gruppo, ché la prossima settimana si suona alla Casa della Cultura di Luyanó, devo finire di scrivere un romanzo ambientato in Brasile, ché a Cuba i problemi non ci sono, adesso parlo del Brasile che è meglio, mi fa meno male. Juliana mi vuol vedere, buon segno, ché una mulatta scaccia i pensieri come niente al mondo, meglio d’una bottiglia di rum. Non ti lascia mai la bocca amara.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

 

Lo zio Palero (bozzetti avaneri 10)

 

 

 

 

Sono la pecora nera della famiglia, credo. Soltanto io non rispetto i riti della santeria e non sono capace di credere in niente. E pensare che ho persino uno zio palero che mi ha fatto da padrino quando mi hanno battezzato. Perché la santeria è una religione strana, devi essere anche cristiano se vuoi farne parte e se non sei battezzato non ti accettano. Io quel che so della santeria l’ho studiato a scuola per via dell’esame di storia delle religioni e ho letto che un tempo era diversa. La santeria veniva dall’Africa, era la religione degli schiavi che camuffavano le loro divinità con i nomi e le immagini dei santi cristiani. Questo perché gli spagnoli non erano proprio un esempio di tolleranza. Anche a Cuba c’era gente tipo Torquemada che per inchiodare qualcuno a una croce o farlo bruciare su di un rogo gli bastava il sospetto che non fosse cristiano. Adesso no. Adesso la santeria è una sorta di miscuglio di cristianesimo e riti africani che non ci si raccapezza più nessuno. A parte i santeri. Lo chiamano sincretismo. A me pare una specie di ajiaco, un minestrone criollo che riunisce sapori diversi. In ogni caso non è affar mio. L’esame di storia delle religioni l’ho superato con il massimo dei voti e adesso credo di non dover più fare i conti con la santeria.

L’unico collegamento che resta tra me e il soprannaturale è lo zio Rolando, il fratello di mio padre. Dice mio padre che quando avevo poco più di tre anni ha scacciato gli spiriti maligni che si erano impossessati di me sotto forma di strani virus.

“Sarà stata una malattia...” rispondo.

“Che malattia e malattia!” grida mio padre “Non c’era medico che ci capisse qualcosa!”.

“Tuo zio è un gran palero” aggiunge mia madre “vanno a consulto da lui da ogni quartiere dell’Avana”.

Che poi un palero è qualcosa di più di un santero. Nella scala gerarchica è un po’ come un cardinale rispetto a un prete. Se mi sentisse mio zio fare certi paragoni alla prossima messa spirituale mi manderebbe qualche spirito maligno a scuotermi sotto le lenzuola per non farmi dormire, però non saprei come farlo capire meglio di così. Mio zio è proprio un palero. Uno che ha autorità e carisma e può fare anche magia nera e cose molto cattive. Ha persino la prenda con le ossa dei morti, una specie di casseruola in alluminio che tiene nello stanzino del cortile. Dice sempre mio padre che molti anni fa Rolando ha fatto morire delle persone con quell’attrezzo infernale. C’era gente che molestava la sua famiglia, volevano togliere la casa alla mamma e renderle la vita impossibile.

“Lo hanno costretto a uccidere” dice mio padre “però lui usa la magia nera soltanto quando non ne può fare a meno”.

“Per fortuna” rispondo.

“Doveva scegliere tra la mamma e chi le voleva male. C’era poco da fare”.

“Ma come si liberò di quella gente?”.

“Provocò un terribile incendio nella loro casa”.

“E non può essere stato un incidente?”.

“Ma quale incidente…” fa mio padre.

“Possibile che tu non creda mai a niente?” aggiunge la mamma.

Possibile sì. Credo solo a quello che vedo. Per questo vado spesso dallo zio Rolando, le cose che fa mi incuriosiscono e sono una buona fonte d’ispirazione per qualche racconto. Adesso mi sono messo in testa di scrivere delle brevi storie ambientate all’Avana. Bozzetti avaneri, credo che li chiamerò. E della santeria devo pur parlare.

Rolando abita dalle parti di Marianao in due stanzette malandate dove accatasta immagini votive, statue di San Lazzaro, pupazzi di Elegguà e tutti gli attrezzi che usa per le cerimonie. Vive solo.

“Un santero non può avere una donna” dice.

Però ne avrebbe bisogno. Vive in un ambiente sudicio e malsano, dorme su di un materasso dove di sicuro banchettanno pulci e zecche. Il bagno ha la tazza senza coperchio e lo scarico dell’acqua non funziona. Per essere un palero è messo male. Per non parlare dell’aspetto fisico. Da quando la moglie lo ha mollato si è lasciato andare ed è ingrassato a dismisura, ha sempre la barba lunga e i vestiti rattoppati e sporchi. Dice che non è importante, che non si vive per apparire. Sono d’accordo sul principio, ci mancherebbe altro. Però a tutto c’è un limite. Avrebbe bisogno di una donna, mio zio. Ma non ne vuol sapere. Secondo me è sempre innamorato di Esmeralda e se tornasse la riprenderebbe subito, perdonandole la fuga e il tradimento. Ma Esmeralda mi sa che non torna e lui si consola con le messe spirituali e le evocazioni degli orishas. Mi chiedo perché non faccia qualcosa per se stesso, se ha proprio tutto questo potere. Un giorno è proprio lui a darmi la risposta.

“Un palero non può usare il potere per scopi personali”.

“Perché?” chiedo incuriosito.

“Sarebbe una cosa molto pericolosa che gli si ritorcerebbe contro”.

“E se hai un problema da risolvere?”.

“Vado da un altro palero”.

“Mi pare la catena di Sant’Antonio” concludo.

Ce ne sono di stranezze nella santeria. Oddio, anche nel cristianesimo non è che ce ne siano meno. Un po’ in tutte le religioni ci sono cose incomprensibili e pare che vadano accettate. La chiamano fede. Sarà che io non sono portato. Tutto qui.

“Zio, raccontami qualche rito importante che hai fatto” gli chiedo un giorno che mi trovo a casa sua.

Lui non si fa pregare quando c’è da parlare di santeria. È il suo argomento preferito. Però se immaginasse che le sue storie mi interessano soltanto per i miei racconti non me ne parlerebbe mai.

“Lo sai che ho salvato tuo padre dalla galera quando eri soltanto un bambino che andava alla primaria?”.

“No. Questa cosa non me l’ha detta nessuno”.

Non è mica vero. Figurarsi se mio padre non mi ha raccontato la storia di quando comprò la carne di cavallo e lo volevano mettere in galera. Però sentirla narrare dalla voce di zio Rolando è tutta un’altra cosa.

“Tuo padre sarebbe finito in galera per almeno cinque anni se non fosse stato per me”.

Poi mi dice che il babbo aveva comprato carne di cavallo da un tale che aveva ammazzato una bestia di proprietà dello stato. Qui non si sbaglia. È tutto dello stato. Lo stato ha potere di vita e di morte persino su cavalli e mucche. Queste sono considerazioni personali che c’entrano poco, le faccio caso mai il racconto lo leggesse uno che non è cubano. Immagino la meraviglia. “Che cavolo di reato sarebbe ammazzare un cavallo?”. A Cuba lo è, come non si possono ammazzare maiali, mucche e tante altre bestie di proprietà dello stato. Quindi teniamone conto e andiamo avanti con la storia.

“Venne da me tua madre a supplicare aiuto. Io confezionai una polvere con ossa di morti sbriciolate, erbe segrete, gusci d’uova e le dissi di andare in tribunale il giorno del processo e di metterla sulle sedie dei giurati prima che entrassero in aula”.

“E cosa accadde?”.

“Tua madre fece quello che le dissi e mio fratello fu assolto”.

“Com’è possibile?”.

“Sparirono le prove del reato e il testimone non si presentò a deporre”.

“Tutto per merito della tua polvere…” faccio io scettico.

Per fortuna lui non si accorge della intonazione sarcastica della mia voce. Rolando è troppo preso dalle cose che sta raccontando.

“Proprio così. Ma ho fatto cose anche più difficili”.

“Racconta. Sono qui per questo”.

Non prendo appunti perché si insospettirebbe. Però mando tutto a memoria. Penso già a come impostare il racconto sulla santeria. Mio zio è il protagonista, malgrado tutto.

“C’era una ragazza di Marianao che aveva una figlia mulatta dal suo primo matrimonio. Lei voleva risposarsi con un ragazzo biondo che aveva conosciuto da poco e venne da me per chiedere consiglio…”.

Questa storia non la so per davvero, penso. E ascolto con attenzione.

Lo zio Rolando va avanti.

“Io le dissi di non sposarsi perché il ragazzo aveva su di sé una maledizione. Insieme avrebbero generato una figlia che sarebbe morta di un grave incidente dopo solo tre anni di vita”.

“E cosa fece la ragazza?”.

“Non accettò il mio consiglio e si sposò lo stesso. Dal matrimonio nacque una bella bambina bionda”.

“E dopo?” domando incuriosito.

“Un giorno le due bambine restarono sole in casa e alla più grande venne voglia di cuocere sul fuoco dei dolcetti di meringa. Purtroppo la fiamma si propagò dal dolce e la bambina spaventata lasciò cadere la forchetta con il dolce proprio dentro un contenitore pieno di alcol. Si sprigionò una fiammata incredibile che avvolse la bambina più piccola. La sorella tentò di salvarla immergendola nella vasca piena d’acqua ma ottenne soltanto di farla morire affogata”.

“E così si avverò la tua profezia”.

“Purtroppo. Morirono entrambe. La più grande pochi giorni dopo in ospedale per via delle gravi ustioni riportate. La madre non si è mai data pace ed è impazzita per il dolore”.

Storie strane, non c’è che dire. Resto dell’idea che sono soltanto un insieme di combinazioni, di voci popolari, di fantasie della gente. Però inquietano a sentirle raccontare. C’è poco da fare.

Si è fatto tardi. Saluto lo zio e me ne vado in direzione Centro Avana a bordo del mio sidecar arrugginito. Storie di santi e riti misteriosi si affacciano alla mia mente. Fanno parte della nostra vita, si risolvono tutti i problemi ricorrendo ai santeri in questo paese. Loro evocano i morti, parlano con i santi, scacciano gli spiriti maligni, predicono il futuro. Se potessi dire che mi pubblicano un romanzo in Italia mi farei predire subito il numero delle copie vendute e i dollari di diritti. Anche se dico di non credere. Anche se penso che siano tutte balle. Ho uno zio palero che vive a Marianao che risolve i problemi di tutti e non può fare niente per me. Ma forse è meglio così. Almeno non dovrò ringraziare nessuno. Neppure uno stupidissimo santo.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

 

Ancora e sempre primo maggio

 

Pure se non faccio un cazzo dalla mattina alla sera festeggio il Primo Maggio. Ci mancherebbe altro. Ogni scusa è buona. Bottiglia di rum in mano, birra gelata nel sacchetto con il ghiaccio che porto a tracolla e via andare. Donne ne troveremo, all’Avana manca tutto ma non le donne. Oggi neppure si suona, non facciamo le prove con il gruppo. Oggi è il Primo Maggio, signori. Si fa bisboccia fino a tardi e si rientra a notte fonda, magari si va sul mare a fare un bagno. Magari si tenta pure di scopare, che fa bene alla salute. Non mi passa nemmeno per la testa di andare alla parata in Piazza della Rivoluzione, tra bandiere e danze che ricordano il passato per dimenticare il presente.

Il problema è che l’amico del CDR mi becca proprio sulla porta. Proprio lui dovevo incontrare, cazzo. Proprio lui vestito con la guayabera dei giorni di festa…

– Compagno, non vai in piazza a festeggiare?

Provo a scherzare, ma con questa gente mica è facile.

– Perché? C’è qualcosa da festeggiare?

– Compagno, non ti sarai scordato del Primo Maggio?

Indico la birra gelata e la bottiglia di rum.

– No, amico. Ho tutto quel che serve.

Lui mi guarda con aria severa. Non è il tipo che la butta in battuta. Meglio abbozzare.

– Compagno, mi giungono voci strane sul tuo conto. Dicono che scrivi. Ora, io non leggo libri, ma c’è chi dice che scrivi cose poco in sintonia con il progetto sociale che portiamo avanti. Questo è male…

Corro ai ripari e la sparo grossa.

– Voci senza fondamento, compagno. Il mio ultimo racconto uscito sulla rivista universitaria è ispirato alle gesta di Elpidio Valdés durante la guerra d’indipendenza.

Tanto il compagno del CDR al massimo guarda i cartoni animati. Non credo che abbia mai letto Lima e Carpentier.

– E allora cosa aspetti a salire sul torpedone e a gettare il tuo ardore rivoluzionario tra la folla di Piazza della Rivoluzione?

– Stavo giusto andando… – commento.

E mi tocca salire davvero su quella specie di autobus pieno di gente appiccicata che puzza di sudore. Un giorno di maggio sprecato. Mi tocca andare alla parata e mollare gli amici all’angolo di Toyo…

Arrivo nella piazza gremita di bandiere e vedo il palco addobbato a festa. Tanta gente che parla. Corpi di ballo che sfilano. E la parola Rivoluzione sulla labbra di Speedy Gonzales non ha lo stesso suono d’un tempo. Scivola via flebile, poco convinta, lui parla poco, preferisce ascoltare, guardare, sorridere dietro baffetti da topo.

Penso a mio padre. Lui ha creduto davvero in questa esibizione di bandiere e retorica. Ha fatto sacrifici enormi per andare avanti, come tutti s’è adattato alla situazione, s’è messo a fare il tassista, ha condotto turisti in giro per L’Avana, credo che abbia pure rubato per portare a casa roba da mangiare. Ricordo che una volta prese un coniglio che a mia madre piaceva tanto, lo teneva per compagnia, gli tirò il collo e lo mise in padella. “Non è il momento di tenere animali in casa” disse. Fu un sacrificio rivoluzionario per riempire una tavola vuota. E un’altra volta tirò il collo a una gallina che non voleva saperne di covare le uova, uccideva i piccoli con il becco, non li faceva crescere. “Una cattiva madre non merita di vivere” commentò. E la sera servì brodo di gallina e carne bollita. Credo che pure diversi gatti del vicinato siano finiti sulle mense imbandite, ma lui diceva che era stato in campagna e aveva rimediato un coniglio. La carne era dura, ma la fame tanta.

Penso a mio padre con gli occhi rivolti al palco. Ricordo che una volta mi divertivo a gridare, confuso tra la folla, una frase dal suono simile alla parola d’ordine indicata dal Comandante. “Almeno il pane, Fidel! Almeno il pane!” dicevo. E non ero il solo. Soltanto le prime file gridavano: “Disposti a tutto, Fidel! Disposti a tutto!”. Il suono si confondeva tra decine di migliaia di altri suoni. E avremmo voluto soltanto il pane, Fidel. Davvero. Non c’importava un cazzo della politica e del nemico imperialista. Tu forse non lo sai, ma il popolo pensa soprattutto a riempire la pancia. Per la gente un buon governo assicura pane e libertà. Tutto il resto sono cose da politici.

Mi guardo intorno. Una bella creola dal sedere invitante sculetta davanti ai miei occhi. Ha lo sguardo malizioso delle nostre donne che quando ti sorridono sembrano spogliarti con gli occhi. Altro che ascoltare Speedy Gonzales e pensare al nemico imperialista! Altro che i cinque eroi prigionieri dell’impero! Questo culo vale più di mille parole d’ordine e non servono esortazioni dal palco per tentare un approccio.

– Se cucini come ti muovi, mi faccio invitare a pranzo – dico.

Lei sorride maliziosa. Aveva capito tutto e sentiva i miei occhi fissare il suo culo. Dicono che gli sguardi richiamino l’attenzione e forse è vero.

– La cucina non è la mia specialità, ma se ti accontenti…

– Nel sacco ho birra gelata e rum. Non serve molto altro, credo.

– Riso e fagioli ci sono. Un pezzo di maiale, pure.

– E la febbre suina? Non sarà pericoloso?

– Non frequento messicani. Mica sono una jinetera, cosa credi?

– Bene. Un po’ di nazionalismo ci vuole. Nessuno soddisfa una donna meglio di un cubano.

– Questo devi ancora dimostrarlo.

– Non chiedo di meglio. L’energetico è nel sacco.

Tiro fuori la bottiglia di rum bianco, pessime scintille di treno fabbricate in casa, ché il rum buono costa troppo per le mie tasche. – Basta che dopo non ti addormenti.

– Se non mi sono addormentato qui…

E indico Raúl che parla di Rivoluzione dall’alto d’un podio. Sembra un topolino da cartone animato, mio Dio come siamo caduti in basso, tanto per citare un film italiano che ho visto la scorsa notte su Cubavision…

– Andiamocene da questa pagliacciata – dico alla bella creola – tanto chi vuoi che se ne accorga…

Lei sorride e mi prende per mano. Scappiamo via tra la folla che grida e il sole che picchia forte sul selciato. Non so neppure come si chiama. Mi pare d’essere finito dentro Ultimo tango a Parigi, solo che il protagonista sono io, mica Marlon Brando. Spero che in dispensa abbia abbastanza burro, ché di questi tempi scarseggia. Non vorrei dovermi adattare al grasso di maiale. E mica soltanto per friggere le banane…

 

Alejandro Torreguitart

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

Fidel che non parla mi fa preoccupare…

 

Ora mi sembra d’avergli portato merda, povero Fidel, ché da quando è uscito il mio libro in Italia non ha più scritto una riflessione che una. Mica sarà morto davvero, mi chiedo, mentre passeggio per Centro Avana come sempre senza un cazzo da fare. Povero Coma-andante, come lo chiama Zoé Valdés da prima che fosse più morto che vivo, come dicono i medici di Pinocchio, alla guida della Rivo-lozione, tanto per citare ancora la Valdés che confidenzialmente la chiama Rivo, tanto si capisce che è la stessa merda. A me la Valdés me la mandano nascosta nei pacchetti coi vestiti e lo scatolame, me la spedisce mia cugina che vive in Italia e io glielo dico sempre che la vorrei leggere in spagnolo, ché con l’italiano faccio una fatica bestia, ma lei niente, dura come il marmo di Carrara che c’è pieno di tombe al Cementerio Colón, c’hanno fatto pure quella di Carpentier pace all’anima sua, dice che l’italiano è simile allo spagnolo. Simile un cazzo. Io mica vivo in Italia da dieci anni. So assai dell’italiano, che vado a tentoni, ci provo, comprendo le assonanze, ma ci metto una vita a decifrare una pagina.

Insomma, gira picchia e mena, me ne vado per Centro Avana e penso che la vita va avanti sempre allo stesso modo, tutto è come quando c’era Lui, non cambia niente, si lavora e si guadagna un cazzo, però possiamo comprare telefonini. Ci prendete per il culo? Accomodatevi, tanto siamo cubani. A casa mia si comprano le banane e finisce lo stipendio, fino al prossimo turista da scarrozzare per L’Avana sopra un sidecar sopravvissuto alla scomparsa della Russia.

“Ci vorrebbe un po’ di carne per cena, Alejandro”, grida mia madre mentre esco. Cazzo mamma, lo so, ma per ora accontentati che puoi fare le ferie in un albergo, mica puoi pretendere tutto dalla vita. Con quali soldi le farai non lo so, ma tutto si risolve e poi non è un problema di Raúl. Siamo o non siamo il popolo più inventivo della Terra? La nostra fantasia non ha limiti. Allora immaginiamo. L’immaginazione al potere è una gran cosa, come diceva Che Guevara un po’ di tempo fa.

Tanto a me fra poco m’arrivano cinquecento euro, ché dice il camaján m’hanno comprato il libro, o meglio l’hanno comprato a lui, i soldi li riscuote, poi me li manda. Speriamo sia vero, ché di questi italiani fanfaroni mi fido poco e c’avrei pure le palle piene se non dovessi sbarcare il lunario. Magari con questi cinquecento euro ci compro un bel maiale da fare allo spiedo, qualche cassa di birra e una decina di bottiglie di rum, ma di quello buono, mica cispes de trén spacca budella, che n’avrei proprio voglia. Quello che avanza lo investo con Yolanda, grandissima troia di Centro Avana che batte tra Sol y Compostela, mi faccio fare un pompino come fossi un turista, ché per un giorno sono turista anch’io, c’ho la grana, non può dire di no.

A spasso per Centro Avana, senza un cazzo da fare, solo sognare, fantasticare, vedere autobus cinesi al posto di vecchie guaguas. Non c’è più il camello, peccato. M’ero affezionato a quel vecchio rottame. I pullman cinesi puzzano meno, sono puliti, funzionano meglio, corrono spediti, costa parecchio salirci sopra e per ora vado a piedi che è meglio, la linea ne guadagna e poi camminare fa bene, dicono.

Cammina che ti cammina vedo passare mulatte dai culi abbondanti, ché se pure la gente mangia poco i sederi sono quelli d’una volta, non c’è da lamentarsi, le nostre donne ci sollevano da tanti dolori e riducono le preoccupazioni. Almeno quelle che restano. E mica sono tante.

Parliamo di sesso che ci resta soltanto quello, non è proibito.

Pontifichiamo sulla fica d’una nera e sul culo d’una creola, sulla bocca carnosa d’una mulatta e sui fianchi d’una ragazzina che celebra la festa per i quindici anni. Lasciamoci andare a una danza frenetica che non fa pensare, reggetón, salsa, va bene tutto, basta afferrare il culo d’una mulatta alla prossima esquina, farsi travolgere dall’assenza di pensieri.

Pensare fa male. Pensare è sconsigliato. Pensare è compito di Fidel.

Siamo abituati così, da troppi anni.

E allora perché non parli?

Fidel che non parla mi fa preoccupare…

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

 

 Donna di fuoco (Bozzetti avaneri 3)  

 


 

Solo all’Avana puoi trovare una donna di fuoco, una donna che ti fruga l’anima in cerca del tuo cazzo e tu puoi raccontarle qualsiasi cosa della tua vita, di quel che fai, dei tuoi progetti. A lei non interessa niente. A lei interessa solo il tuo cazzo. E se capita di incontrare una donna così finisce che per un po’ di tempo non riesci a pensare ad altro che alla sua fica. Sì, perché questa donna si prende ogni spiraglio della tua vita, ti risucchia ogni istante e tu non ce la fai a fare altro che scopare. Allora finisce che non suoni, che non scrivi, che non dai più esami. Finisce male, ecco come finisce. Io lo so perché l’ho incontrata una donna di fuoco, una volta. Si chiamava Maria ed è stata colpa di Juliana, che Dio se la porti.

“Un giorno di questi vengo a sentirti suonare” mi fa Juliana una sera che ero a casa sua per prendere appunti sul nuovo romanzo che sto scrivendo, quello sui ricordi della sua vita, che se non ci fosse lei non saprei davvero come fare, non saprei che scrivere.

“Puoi venire sabato” le rispondo “suoniamo alla Casa della Cultura”.

Lei accetta con entusiasmo.

“Bene. Porto anche Maria” conclude.

Maria fa la jinetera con lei, quando cala la sera battono il Malecón a caccia di stranieri. Maria è una che dire che è puttana non rende bene l’idea per quanto è puttana. Maria è una donna di fuoco, una di quelle che dicevo prima, non c’è espressione migliore.

L’Esperanza è il complesso dove suono. C’è Paco che canta, Manuel che suona la tromba, Pablo la chitarra, io la batteria e Armando timbales e maracas. Facciamo musica tradizionale e rock, secondo il caso. Dipende da chi ci chiama a suonare. Alla Casa della Cultura di Luyanò c’è poco da fare: son e salsa, come da programma. Noi suoniamo e la gente balla. Finisce che nessuno si accorge di quel che facciamo e tutti pensano solo a bere e cercare donne da portarsi a letto. Non c’è una gran soddisfazione a suonare in un posto così. Stasera però c’è Juliana seduta in prima fila e almeno lei è venuta per me. È seduta in prima fila insieme alla sua amica Maria. Non è affatto male Maria. Alta, un bel culo sodo, una vera mulatta cubana. Penso che potrei anche provarci dopo lo spettacolo, non sarebbe una cattiva idea. Intanto suoniamo e la gente balla, come da copione. Quando ci fermiamo per far posto a un altro gruppo mi avvicino al tavolo di Juliana. La saluto. Lei mi presenta Maria. Io mi siedo e ordino una bottiglia di rum, una di cola e tre bicchieri. Beviamo insieme.

“Siete molto bravi” dice Maria.

“Grazie. Ma non è questa la musica che preferisco. Qui non si può fare di meglio. Vogliono salsa e salsa dobbiamo dare” rispondo.

“Tu sai ballare, Alejandro?” mi chiede all’improvviso.

“Quando suono preferisco il rock, ma per il ballo…”.

Era quello che voleva. Mi trascina in pista e ci mettiamo a ballare seguendo la musica del nuovo gruppo che si sta esibendo.

“Sei un ottimo ballerino” mi dice.

“Mi arrangio” rispondo.

Mi ha insegnato mia madre a ballare e ricordo quanto ha faticato perché io proprio non ne volevo sapere. Adesso devo solo ringraziarla. Grazie al ballo ho rimorchiato abbastanza in discoteca e ancora adesso qualche botta la piazzo. Speriamo in bene stasera, penso.

Maria si muove sensuale e si struscia al mio corpo a tempo di musica. Io non resto indifferente. Quando il mio membro viene a contatto con le sue natiche la fantasia corre via lontano. Torniamo a sedere e beviamo ancora qualchecubalibre. Juliana sorride.

“Sembrate due ottimi ballerini” dice.

“È in gamba il tuo amico” risponde Maria.

“Non darle retta. È lei la vera ballerina” dico io.

Torno sul palco con il gruppo per terminare l’esibizione. Adesso qualche pezzo di rock ce lo lasciano fare. Pochi però. La gente ascolta ma si vede chiaro che vogliono vederci finire per tornare a ballare. Mi è passata la voglia di suonare, stasera. Un po’ per questo cazzo di pubblico, un po’ per Maria. Adesso ho soltanto voglia di scopare.

“Ti accompagno?” le chiedo.

Lei accetta. Juliana ci saluta mentre ce ne andiamo, anche lei ha trovato compagnia e poi sulla mia moto c’è posto soltanto per due. Maria si stringe forte al mio petto e partiamo.

“Vuoi proprio portarmi a casa?” sussurra mentre il vento caldo della notte soffia sui nostri volti.

“Certo che no” rispondo.

“Allora fermati vicino al porto”.

La zona del porto industriale confina con la campagna ed è un posto poco frequentato. Spengo la moto e scendiamo. Maria mi prende per mano e indica uno spiazzo riparato tra i cespugli e una vecchia ceiba.

“È tutta la sera che ne ho voglia” dice.

Mi toglie i vestiti e comincia a leccarmi per tutto il corpo. Poi si spoglia anche lei. Afferra il membro, lo porta alla bocca e comincia a succhiare con avidità. Lui risponde subito bene. Mentre ballavamo era stato sufficiente che lei si strusciasse un po’ per provocare l’erezione. Adesso devo solo controllarmi per evitare brutte figure, con una come Maria sarebbe imperdonabile. Passiamo la notte a fare l’amore sull’erba bagnata di quella campagna ai confini del porto, tra i canti dei grilli e le luci soffuse dei terminal. Parliamo poco. A Maria piace fare l’amore, più che parlare. Finisco stremato e mi addormento sotto le stelle, ho solo il tempo di pensare che era un po’ che non passavo una notte così.

Per un paio di settimane Maria continua a cercarmi, mi chiede di fare l’amore nei posti più strani. È incontenibile.

“Maria è puttana dentro” dice Juliana.

“Le interessa soltanto il tuo cazzo” insiste.

Per due settimane ho soltanto scopato. Niente studio, niente prove, niente capitoli del nuovo romanzo. Niente di niente. Solo scopare. Avevo finito la riserva di pasticche energetiche e non sapevo come fare per trovarne ancora. Un bel giorno Maria è scomparsa nel nulla. Non mi ha più cercato.

“Lei è fatta così” ha detto Juliana “dopo un po’ gli uomini la annoiano”.

Per fortuna, ho pensato.

Altrimenti chi lo finiva il romanzo.

 

 

Ho scritto racconti che non sono racconti (Bozzetti avaneri 1)

 

 


 

Mi sembra logico. Perché io sono un tipo coerente, come dice Juliana.

Sinora ho scritto due romanzi che col cavolo che sono romanzi. Adesso mi sono

messo a scrivere racconti. Ne finivo uno, lo rileggevo e mi dicevo: “E questo ti sembra

un racconto?”. In realtà non ero io a parlare ma una vocina che saliva da dentro,

la vocina che ho ribattezzato Abel. In onore al ministro della cultura.

Che io quando sono giù di morale leggo le poesie di Abel Prieto e mi sento come

Rubén Darío. Per non parlare dei romanzi. Un romanzo di Abel Prieto fa più effetto

d’una camomilla doppia. Addormenterebbe un cavallo, se il cavallo sapesse leggere.

Per tornare alla voce sulle prime un po’ l’ascoltavo ma poi ribattevo duro.

“Hai mai letto El pitusa? Hai provato con El vuelo del gato?”. Lei allora taceva.

Volevo ben dire. Per lo meno ha buon gusto, la voce. Magari legge Carpentier

ma Prieto no davvero. E io allora continuavo a scrivere. Racconti che non sono racconti.

Romanzi che non sono romanzi. Quel che so fare.

Alla fine è venuto fuori questo libro. Una raccolta di racconti, direte. No, rispondo io.

Un romanzo. E già li sento i critici sprecare parole.

“Che romanzo e romanzo… guarda se ora doveva venire un ragazzoto avanero

a prenderci per il culo. Ne abbiamo già tanti in Italia che ci provano a inventare

un linguaggio nuovo e a sperimentare…”.

Non vi agitate gente. Non vi agitate. Tanto per cominciare io sono cubano,

quindi non so niente delle beghe che ci sono là da voi. E se vi dico che questo

è un romanzo potete credermi. Un romanzo fatto a modo suo, magari.

Ma pur sempre un romanzo. I capitoli sono racconti legati l’uno all’altro,

troverete gli stessi personaggi pagina dopo pagina. E il protagonista sono io,

c’è poco da fare. Poi racconto una storia che non ha lieto fine, purtroppo.

Anzi che non si sa ancora come andrà a finire. La storia di undici milioni di cubani,

 balsero piùbalsero meno. Ho cominciato come quando si tiene un diario.

Riflessioni. Commenti di vita quotidiana. Un po’ di politica, mica troppa

non si deve esagerare. Ansia di pubblicare i miei romanzi. Ho annotato

tutto qua dentro. Poi mi sono accorto che le riflessioni prendevano corpo e

si facevano storia. Ne venivano fuori rapidi schizzi, come pennellate grezze

da artista di strada.Bozzetti avaneri, li ho subito chiamati. Perché tra queste

pagine c’è L’Avana di oggi, quella del dopo muro. C’è la mia terra,

il periodo speciale, il vento tropicale che fa pensare. Ci sono i tornados

che si abbattono per le strade d’una città cadente, le storie d’amore con

donne infedeli, le fughe. La santeria coi suoi sacerdoti officianti, babalaos e

 paleri con più clienti dei medici specialisti. Il ricordo di Che Guevara e

la musica di Willy Chirino. La scuola al campo e le famiglie che si sgretolano,

il passato che non torna, l’ingegno del cubano che inventa la vita e mestieri impossibili.

E ci sono pure i miei racconti impubblicabili scritti tra Le confessioni e Vita da jinetera.

Tutti. Bozzetti avaneri che sonoBozzetti cubani. Storie d’una Cuba che cambia

e non sa cosa vuol diventare, questo sono. E scriverle mi è costato fatica.

Lacrime e sangue. Perché tra queste pagine c’è la mia vita. Per la prima volta.

Per questo se dico che è un romanzo credetemi. E il protagonista è un’isola

che spinge lo sguardo verso il futuro e rimpiange il passato.

 

                                                                                      Alejandro Torreguitart Ruiz

 

Un uomo di nome Panfilo

 

 

 

Me lo dice sempre mia madre che uno di questi giorni succederà anche

a me se non la smetto

con questo vizio di scrivere.

– Hanno messo dentro un ubriacone, uno che non faceva niente,

non lavorava da dieci anni…

– protesta mio padre.

Il vecchio è sempre pronto a difendere chi ci governa,

pure se la condanna viene da un processo

a porte chiuse e l’accusa non cambia mai: pericolosità sociale preventiva.

– Non capisco mica. Ti arrestano se pensano che puoi essere pericoloso?

– No. Vuol dire che arrestano individui con caratteristiche tali

da rappresentare un pericolo.

– E io non ho detto la stessa cosa?

Mi sa di no. Sono le sfumature che mi fregano…

Lascio stare mio padre, tanto non lo convinco. Tra me e lui sono

passate troppe generazioni

e io me la dico meglio con la Y, pure se porto un nome come Alejandro.

Ho fatto trent’anni da poco, per me la Sierra sta sulle pagine dei libri

ma la realtà brucia sulla pelle.

Il vero nome di Panfilo è Juan Carlos Gonzalez Marcos, quarantotto

anni portati maluccio,

ora come ora disoccupato, ex macchinista nella flotta navale di pescatori cubani

e subito

dopo nelle Truppe Speciali del Ministero degli Interni. Per bere beve, c’è poco

da fare,

ma mica fa discorsi da ubriaco, per quelli bastano Speedy Gonzales e il compare

Meo Porcello. Panfilo dice quello che pensiamo tutti, ma diventa famoso

per come lo dice.

Interrompe il reportage sulreggaeton di America TeVe canale 41, che trasmette da Miami,

non dovrebbe arrivare a Cuba, ma un sacco di gente la vede. Misteri di un’isola dove tutto

è vietato ma si trova sempre il modo di fare. Panfilo grida: – Quello che manca è la roba

da mangiare! – No, non sono parole da ubriaco, pure se barcolla dalla quantità di rum

che s’è bevuto, magari fatto in casa, cispes de trén, spaccabudella infame.

Panfilo diventa una star. Mi dicono gli amici che in qualche modo frequentano la rete,

che il suo numero da ballerino ubriaco si trova su tutti i siti che parlano di Cuba.

C’è chi ha fatto un montaggio con Raúl mentre afferma: “Quello che manca è la roba

da mangiare!”, solo che dal microfono esce la voce di Panfilo. Panfilo è una star

del reggaeton, balla con stile da ubriaco, ma sono le parole che contano,

mica la musica e i movimenti osceni…

La televisione di Miami lo trasforma in un personaggio e questo mica lo voleva,

povero Panfilo, ché subito l’accusano d’essere stato pagato e magari fosse vero,

così saprebbe cosa mangiare, invece ha avuto il coraggio di dire ciò che sussurriamo

tutti, il famoso coraggio da pinta di rum. Panfilo se lo sono arrestato dopo l’intervista,

proprio dopo un balletto a base di reggaetoneseguito sul Malecón, ubriaco perso,

mentre gridava che era in pericolo, che aveva fame, che a Cuba non c’è niente da

mangiare e lui temeva l’arrivo della polizia. E la polizia è arrivata il 4 agosto, puntuale

come una cambiale in scadenza, se lo sono portato in galera e l’hanno processato

a porte chiuse. Due anni di prigione, s’è beccato il povero Panfilo, per pericolosità

sociale preventiva, lui è meno famoso di Gorky, non se l’è cavata a buon mercato.

E io sono qui che ascolto mia madre, leggo Yoani Sánchez di nascosto, ripeto a mente

frasi di Martí. Essere ubriachi per essere liberi, suonerebbe proprio bene, quasi meglio

dell’originale, ma adesso forse non è così vero. Neppure la follia ti salva dalla galera.

 

                                                                         Alejandro Torreguitart Ruiz

                                                                          Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

 

Vento tropicale  (bozzetti avaneri 2)

                 


 

Che città di merda è diventata L’Avana.

Uno di questi giorni mi cadrà sulla testa il rudere del palazzo di mia madre. Lo chiamano 

stile coloniale. 

Sì, stile coloniale. Buono per i turisti lo stile coloniale. Stile povera gente che vive

ammassata tre per stanza,

lo chiamo io. E poi mi va tutto storto da un po’ di tempo a questa parte.

Non c’è via di scampo.

Juliana dice che esagero. Che devo vedere i lati positivi delle cose.

“Ce ne sono?” domando ironico.

Juliana è la mia migliore amica. Come fosse mia sorella.

Juliana fa la puttana, però mica la puttana da strada. Scopa con gli stranieri

e si gode la vita.

Parla bene lei, mica deve darsi troppo da fare. Allarga un po’ le gambe e il gioco è fatto.

Pranzo e cena sono assicurati. Io non ne sarei capace, non mi ci vedo a fare il jinetero

con le vecchie. Ecco perché non trovo lati positivi e mi va tutto di merda.

Studio e non do un esame. Scrivo e non c’è un cane che si accorga che scrivo.

Suono e l’altro giorno si è rotta la batteria. Leggo Gutierrez. Malinconia dei leoni.

Bel libro, cazzo. Bei racconti. Lo chiamano realismo magico.

Almeno se fossi capace di

scrivere anch’io dei racconti così, mi dico. E invece non ne sono capace.

“Da domani pianto tutto con questa menata dello scrivere, che tanto mica mi dà da

mangiare, e mi metto a rimorchiare straniere sul Malecón” dico amareggiato.

“Renderebbe di più” commenta Juliana.

Brava Juliana. Tu sì che lo sai come si tirano su di morale gli amici, penso.

“Allora fallo tu. Tanto tra poco mi pubblicano un romanzo in Italia” ribatto.

“Sì, bravo. E io sono la figlia di Fidel...” risponde lei ironica.

“Guarda che lo pubblicano davvero” insisto.

“Mah...” fa lei. In fondo non è che gliene importi troppo.

Che poi non lo so mica se mi pubblicano o non mi pubblicano. Quel camajan

che ha sposato mia cugina dice di sì, che mi pubblicano.

L’editore ha accettato la storia di Maicol, ha detto che è buona,

che pare una vera confessione, uno spaccato di vita.

Per forza. Lo è. Solo che il protagonista mica lo sa che ho preso a prestito la sua vita

per farne un romanzo. L’Italia è lontana e Maicol non sa l’italiano.

Il marito di mia cugina ha firmato il contratto, conosce l’editore, pensa a tutto lui e quando

riscuote manda la mia parte. Però ancora non ho visto niente. Niente di concreto, dico.

Non danno anticipi in Italia. Pagano sul venduto. E allora non resta che attendere.

Oggi la conversazione con Juliana ha preso una piega che non mi va.

Sto scrivendo un romanzo su di lei, sulla sua vita. Una storia di sesso e jineteras,

pare che in Italia leggano cose così. Lo spero proprio, perché a Cuba finirei in galera

soltanto a parlarne. Juliana oggi ha deciso di prendermi per il culo invece di collaborare.

E allora decido di piantarla con questa conversazione idiota, la saluto ed esco a prendere

una boccata d’aria. Tanto di scrivere oggi non se ne parla. Di studiare ancora meno.

Troppo caldo. Troppi giramenti.

Mi accoglie l’aria pesante di Centro Avana in un caldo pomeriggio di giugno.

Odori e rumori di gas di scarico da carrette di auto che percorrono strade male asfaltate.

Aromi di pollo fritto e maiale arrosto da una bancarella all’angolo.

Merda di città, penso.

Passa una mulatta dal sedere alto e le gambe lunghe. Non giovane ma bella,

d’una bellezza quasi materna che ti dà conforto. Muove quel sedere stupendo

a ritmo di musica. Una musica che sento nell’aria. Forse la immagino.

Forse c’è davvero. Non lo so.

Merda di città, però che donne all’Avana. Le più belle di Cuba.

Che poi so un cazzo io se sono davvero le più belle.

Non mi sono mai mosso da qua.

Mi fermo e osservo quel rapido scambiare dei glutei.

Subito tento un approccio. Non sia mai detto che non ci provi.

“Mulatta, non so dove vai ma di sicuro è per la mia strada” dico.

Lei sorride. Sorridono sempre le donne avanere.

Mi piacciono proprio per questo.

“Non credo” risponde.

Il suo sorriso però mi invita a continuare.

“Mi chiamo Alejandro. E tu?”.

“Manuela, però vedi di lasciarmi tranquilla”.

“Qualcuno potrebbe darti fastidio”.

“Lo stai già facendo tu”.

“Voglio soltanto farti compagnia, magari parlare un po’”.

“E di cosa dovremmo parlare? Non ti conosco”.

“Posso dirti tutto di me. Studio spagnolo e scrivo racconti, suono la batteria,

adesso sto scrivendo un romanzo che parla di donne. Vuoi sapere altro?”.

“Fai tutto tu, ragazzo. Io sono soltanto Manuela e vivo in Centro Avana.

Adesso sto andando da mia figlia”.

“Però sei una donna stupenda”.

Lei sorride. Le piacciono i piropos, come a tutte le donne avanere.

Le piace essere ammirata, guardata, corteggiata.

“Se sei uno scrittore perché non stai lavorando al tuo libro?”.

“Perché devo vivere le cose che scrivo, altrimenti non sono capace”.

“Questa poi… mi sa che sei soltanto un gran bugiardo”.

Però la mulatta continua a parlare. Mi ascolta. Ci raccontiamo un po’ di cose, f

rammenti di vita quotidiana tra vento tropicale e sole cocente, umori di miseria

e ricordi del passato.

Arriviamo sul Malecón senza accorgercene.

“Adesso dove andiamo?” domando.

“Ci salutiamo. Io vado a cena da mia figlia”.

“Resta ancora un poco con me. Ti prego”.

Sarà il tono come lo dico. Saranno i miei occhi che esprimono tutto il bisogno

di non restare solo. Non stasera. Non con il sole che sta calando sul Malecón

e questa città che attende solo di crollare. E l’italiano che non si fa sentire.

E la batteria rotta. E Juliana che parla come una stronza. Non stasera che non

ho nessuno dove rifugiare il mio sconforto. Lei pare capire. Mi prende per mano e

ci sediamo sul muro in granito affacciati a guardare l’oceano. Pescatori affaccendati

ritirano reti e lenze. Ragazzini corrono tra gli schizzi del salmastro.

Attorno a noi soltanto mare e vento tropicale. In lontananza Miami.

“Potrei essere tua madre” dice Manuela.

“Ma non lo sei” rispondo.

Sorridiamo. È bella in fondo L’Avana se la guardi negli occhi di una donna.

Quando le mie labbra toccano le sue mi accorgo che il sole è sprofondato

all’orizzonte e i palazzi screpolati riflettono il ricordo d’un contorno giallastro.

 

                                                                   Alejandro Torreguitart Ruiz

 

 

Note:

camajan è lo straniero che è esperto delle cose cubane

piropos sono i complimenti lanciati verso le ragazze

 La Milagrosa (Bozzetti avaneri 9)

 


 

Oggi mi capita tra le mani un libretto ingiallito.

Un amor de leyenda, si intitola. Ricordo che me lo dettero al Cementerio Colon

 qualche mese fa. Ero andato là con Juliana. Non vado mai nei cimiteri, io.

Non sono credente e per fortuna non ho morti da visitare.

Quella volta però Juliana ci teneva troppo che l’accompagnassi.

Sfoglio in fretta le pagine, leggo la dedica, le orazioni, la storia descritta

in brevi capitoli. Amelia dei miracoli, la Milagrosa, una delle tante superstizioni

di questa terra che affida la sua sorte a messe spirituali e assurdi riti. Amelia

è nata per essere madre, protegge la famiglia e accompagna le partenze.

Morì di parto insieme alla figlia e fu seppellita con la bambina tra le gambe.

La leggenda narra che quando i familiari scavarono la tomba trovarono il suo

corpo intatto e videro che teneva la bambina in braccio.

I cubani mancano di tutto ma non della superstizione. Se si mangiasse con

quella le tavole sarebbero sempre imbandite. Juliana non fa eccezione.

Prima di partire per Miami doveva far benedire suo figlio e invocare la protezione

di Amelia. Quando si parte per un viaggio si va dalla Milagrosa, soprattutto se

è un viaggio importante, un viaggio che può cambiare la vita. E quello di Juliana

lo era, purtroppo. Aveva vinto il bombo e lasciava per sempre il paese. Una lotteria

assurda ne aveva estratto il nome dalla lista dei disperati. Per bontà di chi ci affama.

Per la magnanimità di Fidel. Juliana fuggiva grazie al bombo e non a bord

o di una zattera. Il futuro restava incerto, però intanto evitava gli squali.

Adesso mi manca Juliana, come mi mancano i momenti trascorsi

a ricordare il passato. Io bevevo rum e scrivevo, lei raccontava scavando

nei ricordi e parlava di quel che le succedeva per le strade della capitale. 

Vita da jinetera è quel che è venuto fuori da quelle serate passate

sulla veranda d’una casa coloniale di Luyanò.

Un romanzo che adesso è in mano a un editore italiano.(1)

Senza di lei non avrei scritto una pagina, perché Juliana

è un personaggio reale, come è vero che adesso non può invitarmi

a cena per mangiare un ajiaco come solo sua madre lo sa cucinare.

Sfogliare le pagine di quel librettino mi fa ricordare quel giorno

al Cementerio Colon.

 

“Prima di partire si deve venire dalla Milagrosa” dice Juliana.

“Ma tu ci credi?” chiedo stupito.

Lei abbassa la testa rassegnata.

“Non posso farne a meno”.

“Perché?”.

“È un viaggio troppo importante”.

Amelia protegge chi parte, soprattutto le madri. Veglia sul futuro dei figli,

stende il suo braccio protettivo sulla famiglia. La Milagrosa sembra

la sentinella del cimitero, appoggiata alla croce di marmo con lo sguardo fiero,

tiene la bambina in braccio e pare scrutare chi si ferma a pregare.

Mentre io e Juliana parliamo si avvicina una donna. Mi colpiscono le sue forme

abbondanti e i fianchi generosi da mulatta avanera.

Tremenda mulata ... fuego a la lata... direbbe Willy Chirino.

Tiene in mano alcuni librettini con l’immagine di Amelia in copertina.

“Conoscete la storia della Milagrosa?” domanda.

Caso mai è una leggenda, penso.

Faccio cenno di no. Non è che me ne importi molto di Amelia,

però la mulatta non è niente male e mi piace sentirla parlare.

La sua voce è una cantilena che ne tradisce le origini orientali.

Purtroppo dopo poche parole ci fa capire che ha scelto di consacrare

la sua vita al servizio di Amelia.

Non sai quel che perdi, penso.

Alla fine del discorso ci consegna due librettini di poche pagine.

Juliana le dà venti pesos. La mulatta le augura buona fortuna.

“Quando sarai a Miami recita ogni sera l’orazione ad Amelia e tieni

il librettino nella camera del bambino” conclude.

Poi si allontana ondeggiando quel sedere enorme.

La osservo mentre cammina e mi soffermo a lungo a studiare

il movimento dei fianchi. Tutto quel ben di Dio sprecato… penso.

Le parole di Juliana mi distraggono dal culo della mulatta.

Meglio così, tanto non c’è niente da fare.

“Il mio passato è nelle mani di Amelia e tu ne sei testimone” dice.

“È anche nel mio romanzo, però” ribatto.

“Alejandro, questa è una cosa seria...” fa lei spazientita.

“Va bene. Come vuoi tu”.

Il pensiero torna sulla mulatta. Aveva una voce così bella...

e non soltanto la voce, a dire il vero. Lei parlava ma io non ascoltavo,

catturavo la musica delle frasi, scrutavo la scollatura che faceva

intravedere il seno piccolo e dritto, poi passavo alle cosce piene e sode

per arrivare a quel sedere enorme davvero indimenticabile.

La storia potevo sempre leggerla sul librettino, ma la mulatta

chi l’avrebbe più rivista? Tanto valeva approfittarne.

Juliana intanto termina il rito. Deposita un mazzo di fiori bianchi,

poi fa tre passi senza voltarsi indietro e prega con le frasi dell’orazione.

Fa una promessa e chiede protezione.

“Adesso affido alla santa il mio futuro” dice con enfasi.

“Spero che serva” rispondo scettico.

Juliana mi fulmina con lo sguardo.

“Serve a me, Alejandro. Ma tu non puoi capire”.

Eh già, io non posso capire. Da un po’ di tempo a questa parte me

lo dicono in troppi. Anche il marito di mia cugina dice che non posso

capire le regole dell’editoria italiana e che ho troppa fretta di pubblicare.

Non posso capire perché sono cubano e non ho nessuna voglia di

andarmene dalla mia terra. Bene, se è questo il motivo sono proprio

contento di non poter capire. Peggio per voi che capite.

E poi mica è vero che non comprendo. Un conto è far finta.

Un conto è non capire. E io anche se non credo conosco tutte

le leggende che raccontano i vecchi. Ho persino uno zio palero,

ma questa è un’altra storia che devo ancora raccontare.

Non si può lasciare Cuba senza far visita allaMilagrosa.

Lei ti proteggerà ovunque andrai. Oggi però non è capace

di asciugare le lacrime, le piccole gocce di pianto che rigano

il volto di Juliana. Per quelle ci sono io, anche se non posso capire.

 

E adesso giro tra le mani il librettino ingiallito che ci dette la mulatta.

Juliana è andata via da qualche mese, subito dopo che

abbiamo finito il romanzo. Adesso è a Miami. Ha cambiato vita.

Non deve più fare la jinetera per mantenere suo figlio.

Ha vinto il bombo, la lotteria di stato che regala libertà e sogni.

Adesso fa un lavoro onesto e vive in una casa che non minaccia

di sbriciolarsi al primo colpo di vento. In America sono attrezzati

per tutto, non temono neppure itornados.

Io vorrei soltanto sapere una cosa alla fine di questa giornata

di caldo torrido passata a scrivere e a ricordare. Vorrei sapere

se a Miami Juliana è davvero felice e se riesce ancora a sognare.

Soltanto questo mi interessa. Non i dollari che guadagna,

non la vita che fa. Spero che Amelia la protegga davvero,

povera amica mia. Ne ha bisogno, come ne hanno bisogno tutti coloro

che scappano in cerca di speranze, perché la nostalgia è una brutta bestia.

Noi che restiamo sappiamo quel che ci attende. Un futuro che sarà

come il presente. Lottare. Inventare. Cercare una via d’uscita.

Ma una zattera non ci interessa e neppure il bombo.

Meglio una bottiglia di rum, le cosce di una donna, una musica rapida

a tempo di salsa. Ci basta poco per affogare i dolori

e non ci passa mai la voglia di sorridere. Nonostante tutto.

                                                                     

                                                                                        Alejandro Torreguitart Ruiz

 

 

(1) Il libro è poi uscito nel 2005: Edizioni Il Foglio, pagg. 150, € 10,00;

l'illustrazione di questo racconto ne riproduce la copertina (di Oscar Celestini)

 A TEMPO DI ROCK

El Barrio è al gran completo per le prove che si tengono alla Casa della Cultura di Guanabacoa. Paco dice che vuole preparare un concerto, ma una cosa diversa dal solito, una cosa importante…

“Questa volta facciamo musica rock”.

“Guarda che suoniamo alla Casa della Cultura” ribatto.

“Mi sono rotto le palle di salsa e merengue….”

Paco canta come pochi ed è lui che scrive testi e musica per il gruppo. Sceglie canzoni, raccoglie vecchi ritmi, seleziona il materiale. El Barrio non esisterebbe senza Paco. Però da un po’ di tempo a questa parte gli è presa una fissa rockettara che non mi piace per niente, ché può creare qualche problema. Il rock è musica deviazionista, pure se adesso fanno i finti tolleranti e hanno messo una statua di John Lennon in Centro Avana, quella che gli hanno rubato gli occhiali, che poi cosa se ne faranno di un pezzo di bronzo mica lo so. 

“Paco, lo sai come funziona alla Casa della cultura. Son, merengue, salsa, tanto tanto bachata e regettón, allargati a qualche bolero, ma la musica dev’essere nazionale. Se no s’incazzano…”

“Che s’incazzino. Io ce n’ho le palle piene di questa salsa”.

“Sì, ma non te lo far sentir dire…”

Alla fine arrivano pure Manuel e Armando che dicono la loro.

“Paco, non ci stai con la testa. Che t’è preso?”

“Proprio ora ti fai venire la fissa del rock? Ma ti pare il momento?”

Pablo suona la chitarra in un angolo e scuote la testa. Sorride. Imita la voce di un commentatore televisivo, uno con due baffoni neri spioventi che pare un pistolero messicano: “La Rivoluzione è sempre più solida e forte. Cinque controrivoluzionari arrestati mentre suonano Cat Stevens alla Casa della Cultura di Guanabacoa. Le condizioni di salute del Comandante sono in via di miglioramento. Presto tornerà a guidare il suo popolo contro gli imperialisti”. 

Paco si convince. Forse comprende che non è il caso.

“Un pezzo però te lo facciamo fare. Nascosto in mezzo a parecchio son tradizionale alla Benny Moré. Magari Lou Reed che mica parla di politica, canta in inglese… tu cerca di darlo poco a vedere…” dico.

“Grazie. Tu mi capisci. Non posso fare il musicista se mi dicono sempre cosa devo suonare. Devo sentirmi libero…” risponde.

Eh sì, Paco. Magari fosse solo questo il problema. Magari ti dicessero solo che musica devi suonare. Qui ti criminalizzano la vita e come prendi un’iniziativa fai qualcosa di illegale. Se vivi secondo la legge muori di fame. Hanno ridotto le pagine alla tessera del razionamento alimentare, tanto mica servivano tutti quei fogli bianchi per un po’ di riso e due sacchetti di fagioli. Se non c’è chi ti manda denaro dall’estero non sopravvivi. Altro che musica, Paco. 

Queste cose le penso soltanto, però. Mica le posso dire a voce alta. Siamo dentro la Casa della Cultura di Guanabacoa e anche le mura hanno orecchie. Ichivattones sono a ogni angolo. Spie del regime che ti vendono per un piatto di riso e fagioli e dopo son cazzi da cacare. Finisci dentro e chi ti rivede. Soprattutto adesso che Lui non c’è più e il suo posto l’ha preso uno Speedy Gonzales un po’ frocio, uno che i coglioni li ha tirati fuori solo per mandare i ragazzi a far la guerra in Angola. In che mani siamo finiti…

“Sentirsi libero. E questa cosa da quando t’è venuta?”.

“Non so. Credo che sia importante poter fare delle scelte”.

È importante sì, caro Paco. Solo che qui non le abbiamo mai fatte. C’è chi decide per noi. Forse è meglio suonare, guarda, pure se ci chiedono la solita musica di sempre, ché tanto di Arturo Sandoval ce n’è stato uno, El Barrio non cambierà la storia della musica cubana. Forse è meglio suonare, guarda. Basta che non venga fuori il solito italiano stronzo a chiedere Hasta siempre, ché un giorno o l’altro la batteria gliela suono sulla testa a questi comunisti che sanno un cazzo cos’è il comunismo. 

“Paco, noi facciamo le nostre scelte. Sarà un gran concerto, credi a me. Salsa a tempo di rock. Musica vera” dico.

“Non mi prendere per il culo, Alejandro”.

Sorrido. Provo la batteria e pesto con forza sui piatti di ottone per sfogare la rabbia che tengo dentro. No che non ti prendo per il culo, Paco. Sapessi quanta gente c’è in giro che ci prende per il culo. Juliana se n’è andata e adesso dice che vive da signora, le manca la sua terra ma può fare quello che vuole, muore di nostalgia ma non deve andare alle parate organizzate dal partito in Piazza della Rivoluzione, ha una casa e una famiglia e non deve fare la puttana per campare. Non sono io che ti prendo per il culo, caro Paco.

I nostri sguardi valgono più di tante parole.

“Attacca Alejandro” mi fa.

“Attacco Paco” rispondo.

E si parte.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

 

 


  Aspettando il tornado (Bozzetti avaneri 5)

 
 

      

    

 


 

Dicono che sta per arrivare un tornado. Però Calviño ci ha rassicurato ieri sera alla televisione,

poco prima che parlasse Fidel. Calviño è el hombre del tiempo, lo chiamano tutti così per via

della testa completamente pelata.

“Il tornado sta sorvolando i mari del sud e lambirà le coste occidentali scaricando

la sua forza nell’oceano poco a largo di Miami”.

Bene - ho pensato - allora non ci riguarda.

“Però - ha continuato Calviño - farà danni all’Avana. Si prevedono raffiche

di vento sui duecento chilometri orari. La popolazione è invitata a seguire

le istruzioni che verranno impartite dalle autorità”.

Allora - ho pensato - questo cazzo di tornado è pericoloso

Può danneggiare le case, addirittura distruggere quelle più malandate.

La mia già cade a pezzi da sola, basta poco per completare l’opera.

È da ieri che ci penso al tornado. Di solito gli danno i nomi più strani,

quasi dei vezzeggiativi, come se chiamarlo con dolcezza placasse

la sua furia, un po’ come si fa con i cani pericolosi.

 FloraEl niñoFelix… questo lo hanno chiamatoPepe.

Un tornado che arriva non ti fa pensare ad altro. C’è chi implora la Vergine di Regla

o San Lazzaro e chiede su di sé la protezione divina. Radio Reloj alternabolero e 

salsa a notizie meteorologiche mentre si assicurano i coperchi dei serbatoi d’acqua

e le tegole dei tetti con doppie mandate di filo di ferro. Vedo gente tagliare

i rami frondosi delle piante più alte che circondano le loro case, altri

che caricano televisori ed elettrodomestici su auto scassate, altri ancora

che sigillano finestre e porte con assi di legno inchiodate.

Portano in salvo il salvabile. Vestiti, lenzuola, persino materassi.

Chi non riesce a portare via niente accatasta in casa le cose di valore,

i mobili migliori, lega tutto saldamente e prega San Lazzaro.

Quelli che vivono nelle case di legno hanno poche speranze

di ritrovare qualcosa e si affrettano insieme agli altri disperati

per raggiungere i rifugi assegnati. Centri militari e scuole raccolgono

un esercito di futuri senza tetto. Si fanno scorte di rum.

Quello non può mancare. Tornado di merda. Ci siamo abituati da sempre,

conviviamo con questa maledizione del cielo,

eppure ogni volta è come la prima volta.

Non ci cambia il carattere, non manda Cuba alla deriva

come vorrebbe qualcuno, però rompe le palle. Questo sì.

Io voglio fare ciò che voglio della mia vita - penso - 

non quello che per gli altri dovrebbe essere il mio dovere.

Nessuno deve decidere per me.

E tra le cose che voglio fare c’è anche scrivere.

Non porterà a niente? Bene. Sarà sempre meglio che pulire

il culo a un turista o lavorare per Fidel. Neppure un tornado

può cambiarmi la vita. Tutt’al più mi rimanda i progetti.

Non andrò da Juliana. Non lavorerò al romanzo.

Prima che faccia notte dovrò andare anch’io al rifugio.

Soltanto questo.

Per ora passeggio tra lo squallore dell’Avenida del Puerto

 e penso che magari questo fottuto tornado mi distrugge

la casa e seppellisce mesi di lavoro sotto le macerie,

oppure mi vola nel vento la prima stesura. E dopo cosa

racconto all’editore italiano? Che avevo tante buone idee

ma un tornado me le ha spazzate via? Frugo tra miseria e

disperazione di strade deserte, neppure in balia dei ladri

che funestano L’Avana nei giorni di tornado. Qui non c’è niente

che valga la pena rubare. La polizia ha evacuato la zona.

Dicono che ci sia pericolo rosso. Gli abitanti di queste catapecchie,

che una volta servivano soltanto a scopare con le puttane del porto,

sono stati trasferiti alla secondariaManuel Ascunze.

In attesa che il tornado passi, hanno detto. Anche mio padre

e mia madre sono stati assegnati a quella scuola.

Ci andrò anch’io certo. Ma c’è tempo ancora.

Intanto calpesto la desolazione dell’Avenida del Puerto e

osservo brandelli di rifiuti affacciarsi da cassonetti che presto

voleranno nel vento, cani che sembrano intuire il pericolo e abbaiano

con furore all’umidità che si fa largo nell’aria del mattino.

Poi li vedo che frugano a caccia di quello che non troveranno tra

carcasse di rifiuti, perché qui non si getta niente che non sia proprio da buttare.

So che tra poco voleranno anche loro nel cielo tra i rami divelti dagli alberi

e il pulviscolo della terra percossa da raffiche furenti.

Non avranno più motivo di cercare, mi dico.

La baia dell’Avana pare triste anche lei stamattina, tra le baracche della

povera gente e le nubi nere che minacciano il peggio. Il cielo azzurro terso

e limpido è soltanto un ricordo, lo scintillio dei colori ha lasciato il posto

alla furia della natura. Tuoni che scuotono il silenzio, lampi di pioggia e il vento,

il maledetto vento che incalza sempre più. Osservo il cielo.

Tenebroso spettacolo di morte sulla vecchia Avana.

Questa città non ha bisogno di un tornado per cadere a pezzi.

Lui le dà soltanto una mano. E io aspetto. Nel silenzio spettrale

dell’Avenida del Puerto, con la mente rivolta al mio romanzo da finire

e un occhio alla disperazione che mi circonda. Tra breve arriveranno le raffiche

di vento solido e ostinato e voleranno cani e cassonetti e ricordi.

Sì, persino i ricordi. Ondate di pioggia si abbatteranno su finestre divelte

e distruggeranno ostacoli come sciabolate furenti che vengono dal cielo.

Le prime raffiche umide mi sconvolgono i capelli e sollevano da terra le mie gambe

. Adesso cammino rapido, le cime degli alberi che si agitano più dei miei pensieri

e il grigio profondo della tempesta prepara una notte di burrasca.

Non andrò alla deriva neppure io, neppure questa volta.

Non andrà alla deriva la mia terra.

Berremo rum e ci ubriacheremo come dei pazzi nelle baracche della scuola.

Giocheremo a  domino e balleremo con le nostre donne tristi boleri spagnoli.

E penseremo a lui, certo. Al maledetto tornado.

Per adesso sono qui che mi faccio spingere dal vento sull’Avenida del Puerto e lo attendo.

Attendo il tornado come un nemico invisibile e un furibondo dio del male. A

ttendo il tornado, quasi fosse Godot.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz

 Si fa presto a dire Italia (Bozzeti avaneri 8)

Aqui no hay futuro, dicono tutti. E forse è vero.

Cazzo di futuro vuoi che ci sia in un paese dove la gente abbandona

il lavoro per rincorrere un turista? Qui per una donna con un bel corpo

fare la jinetera è il solo mestiere che rende, il migliore possibile.

Si mette in società coi nuovi ricchi che affittano case agli stranieri e via

con la bella vita. Per gli uomini resta poca scelta. Vendere sigari e rum.

Rubare. Questo è il nostro presente e anche il futuro, purtroppo.

Ecco perché oggi questa lezione su Miguel Cervantes proprio non la reggo.

 Don Chisciotte non mi va né su e né giù. Mi pare soltanto un povero fesso,

lui che dirige la sua spada Durlindana contro i mulini a vento.

Come mi fa pena quel povero Sancho Panza che cerca di fermarlo…

sa che sta seguendo un folle però vuol bene al suo padrone.

Anche noi stiamo seguendo un pazzo, per Dio. Anche noi.

E non gli vogliamo neppure più tanto bene, se proprio devo dirlo.

Mi sta sul cazzo Cervantes. Mi ricorda troppo Cuba e i problemi

che ogni giorno devo affrontare. La lotta contro i mulini a vento è

una costante della nostra storia. Adesso però ci siamo rotti le palle.

Datemi pure del controrivoluzionario, tanto non ci capisco più niente.

Vorrei proprio saperlo quel che è rimasto in piedi della rivoluzione.

Sfoglio le pagine di Gutierrez senza farmi vedere. Il professore parla

di Cervantes e io leggo Il re dell’Avana che tengo nascosto sotto il banco.

L’ho comprato di contrabbando in una bancarella di libri usati del Prado.

“Ragazzo, rammenta che io non te l’ho venduto” mi ha detto il libraio.

Io ne avevo sentito parlare così tanto di quel romanzo, chi viene dall’Europa

ne ha portato qualche copia che si è subito diffusa a macchia d’olio.

e hanno fatto edizioni pirata e fotocopie sbiadite. Parla di Cuba, di come

è davvero e non di quel che si vorrebbe che fosse. Mi piacerebbe conoscere

Gutierrez. Dicono che insegni all’Università dell’Avana ma si fa vedere poco in giro. E

poi forse non ne vorrebbe neppure parlare di questi libri che pubblica all’estero.

Il governo li tollera, fa finta di niente. A Cuba lui parla alla radio, fa conferenze,

scrive racconti fantastici, insegna…

Tra poco ci sarò anch’io tra quelli che pubblicano all’estero. Non mi pare

neppure vero. Alejandro Torreguitart, uno studente avanero che suona rock

e scrive racconti, pubblica in Italia. Se lo sapesse Gutierrez forse con me

ci parlerebbe, magari ci potremmo anche incontrare. Avremmo tante cose

da dirci, credo. Ma io mica lo posso andare a raccontare che pubblico

in Italia, soprattutto dopo le cose che ho scritto su quel romanzo.

Mica sono Gutierrez, io. A me non la farebbero passare così liscia.

E poi si fa presto a dire Italia. Io spedisco tutto là, spendo una fortuna

in francobolli. A volte mando via pacchi legati forte con lo spago insieme

a qualche amica che se ne va perché si è sposata. Non è difficile

trovare qualcuna che faccia la spola con l’Italia. Qui è tutto un fuggi fuggi.

Si sposano. Si separano. Tornano a Cuba. E poi partono di nuovo.

Però a me fa comodo, adesso. Quindi sfruttiamo la situazione e non

facciamo tanto i moralisti. L’ultima volta nel pacco c’erano i miei ultimi

racconti e poi anche il secondo romanzo. Mando tutto al marito di mia cugina,

lui pensa ai contratti, fa pubblicare, riscuote le percentuali pattuite.

Per quel che ne so mi potrebbe pure fregare.

Anzi, già che ci siamo, quando traduci questo di racconti vedi

un po’ se ti fai sentire più spesso che almeno me ne sto più tranquillo.

Questi italiani sono dei gran taccagni. Già mi pare di sentirlo.

“Telefonare a Cuba costa”. “Non sono mica miliardario”. Dice sempre le stesse cose.

L’ultima volta che ha chiamato mi ha dato la bella notizia che l’editore

pubblicherà il primo romanzo nel 2003. Cazzo, un po’ di più non poteva aspettare?

Problemi di programmazione editoriale, sostiene il camajan.

Che poi il camajan sarebbe quello che ha sposato mia cugina.

Ha detto che in Italia quando un editore ha raggiunto un certo numero

di titoli in un anno si ferma e attende l’anno successivo per pubblicare ancora.

Funziona così, ha detto. Io che cazzo ne so se è vero. A Cuba non si pubblica

perché manca la carta. Questo lo so. Come so che se uno si chiama Abel Prieto

magari la carta la trovano. Non resta che fidarsi. L’esperto di editoria italiana è lui.

Adesso ha detto che l’editore sta leggendo anche il secondo romanzo e

un po’ di racconti. Speriamo bene. Speriamo che non decida di pubblicare

tutto nel 2004. Se no hai voglia ad aspettare i soldi delle vendite,

che in Italia gli anticipi non li dà nessuno.

“Mica siamo in America!” Ha detto ridendo il camajan l’ultima volta

che è venuto a Cuba “Magari dessero gli anticipi…”.

Vediamo un po’ allora come siamo messi.

Assodato che scrivere mi interessa e che voglio continuare a farlo resta

il problema della sopravvivenza, che è sempre un bel problema.

L’università poi la devo finire. Dice mio padre che può sempre servire,

la situazione cambierà, prima o poi. Intanto lui porta a giro gli stranieri

con il taxi abusivo e io gli do una mano con il sidecar. E non basta mai.

L’università mi piace, tutto sommato. A parte la palla di oggi su Cervantes.

Mi interessa la rivista che abbiamo tirato su con gli amici, che se troviamo

la carta continuiamo a pubblicarla. A parte la polizia che rompe e che vuole

leggere ogni numero da cima a fondo prima di dare il visto. Hanno paura che

scriviamo cose controrivoluzionarie. Non siamo mica fessi. Realismo magico,

narrativa fantastica, articoli su Carlos Varela e Leonardo Padura Fuentes,

un po’ di musica tradizionale. Tutto qui. Magari di Abel Prieto non parliamo,

quello sarebbe troppo. Lui ha già il ministero della cultura come press agent.

La rivista la facciamo per passione. Non ci dà da mangiare.

Come non ce lo dà il complesso dove suono. Rimedio pochi pesos, qualche

invito a cena. Niente più. E allora per sopravvivere resta lo sport nazionale,

quello più praticato dopo il baseball, o forse adesso pure di più.

La caccia al turista. Vendere tabacos rubati e cispes al posto del rum

, fare da guida per L’Avana Vecchia e portare lo straniero nella paladar

che ha promesso una mancia. Non c’è altra soluzione. Tra un racconto

e l’altro, tra una raffica di vento che spazza via le nubi dal cielo e un palazzo

che crolla, tra le pagine di un romanzo che racconta la mia vita.

Squillerà il telefono, prima o poi. Si tratta solo di tenere duro qualche mese,

poi il camajan mi dirà che il romanzo è uscito e allora arriveranno i soldi

dei diritti a cambiarmi la vita.

La voce del professore rimbomba nel silenzio dell’aula e mi riporta alla realtà.

Fa caldo. Cervantes non mi interessa per niente, anche se dovrò studiarlo

per l’esame. Adesso pare che la tortura sia finita. Chiudo il libro che leggevo

sotto il banco, lo ripongo nella borsa insieme ai testi di letteratura spagnola

e a Don Chisciotte. Stasera andrò da Juliana. Ho da dirle un sacco di cose.

Il romanzo che parla di lei è arrivato in Italia e l’editore lo sta leggendo.

Mi spiace soltanto che questa sarà una delle ultime sere che

passeremo insieme. Juliana ha vinto ilbombo e presto partirà per Miami.

L’ho scritta anche nel libro questa cosa e purtroppo non è una mia invenzione.

Scappano tutti da questa terra malandata. Scappano e poi la rimpiangono.

Spesso ritornano delusi. Io non vorrei fuggire. Vorrei vivere qui con qualche

dollaro in tasca. Vorrei poter sperare nel futuro. Vorrei che l’orologio della storia

tornasse vent’anni indietro. E vorrei che quel maledetto telefono suonasse, maledizione!

 

Alejandro Torreguitart Ruiz